Una poetessa, una curatrice d‘aste, una dottoressa che applica metodi psichiatrici all’avanguardia in un manicomio. I loro nomi: Boston Rhodes, Estee, dottoressa Ruth Barnhouse. Sono le tre protagoniste di Le ultime confessioni di Sylvia P., romanzo di Lee Kravetz edito da Fazi Editore, in cui le loro voci si alternano un capitolo dopo l’altro, saltando avanti e indietro negli anni, tra la metà del Novecento ed il 2019. Sono tre donne acute, travagliate, pioniere o eccellenti nel loro ambito. Il punto di incontro tra le loro storie è un manoscritto misterioso nascosto in una soffitta, che porta il titolo di La campana di vetro e la firma Victoria Lucas.
Boston Rhodes è un personaggio fittizio, ispirato ad Anne Sexton (1928-1974). Anne Sexton fu una poetessa americana, esponente insieme a Sylvia Plath del genere dalla poesia confessionale. Spinta alla scrittura dal suo terapista, pubblicò durante la sua vita nove raccolte di poesie, tra cui Live or Die, che vinse il premio Pulitzer nel 1967.
La poesia ha uno strano scopo: quello di celebrare il travagliato rapporto tra la parola e ciò che rappresenta. Esiste una rivalità tra le due cose, e dev’essere il poeta ad unirle[1]
Non vorrei soffermarmi troppo sul recensire questo romanzo straordinario, intriso di poesia dalla prima all’ultima pagina, coinvolgente e struggente. Vi raccomando infatti assai caldamente di leggerlo, e non voglio anticiparvi nulla. Piuttosto, preferirei condividere con voi la storia del movimento della poesia confessionale o confessionalismo, e parlarvi delle due poetesse, Sylvia Plath e Anne Sexton, attorno a cui ruota il romanzo di Lee Kravetz.
Sarebbe certamente impossibile contenere anche solo parzialmente la vita e le opere di due delle più grandi poetesse del Ventesimo secolo in un solo articolo. Cercherò quindi di fornirvi alcune suggestioni su queste due artiste prigioniere della loro forza creatrice, ispirazione l’una per l’altra e nello stesso tempo rivali nel tentativo di catturare la realtà nelle parole, nella logica e nel suono. Nel caso in cui vogliate approfondire la figura di Anne Sexton, vi consiglio caldamente la lettura di un altro degli articoli del nostro blog, Anne Sexton: l’anima nuda di una donna, di Silvia Leuzzi.
Il movimento della poesia confessionale si sviluppò negli Stati Uniti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del Novecento come branca del Postmodernismo. Tra i suoi esponenti si annoveravano Maxine Kumin, Robert Lowell, George Starbuck, oltre appunto a Sexton e Plath, tutti menzionati nel romanzo, ma anche John Berryman e William de Witt Snodgrass.
Le poesie sono fortemente introspettive, con riferimenti a varie condizioni psichiatriche e al tentativo di curarle, alla morte, alla sessualità e alle dipendenze. Tutti questi temi, alcuni dei quali considerati taboo, sono affrontati per la prima volta in modo così aperto, scandagliando il trambusto che agita gli animi di chi scrive in modo estremamente sincero. Titoli come In celebrazione del mio utero o La ballata della masturbatrice solitaria, ma anche Daddy catturano bene l’approccio inedito di questi autori. La poesia confessionale è infatti radicata nelle esperienze vissute e nell’io dei poeti, e trasforma confessioni e pagine di diari in versi tecnicamente eccellenti, attraverso l’uso della prima persona, di similitudini e ampio uso del simbolismo.
Siamo dei letteralisti! Siamo degli specchi! Siamo portatori di emozioni! “E soprattutto” aggiungeva, “scriviamo poesie da un manicomio, al riparo dalla ragione”[2]
Sia Sexton che Plath furono afflitte da malattie mentali e commisero suicidio tramite intossicazione da monossido di carbonio. Le loro anime travagliate hanno prodotto capolavori geniali e pregni di emozioni violente.
Il problema è
che lasciavo congelare i miei gesti.
Il problema non era
Nella cucina o nei tulipani
era solo nella mia testa, nella mia testa[3].
Oltre a molteplici poesie, Sexton scrisse vari saggi sulla poesia. La campana di vetro fu invece l’unico romanzo di Sylvia Plath, pubblicato inizialmente sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. Anche nella prosa le sue fragilità sono messe a nudo, le cure psichiatriche descritte nel dettaglio, come l’elettroshock a cui deve sottoporsi come cura:
Poi qualcosa calò dall’alto, mi afferro e mi scosse con violenza disumana. Uii-ii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un’aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finche fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due. Che cosa terribile avevo mai fatto, mi chiesi[4].
Kravetz riesce perfettamente a delineare gli animi delle due poetesse e degli altri personaggi, ripercorrendo le tappe delle loro vite ma andando ben oltre gli squilibri psichici che le affliggevano e riuscendo a trasmetterne l’indiscutibile grandezza artistica.
Non stupisce quindi che Le ultime confessioni di Sylvia P sia stato acclamato dalla critica: è un romanzo avvincente, un puzzle da risolvere, e ci trascina nel pieno di un movimento letterario, nel turbine del processo creativo delle sue massime esponenti. Assolutamente consigliato.
In copertina: Gordon Ames Lameyer, Sylvia Plath’s ‘Marilyn’, 1953