Musica consigliata durante la lettura[1]: una qualunque tra le colonne sonore del gioco, tutte reperibili su YouTube cercando “pathologic ost”, “pathologic soundtrack” o similia: afasici ed eterei inni della steppa che ci accompagneranno durante la nostra discesa in una mente frammentata e stordita dai miasmi della malattia.
Allow me to remind you that an epidemic of unknown origin has already eradicated a few genuinely distinctive towns in the northern part of the country. The cause and circumstances of these tragic events remain uncertain. There is a lot that we cannot explain yet.
It appears as though the plague has a mind of its own, as if it is driven by some irrepressible will. Why else has no one managed to fight it succesfully? Why does it target the most precious aspects of our existence?
The Sand Plague picks its victims fastidiously – and the same principle always draws it back to whoever tries to oppose it.
Surprisingly, we’ve yet to hear a single world from the Powers That Be.
Permettimi di ricordarti che un’epidemia di origine sconosciuta ha già annientato alcune peculiari città nella parte settentrionale del paese. La causa e le circostanze di tali tragici eventi rimangono sconosciute. C’è molto che non possiamo ancora spiegare.
Sembra che la pestilenza abbia una sua mente, come se a guidarla ci fosse una volontà irrefrenabile. Come mai, altrimenti, nessuno è riuscito a contrastarla con successo? Perché essa prende di mira gli aspetti più preziosi della nostra esistenza? La Piaga di Sabbia sceglie meticolosamente le sue vittime – e lo stesso principio la attira sempre su coloro che tentano di opporvisi.
Sorprendentemente, non abbiamo ancora saputo nulla dai Poteri Superiori.
Queste le premesse di Pathologic, videogioco realizzato nel 2005 (con una versione HD ritradotta del 2015) dal produttore russo Ice-Pick Lodge il cui titolo originale e più adeguato, Mor. Utopiya (Мор. Утопия), include contemporaneamente i termini «Pestilenza» e «Utopia»: con l’aggiunta, tramite le particolarità della lingua russa, di un riferimento a Tommaso Moro, creatore del secondo termine e autore dell’omonima opera letteraria.
Carne al fuoco, si capisce, ce n’è tanta. Non indugiamo.
Un ammasso industriale di case dimenticato in una malsana, ancorato alla brutalità del suo sostentamento (il gigantesco e tumorale Mattatoio che siede a una delle sue estremità) e proteso ad astrazioni metafisiche che il resto del mondo non riesce neppure a contemplare, emblema delle quali si erge la struttura aliena del Poliedro: fantomatica torre sospesa nel vuoto la cui palese violazione delle leggi della gravità sconvolge persino il suo artefice, il visionario madido d’alcol Peter Stamatin.
È un universo ermetico, ostico come non mai alla comprensione di uno straniero quanto trasparente agli occhi degli indigeni, innatamente armonizzati con le sue confuse leggi e con il connubio tra realtà decadente e sovrannaturale minaccioso; un microcosmo sconvolto ulteriormente dall’avvento della pestilenza del titolo, vorace come un’epidemia reale e inevitabile come una punizione divina. A incombere su questo inquietante e malsano palcoscenico, un ancora più cupo: atopica Russia di primo Novecento dominata dalla ferrea stretta dei sanguinari inquisitori e dei loro leader senza volto, i Poteri Superiori[2]
Il giocatore sarà chiamato a rivestire i panni di uno di tre personaggi, impelagati nella ricerca di una cura come nelle lotte di potere intestine al corpo malato della città; per non parlare degli intrighi tessuti alle spalle del nostro alter-ego dagli altri due interpreti “scartati”. Guaritori, ciascuno a modo suo; nessuno in totale fedeltà all’ideale ippocratico: Daniil Dankovsky, il Baccelliere, giovane prodigio scientifico bramoso di estendere la longevità dell’essere umano oltre i suoi presunti limiti; Artemiy Burakh, l’Aruspice, nativo della città il cui retaggio ne fa al contempo macellaio e chirurgo, mistico e brutale assassino; Klara, la Devota Trovatella[3], figura al contempo messianica e diabolica, di volta in volta santa guaritrice e untrice del contagio – o forse entrambi i ruoli contemporaneamente.
I tre improvvisati salvatori si batteranno contro la peste in un’estenuante lotta lunga 12 giorni, scanditi da un ineluttabile orologio di gioco (che, per necessità, farà coincidere un minuto a un breve giro di secondi). E, alla fine di ogni giornata, il gioco tirerà le somme: aver compiuto il nostro incarico giornaliero ci porterà un passo più vicini alla soluzione del problema. Fallire, non giungere per tempo, dedicarsi ad altro non penalizzerà direttamente l’impresa[4]: tuttavia, vista la nostra negligenza, qualcun altro dovrà sacrificarsi per noi, fare ciò che noi non siamo stati in grado di fare mettendo a rischio la sua salute.
Sulle nostre spalle pesano infatti, oltre alle vite di tutta la cittadinanza, le specifiche esistenze dei nostri Sostenitori Connessi[5]: personaggi principali della vicenda, varianti a seconda dell’identità del protagonista. Saranno loro, in caso noi dovessimo fallire, a prendere in mano la situazione, facendo proseguire la nostra avventura a costo della loro.
…the single best and most important game that you ’ve never played…
…il gioco migliore e più significativo che non avete mai giocato…
(Quintin Smith nella prima parte di uno splendido trittico su Rock Paper Shotgun)
Quella di Pathologic vicenda complessa ed estremamente sfaccettata; una matassa intrisa di umori che, per essere compresa in ogni suo singolo nodo, andrà vissuta secondo il punto di vista di ciascun personaggio – impresa non facile, come vedremo. Ma andiamo per ordine.
I nuclei focali del gioco sono diversi e in apparenza contraddittori: carne e filosofia, sangue e pensiero, società tribale e civile. Opposti che, nella marea fatiscente di edifici abbandonati nel silenzio, si rivelano però inscindibili, caratterizzanti gli uni la forma degli altri.
Chi più si è allontanato dalle barbarie della steppa, affidandosi ai meccanismi della moderna vita sociale e ascendendo ai più alti incarichi del cupo abitato, accetta con timore reverenziale l’autorità onirica delle Signore, veggenti dai poteri ereditari sotto la cui egida la città prospera e dispera assieme in un crudele equilibrio.
Chi fatica giornalmente nel ventre rigonfio del Mattatoio, prototipo del bistrattato lavoratore capitalista costretto nella fatiscente “casa-lavoro” nota come Termitaio, si scopre detentore di privilegi sciamanici che sono tabù per chiunque altro: autorizzato lui solo a operare sui corpi, materia della vita, e per estensione sul grande e nero corpo della terra che ospita tutti.
Sul suo truculento sostentamento la città basa la sua stessa onomastica, prerogativa della classe dirigente: il distretto ricco è la Testa, giustamente sormontata da Corna, e sotto di essa si snoda il resto dell’agglomerato; dalle Costole benestanti alla Spina Dorsale che ospita il municipio, fino alle Vene abitate dai più poveri.
Posto quasi nel centro esatto della città, in quello che appropriatamente è detto il Cuore, c’è il teatro cittadino, dominio del mefistofelico trickster Mark Immortell. E non si tratta di un caso, o di una decisione di design qualunque. Il teatro, infatti, è il fulcro dell’esperienza di Pathologic. È presso gli spalti del piccolo edificio che si apre il gioco, ancora prima della scelta del personaggio, con una vistosa digressione rispetto all’immedesimazione e alla vicenda in sé. Sempre qui, alla fine di ogni giornata, il gioco ci permetterà di fare il punto della situazione con un’enigmatica infrazione della quarta parete: un mimo immobile che vedrà in scena il nostro protagonista o altri interpreti della vicenda – termine azzeccatissimo – congelati nelle fattezze di un complesso marmoreo, a determinare lo sviluppo della trama.
Il messaggio, in termini metaludici e non, è chiaro.
Non siamo che attori della nostra storia e di quella d’altri. Personaggi chiamati a recitare una parte: per tutti i dodici, sfiancanti gradini verso la Fine scanditi da un meccanico avviso mattutino, durante enigmatiche conversazioni a scelta multipla dal sapore letterario con gli altri istrioni che occuperanno una buona maggioranza del nostro tempo (intervallate da monotoni spostamenti, goffi combattimenti e disperati tentativi di procacciarci cibo, medicine e armi).
Personaggi che ci offriranno le loro opinioni, i loro punti di vista, che interverranno in maniera più o meno incisiva sulla trama, di volta in volta mentendoci spudoratamente o aprendosi a noi nella loro contorta intimità: sottoposti tutti, dal primo all’ultimo, a una graduale evoluzione, a sviluppi caratteriali e psicologici. Una miriade di interpreti dinamici ed estremamente caratterizzati, vero fulcro della storia che il gioco aspira a essere: Vlad Olgimsky il Giovane, imprenditore scaltro e apparentemente privo di remore anche nel tessere trame intorno alla sua ricca famiglia; Yulia Lyuricheva, studiosa devota a una logica fredda e matematica contro l’insensatezza del mondo che la circonda; i gemelli Stamatin, architetti di talento sovrumano dediti l’uno alla brutalità criminale e l’altro all’autodistruzione alcolica.
Un cast unico e variegato, pronto all’aprirsi del sipario a mettere piede sul palcoscenico della malattia e della distruzione di tutte le certezze.
Persino le “mascotte” del gioco[6] sono esplicitamente connesse all’ambito teatrale: i mortiferi Esecutori, sagome prive di ogni parvenza umanoide dominate da grandi maschere in guisa d’uccello (come gli storici medici della peste), e i Tragici, esili parodie della forma umana coi volti sigillati in un’espressione di assoluta e farsesca estraneità, orientati più a una grottesca commedia che alla tragicità; «come tutti i mimi», sostiene la Wiki ufficiale del gioco con una definizione che trovo estremamente delicata, essi «sono gentili, compassionevoli e moderatamente inutili[7]».
Figure immerse nel loro ruolo istrionico con punte che sembreranno talvolta indirizzate alla consapevolezza videoludica, le due maschere si rivela laconici commentatori della nostra vicenda, impietose voci fuori campo di una strage che essi percepiscono per ciò che è: finzione, opera fittizia.
Pathologic could not ever be described as fun. Tramping back and forth across town, trying to stem the torrent of deaths while aching to know what’s going on /is not fun./
This is not a game.
There isn’t a word for it really, which is probably why the developers, Ice-pick Lodge, call Pathologic “an exercise in decision making” on their translated English website.
Pathologic non è divertente. Andare avanti e indietro per la città tentando di arginare la fiumana dei decessi senza sapere cosa sta succedendo non è divertente.
Questo non è un gioco.
Non esiste una parola per descriverlo, in verità: e probabilmente è per questo che gli sviluppatori di Ice-pick Lodge definiscono Pathologic un “esercizio nel prendere decisioni” sul loro sito tradotto in inglese.
(Quintin Smith nella seconda parte del trittico sovracitato)
La monotonia “merita” una menzione a parte. Pathologic non è bello da giocare, mai.
Se il clima fatiscente studiato nel dettaglio e l’opprimente e monotona colonna sonora possono risultare fertili spunti di partecipazione, il gameplay si rivela confusionario, punitivo, fastidioso, terribilmente noioso. Le lunghe, lunghe sessioni di camminata per trasferirci da un luogo all’altro – sempre gli stessi, per le oltre 20 ore richiesteci per terminare il gioco – non faranno che diventare infernali nel momento in cui a inficiare il nostro percorso interverranno azzardi ambientali di vario genere connessi alla peste, imprevedibili e mai fruttuosi: vere e proprie spine nel fianco che ci costringeranno a sprecare risorse preziose o a ricaricare con rabbiosa insistenza un salvataggio precedente.
Le stesse missioni che ci verranno affidate nel corso dell’avventura si riveleranno intricate, contraddittorie, ripetitive se non nella sostanza almeno nell’esecuzione, spesso confusionarie. Ammetto senza remore di aver contrastato la noia solo. con grande fatica, a giocare centimetro per centimetro di trama, e di aver vissuto la mia esperienza con una guida del gioco sotto gli occhi: perché la frustrazione per le irritanti meccaniche di gioco non mi spingesse a dare forfait e abbandonare un’esperienza nella cui narrazione e nella cui forma è possibile percepire un’autorialità di altissimo livello
In conclusione: ritengo Pathologic un’opera grande, unica, meravigliosamente “sceneggiata”, ricca di spunti e di sapienti rimandi intertestuali?
Sì.
Lo consiglio?
No.
È qui che si situa la grande contraddizione: siamo in presenza di un’opera grandiosa, resa inavvicinabile dalla sua scorza videoludica involuta ed escrescente. Il nucleo di Pathologic ricorda la sostanza multiforme e sfaccettata del Poliedro: una ricchezza umana e narrativa di difficile paragone, sogno di un gruppo di sviluppatori visionari. A rivestirla, però è il carapace del Mattatoio; disperatamente uniforme, rozzo e scoraggiante per chiunque.
Pathologic, invero, potrebbe restare “il più grande gioco che non avete mai giocato”…
…sempre che il suo progetto di remake, previsto per il 2018 e vittoriosamente approdato su Kickstarter, non arrivi a limare tutte le pecche dell’originale: riconsegnandocelo immutato in tutta la sua grandezza di romanzo ma, finalmente, giocabile.
La speranza è l’ultimo a morire; almeno fuori dall’universo miasmatico di Pathologic
In caso qualche valoroso volesse tentare prematuramente l’impresa, comunque, spero si degnerà di accettare un consiglio: fai provviste il primo giorno, come se non ci fosse un domani.
Non è detto ci sia.