Care lettrici e lettori di Storie Sepolte, ben tornati. Dopo aver brevemente discusso di alcuni personaggi chiave della storia greca mi accingo a fare una breve (ma spero significativa) rassegna di alcune opere e autori latini, con l’intento di suscitare in voi un caldo (o almeno tiepido) interesse per ciò che suscita in me grande piacere e un sincero e profondo affetto. Uno sguardo moderno, contemporaneo con finalità non accademiche, verso l’antico. Un antico che in alcuni casi non è affatto distante da noi, dalla nostra vita quotidiana, dal nostro modo di essere e di sentire.
Oltre la lente, lo sguardo ironico e disincantato su ciò che ci circonda, oltre l’impressione e il giudizio sulla realtà, oltre il ciarpame, l’irrazionale, l’eros e il mistico: l’uomo. Cercare di imboccare il giusto sentiero, erto da scalare, piacevole se si è in ottima compagnia, è l’obiettivo che si prefigge Orazio, scrittore del primo secolo a.C., autore di odi e satire, genere tutto romano, eclettico e poliforme.
Insomma, rientra per scelte poetiche e metodo, tra gli autori classici, accanto a Virgilio, Catullo e Ovidio[1].
Acuto osservatore del contemporaneo, Orazio rinnova il genere satirico, riducendone la varietà metrica e tematica[2], assottigliando il tratto grossolano delle Satire di Lucilio[3], abbandonando quasi completamente il poetare di Ennio[4] (per quanto ci è dato sapere). I suoi Sermones contengono una vena diatribica[5] molto meno evidente, una fioca (ma non per questo meno pungente) aggressività e uno stile limato ben lontano dall’eccesso luciliano. Orazio ricorre a diversi moduli narrativi, tra cui il Dialogo platonico[6], senza mai risultare noioso, pedante o dottrinario. Sempre piacevole e misurato nello stile, quasi mai eccessivo nel contenuto.
Ma il suo essere è franto, scisso e instabile, lontano da ciò che noi consideriamo classico. In un primo momento, corrispondente al primo libro della Satire, Orazio riesce a trovare il proverbiale giusto mezzo, a procedere come un equilibrista su una corda tesa, evitando di cadere nei recessi oscuri della selva sottostante: predica contro gli eccessi di qualunque natura, contro gli avari e gli scocciatori (Satira I e IX), contro gli adulteri e gli scialacquatori (Satira II e I). Inoltre è capace di una severa autocritica: riconosce di non essere perfetto, di possedere molti piccoli e comuni difetti. Sceglie di non eccedere nel bene ma neanche di soggiacere al male: trova l’equilibrio tra l’autharkeia stoica e la metriotes[7] romana.
Questo equilibrio, delicato come un’ampolla di vetro soffiato, è destinato a infrangersi quasi subito, nell’arco di pochi anni e a portare via con se lo stesso Orazio che quasi scompare nella seconda raccolta, divorato da filosofi, anfitrioni e figure mitiche che assumono il ruolo da protagoniste in queste nuove composizioni.
Ma lo è veramente? È veramente uomo dai tanti vizi e inconcludente? Incapace di ottemperare i propri doveri? Di ascendere quella collina che si staglia davanti ai suoi piedi? Di raggiungere l’obiettivo prefissato? Obiettivo che non è la vita del saggio, peraltro fortemente beffeggiata nel corso di tutta l’opera (secondo i diversi modelli filosofici correnti). Damasippo (Satira III), poeta e filosofo, apostrofa Orazio, anzi l’avvilisce sotto un enormità di discorsi, descrivendo i vizi capitali comuni a tanta parte del volgo e dai quali Orazio stesso è inficiato. Ne critica la pigrizia, l’avidità e l’accidia. Orazio non risponde, scompare e incassa colpi su colpi, facendoci credere di essere colpevole.
Quindi, in sostanza, qual è l’obiettivo di Orazio?
Banalmente è la serenità dell’animo, la sicurezza delle proprie certezze, l’affetto e la stima di chi lo circonda, l’impressione di non essere scivolato via tra le pieghe del tempo, dimenticato. Esserci in serenità: paradigma dell’uomo di oggi? O comune desiderio dell’uomo da sempre?
Orazio ci appare schietto, divertente e ironico (l’arma più potente sguinzagliata dall’autore nelle sue satire). Lo considero molto vicino al mio sentire, quasi un amico sincero che apre la sua mente e il suo cuore al lettore: a volte ambiguo e sfuggente, per lo più chiaro e onesto.
Infine, per quanto vicino al mio (nostro?) modo di sentire e vedere la realtà, Orazio è pur sempre figlio del suo tempo, influenzato dai luoghi in cui vive e opera, frutto del suo percorso di vita. La prima raccolta di Satire è stata pubblicata nel 35 a.C. mentre la seconda nel 30 a.C.: è il momento conclusivo delle guerre civili, la nascita del futuro impero di Augusto. Orazio non nasce in una famiglia gentilizia, sopporta appena il frastuono della vita della capitale: quella realtà caotica e subdola che si insinua (come egli stesso scrive) in ogni momento della sua esistenza. Fuggirà in campagna grazie all’aiuto del caro Mecenate[8].
Ma anche tra le tamerici e le piante dell’orto non vivrà sereno. Tenderà sempre a qualcosa di meglio, imboccherà più volte l’erto sentiero, sempre più solo, forse.
Così, in fondo al nostro cuore si deposita la consapevolezza di un uomo scisso, non molto distante da noi: il disagio indefesso di un uomo contemporaneo e il suo sguardo, critico, ironico e quanto più possibile distaccato, tra le grigie vie di una metropoli.
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