Petronio, sedutosi proprio alla nostra sinistra, si rivolge agli altri poeti del cenacolo infernale, tra i quali spicca il nostro Dante vestito di rosso, emanando un intenso effluvio di profumi e fragranze mediorientali ad ogni suo gesto (lontano ricordo di quella Provincia Romana da lui governata?)[1] e incomincia:
«Viveva in Efeso una matrona tanto nota per la sua virtù, che anche le donne dei paesi vicini ne parlavano con ammirazione. Avendo costei perduto il marito, non contenta di seguirne il funerale con i capelli sciolti e percuotendosi il petto nudo alla presenza di tutti, seguì il defunto anche nella cripta sepolcrale, dove cominciò a vegliare e a piangere giorno e notte presso il cadavere. Si struggeva tanto che sembrava volesse morire d’inedia, resistendo ai genitori e ai parenti che tentavano di riportarla a casa. Respinse anche i magistrati che avevano tentato di convincerla, e rimase ad offrire quel singolare esempio di fedeltà, compianta da tutti, per ben cinque giorni e sempre senza toccare cibo. Accanto a lei, altrettanto afflitta, sedeva la sua fedelissima ancella anch’essa in lacrime e sempre attenta ad alimentare la lucerna davanti alla tomba, ogni volta che l’olio si consumava.
Tutta la città parlava del fatto, e gli uomini d’ogni condizione affermavano che quello era l’unico, vero e lampante esempio di fedeltà e amore.»
(Petronio, Satiricon, traduzione di Piero Chiara, introduzione di Federico Roncoroni, Mondadori, Milano 2010 [1969], p. 307)
Il nostro allora, presagendo la trappola che il nuovo arrivato stava astutamente costruendo, lo interrompe (pur usandogli cortesia) per ricondurre il dialogo su un piano più idealizzato ed astratto, rifacendosi e citando alcuni dei suoi versi, tra i più belli della nostra tradizione (e per i quali, lo ammettiamo, ci sentiamo orgogliosi pure noi):
Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingue deven tremando muta,
e li occhi non l’ardiscon di guardare.
[…](Dante, Vita nova, cap. XXVI, 5-7, Rosa fresca aulentissima di Corrado Bologna, Paola Rocchi, Loesher Torino 2010, p. 316)
In effetti, sottolinea Petronio, accompagnando il suo ritorno quasi con uno sguardo di scherno rivolto al poeta fiorentino (che gli perdoniamo soltanto perché lo stimiamo davvero molto), la lucerna collocata davanti la tomba aveva richiamato le attenzioni di un soldato, allora occupato a fare la guardia ai cadaveri di tre ladri crocefissi, che non si limitò a (non) guardare la bella e triste matrona ma si spinse oltre.
E così noi prendiamo atto, ancora una volta, della distanza culturale, di tradizione e di modelli e di scopo che intercorre tra l’antico e il moderno, tra la donna, forse bassa e passionale ma determinata che ci racconta Petronio e la donna-angelo, la summa di perfette virtù incarnate da Beatrice, a cui il poeta tende in un percorso decennale, cercando di descriverci la perfezione del modello (e il suo ruolo salvifico) per la sua vita.
E non possiamo che richiamare la nostra attenzione, mentre Petronio continua a narrare una storia che già conosciamo, al futuro poeta che Dante non conoscerà mai e che pure ha influenzato la nostra storia lirica quasi più del poeta di parte guelfa: Francesco Petrarca.
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
Che ‘n mille dolci nodi gli avolgea,
e ‘l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;[…]
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma ‘angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.[…]
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 90, in Rosa fresca aulentissima, op. cit. p. 562.
Ma ci facciamo ringhiottire dalle parole dell’autore romano:
[…] Rifocillata dalla bevanda e dal vino, tentò anche lei (la serva) di vincere l’ostinazione della padrona dicendole: “Perché vuoi morire d’inedia e seppellirti viva prima che i fati richiamino la tua anima innocente? Credi che i morti sentano e capiscano? Scuoti di dosso questo dolore femminile e godi le gioie della vita fin che ti è possibile. Proprio il cadavere qui disteso dovrebbe convincerti a vivere”. […] L’ancella, per renderglielo simpatico, le ripeteva continuamente: “Ti opporrai forse a un gradevole amore? Non hai ancora capito in che mondo viviamo?”.
(Op. cit. p. 311)
Virgilio allora sorride a Petronio, riascoltando nelle orecchie le sue parole (che poi erano le proprie) già vergate, di sua mano, molti secoli prima: le parole, il consiglio di Anna rivolto alla sorella Didone, la regina di Cartagine tremendamente innamorata di Enea, il pio Enea, in quel libro IV dell’Eneide che sarà tanto ammirato dagli occidentali nei secoli successivi.
Ma Orazio fa cenno, impaziente, affinché si continui la fabula milesia[2]di Petronio e che si giunga, finalmente, alla degna conclusione e in questo è pienamente supportato da Ovidio, meno da Lucano (che resta, a noi, impenetrabile).
La donna, facilmente persuasa dal soldato, dopo aver rinunciato all’astinenza dal cibo, depose ogni altro ritegno. Giacquero dunque insieme non solo quella notte in cui fecero le nozze, ma anche il secondo e il terzo giorno […]
(Op. cit. p. 311).
Interrotto ancora una volta da Dante che, non pienamente favorevole all’intromissione di un personaggio non conosciuto e, per altro, così licenzioso in certe sue espressioni, prova a riportare il discorso su un piano di nuovo astratto, citando questa volta i versi di un suo caro amico:
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’ȃre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?
[…](Guido Cavalvanti, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, in Rosa fresca aulentissima, p. 230)
Ma il maestro nostro lo guarda e il fiorentino tace, così da lasciar proseguire elegantiae arbiter che lo ringrazia divertito:
Conquistato dalla bellezza della donna e attirato dal sapore di mistero che l’impresa andava prendendo, il soldato comperava tutte le cose buone che poteva trovare con i suoi mezzi, e non appena scendeva la notte le portava nella tomba. Finché i parenti di uno dei crocefissi, vedendo che la sorveglianza si era allentata, nottetempo tolsero dalla croce il loro caro penzolante e gli resero l’estremo omaggio.
(Op. cit. pp. 310-313)