Prima o poi tutto finisce: un amore che ci ha infocato l’animo e il viso, un’amicizia che abbiamo creduto eterna e che poi si è sgretolata sino a sfaldarsi o per la debolezza dei pilastri su cui abbiamo costruito o per il cedimento del soffice terreno di sotto, finisce la guerra (illusione e forza di chi?) che non dovrebbe mai venire eppure è un cancro eterno, l’epoca (o una di quelle) che si è vissuti o attraversati magari incolumi come gli ignavi; la vita.
Già, la vita. E l’amore. Ci dice Petronio: un bisogno, una necessità, del quale la matrona di Efeso, in lutto, non poteva fare a meno. Eppure, ci ricorda, il soldato era stato appena scoperto, non aveva custodito i cadaveri dei ladri, non aveva eseguito correttamente il suo compito. Ciò, sottolinea, significava la fine della loro passione? Forse pure della loro vita?
Il soldato, la cui sorveglianza era stata elusa mentre se la stava spassando, vedendo il giorno dopo una croce senza cadavere e temendo di essere punito, raccontò alla donna l’accaduto, dicendole che non avrebbe aspettato la sentenza del giudice, ma da se stesso, con la spada, avrebbe punito la sua mancanza. Dopo di che invitò la vedova a fargli un po’ di posto, visto che stava per morire, in quel sepolcro fatale che avrebbe contenuto insieme alle spoglie del marito anche quelle dell’amante.
(Petronio, Satiricon, traduzione di Piero Chiara, introduzione Federico Ronzoroni, Mondadori, Milano 2010 (1969), cit. pag. 313).
Noi, tutti con il fiato sospeso (persino Dante che, suo malgrado, riconosce la capacità affabulatoria dell’autore latino), aspettiamo l’epilogo della vicenda e riflettiamo, consapevoli dei secoli successivi di storia letteraria, sulla vicinanza dell’esperienza petroniana ad alcune novelle del Decamerone di Boccaccio o ancora sulla tradizione novellistica successiva (perché non Basile e le sue favole ricche di popolino e sangue e violenza e morte?)
La donna, che al pudore univa la pietà, esclamò: “Gli dei non permetteranno che io assista in così breve tempo al funerale dei due uomini a me più cari. Preferisco appendere un morto, che uccidere un vivo”.
Dette queste parole, fece togliere dal sarcofago il cadavere del marito e suggerì al soldato di affiggerlo alla croce che era rimasta vuota. Il giorno dopo, tutti si chiedevano con stupore come mai il morto fosse salito da sé sulla croce.(Op. cit. p. 313).
Tutti quanti ridono del finale; Dante accenna appena un sorriso sfumato di rosso e rivolge lo sguardo al suo maestro, la sua guida, Virgilio: il viaggio infernale che li attende è ancora molto lungo e il tempo divora i secondi lieti di quell’incontro inaspettato.
Ma l’autore fiorentino, nuovo eppure più affine a quella compagnia rispetto a noi, prende la parola, ricordando la fine della sua storia d’amore con Beatrice, ormai avvenuta un decennio prima per la di lei prematura scomparsa:
Lasso! per forza di molti sospiri,
che nascon de’ penser che son nel core,
li occhi son vinti, e non hanno valore
di riguardar persona che li miri.E fatti son che paion due disiri
di lagrimare e di mostrar dolore,
e spesse volte piangon sì, ch’Amore
li ’ncerchia di corona di martìri.Questi penseri, e li sospir ch’eo gitto,
diventan ne lo cor sì angosciosi,
ch’Amor vi tramortisce, sì lien dole;però ch’elli hanno in lor li dolorosi
quel dolce nome di madonna scritto,
e de la morte sua molte parole.(Dante Alighieri, Vita Nova, XXXIX, 8-10)
Accogliamo muti le sue parole, in spenti minuti che, tetri, ci lasciano come vive statue su un prato ad attendere un moto esterno che ci sbatacchi, che ci faccia uscire da quell’apatia in cui siamo caduti: dopo il riso viene il pianto.
Questo pensiero ci fa ritornare le parole di quell’autore siciliano, quell’italiano che aveva salutato uno dei suoi personaggi con queste dure parole:
Rimase così, con una sorta di ghigno, non perverso ma lieto, dipinto sul viso, un ghignetto che gli conoscevo, così vivido che mi ci volle tempo per capire ch’era finita, e che ogni minuto, a partire da quello, sarebbe stato uguale per lui: una catena uguale di neri minuti, un fiume senza sponde di identici, eterni, inaccaduti minuti.
(Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Bompiani, Milano, 2014 (1981)
Allora il nostro maestro, commosso, rompe il silenzio ricordandoci a sua volta non solo il fatale amore della regina cartaginese e del pio Enea, ma anche il lamento d’amore del pastore Corìdone per il bell’Alessi, che conclude:
Ma io brucio d’amore: come si può dar regola all’amore?
Corìdone, Corìdone, quale follia ti ha preso!
La vite sopra l’olmo rigoglioso non l’hai tagliata ancora.
Perché non pensi almeno a preparare qualcosa che ti serva,
ed intrecciare il molle giunco e i vimini?
Troverai, se questo ti rifiuta, un altro Alessi.(Virgilio, Bucoliche, a cura di Maria Cavalli, Mondadori, Milano 2011 (1990), Egloga II, vv: 69-73, p. 19).
E subito dopo, consapevole del viaggio di salvezza intrapreso e del suo ruolo di guida, esorta Dante a riprendere il cammino, giù verso la gora infernale. A malincuore, ma in fondo lieto, sussurra addio a tutti i suoi maestri, persino al piacevole (e licenzioso) intruso, conscio che rimarranno, silenti compagni, al suo fianco lungo l’abusato sentiero della vita, compagni di viaggio, e poi? Oltre la morte?
Un addio non è mai semplice, ma in questo caso è necessario.
Noi ci allontaniamo a nostra volta, ritorniamo sui nostri passi solitari e scomparendo nell’oscurità, lontano dalle fiamme e dalle pietre del castello, fischiettiamo nella mente quella canzone di un mondo fantastico a noi così caro:
The road goes ever on and on
Down from the door where it began.
Now far ahead the Road has gone,
And I must follow, if I can,
Pursuing it joins some larger way,
Where many paths and errands meet.
And whither then? I cannot say.(J.R.R. Tolkien, The lord of the rings part 1 – The fellowship of the ring, Harper CollinsPublishers 1991, 2007, p. 96).