Dalla Colombia, un paese «di amnestici, dove i narcotrafficanti diventano senatori e i senatori narcotrafficanti», agli Stati Uniti, il paese che tutti sognano, nonostante non manchino ineguaglianza e violenza, esattamente come nel loro paese d’origine. Dalla notte illuminata solo da stelle brillanti conficcate nel cielo di Bogotà, a quella della città, piena di milioni di luci di auto, lampioni, case. Dal possedere una casa alla precarietà di una vita scandita da continui traslochi da un seminterrato sovraffollato e affittato abusivamente all’altro. In poche parole: un’altra vita.
Mauro ed Elena affrontano questo cambiamento immenso lasciando Bogotà, sull’orlo di una guerra civile, alla volta dell’America, portando con loro Karina, la loro bambina, e dicendo arrivederci a Perla, la madre di Elena. Una scelta che, negli anni a venire, metteranno in discussione molte volte, specialmente quando la loro famiglia sarà costretta a dividersi tra i due paesi; una decisione mossa da un desiderio estremamente umano, ossia quello di trovare un futuro migliore, che avrà conseguenze dolorosissime. In quel momento però, erano giovani e convinti che nessuna delle loro scelte sarebbe stata per sempre.
Non vorrei dilungarmi troppo nella descrizione della trama per far sì che anche voi veniate catapultati nel romanzo Paese infinito e possiate provare un senso di pathos tanto intenso quanto quello che ho sperimentato io durante la lettura. Patricia Engel è una voce emergente, che con questo romanzo ha vinto il New American Voices Award, promosso dall’Institute for Immigration Research, nel 2021. Ho scoperto di questo suo riconoscimento solo a lettura conclusa, e non mi ha affatto stupita: Paese Infinito mi ha fatta commuovere mentre leggevo sulla metropolitana, riflettere sul tema delle migrazioni, vedere il mondo da un’altra angolazione.
La narrativa che circonda il tema delle migrazioni ruota spesso intorno a numeri e statistiche e, di tanto in tanto, si concentra su qualche dramma eclatante. Spesso però i media falliscono nel raccontare le dinamiche relative al micro-livello, ossia le difficoltà che deve fronteggiare ogni singola persona che sceglie di o che è costretta a lasciare il proprio paese. Proprio per questo motivo credo che questo libro sia una lettura quantomai necessaria: oltre ad essere estremamente ben scritta e coinvolgente, può aiutare a comprendere la complessità del fenomeno migratorio, analizzandolo da una prospettiva diversa.
Mi ricordo di essermi chiesto che cosa si debba provare a essere un bianco americano e a sapere che puoi fare tutto quello che vuoi perché nessuno di quelli a cui vuoi bene può essere deportato.
La famiglia di Mauro ed Elena impara a convivere con la paura. A cambiare strada o infilarsi in un negozio non appena vede un poliziotto in lontananza. Sanno che ogni errore potrebbe costare loro la deportazione in Colombia. Un’esistenza fragile e precaria, resa ancora più terribile dalle difficoltà economiche e dalla lontananza dalle montagne e dal cielo cristallino di Bogotà.
Emigrare era come staccarsi di dosso la pelle. Come disfarsi. Ti svegli ogni mattina e ti dimentichi dove sei, chi sei, e quando il mondo di fuori ti mostra il tuo riflesso, è brutto e distorto; sei diventato una creatura disprezzata, indesiderata.
Se potessi, ringrazierei Patricia Engel per questo romanzo che non può che acuire la nostra vicinanza alle persone che vivono ogni giorno una vita clandestina, senza capire se sono traditi dal luogo in cui sono nati o se sono loro ad averlo tradito, prigionieri di scelte in cui non esiste soluzione più etica dell’altra.
E forse non esistono nazioni o cittadinanze; sono solo territori disegnati su una mappa, lì dove dovrebbe esserci la famiglia, dove dovrebbe esserci l’amore, il paese infinito.
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