I dieci giorni in manicomio di Nellie Bly

Nellie Bly

«Salve. Sono Nellie Bly e voglio scrivere per voi».

Una mattina del 1887, ai piani alti del Pulitzer Building, il grattacielo più alto della New York di fine XIX secolo e sede del quotidiano New York World, una porta di spalancò e il capo redattore John Cockerill non poté credere alle sue orecchie. Davanti a lui c’era una giovane donna ventitreenne che portava il nome della protagonista di una celebre canzone di Stephen Foster e lo sguardo determinato di chi non avrebbe accettato un no come risposta.

«Sono Nellie Bly. Sono una giornalista, e voglio scrivere per voi».

«Molto bene, signorina. Ci sarebbe una cosa di cui potrebbe scrivere. Dovrebbe trovare il modo di entrare sotto copertura a Blackwell’s Island e documentare la vita all’interno del manicomio».

Blackwell’s Island era, all’epoca, uno dei posti con la reputazione peggiore di tutta la città di New York. Ospitava sia l’istituto psichiatrico femminile che il carcere Welfare Penitentiary. Nessuno sapeva con esattezza cosa succedesse all’interno degli edifici presenti sull’isola, ma tutti sapevano che chi entrava, difficilmente ne usciva.

Il New York World si era già occupato in passato dell’ospedale psichiatrico, ma voleva avere prove dei presunti maltrattamenti delle pazienti. E, per ottenerle, bisognava che qualcuno entrasse. Cockerill stava apertamente sfidando la giovane giornalista, proponendole un incarico così pericoloso nella speranza che la ragazza desistesse.

Ma Nellie non si lasciò spaventare. Cosa sarà mai una settimana in manicomio in confronto alle notti passate al fianco delle operaie di Pittsburg per raccontare le loro condizioni vita? O ai sei mesi passati in Messico come corrispondente estero, o alle minacce subite per via dei suoi articoli?

«Ci sto».

Blackwell's Island New York
Il manicomio di Blackwell’s Island in una fotografia di fine Ottocento

La condizione era soltanto una. Nellie non avrebbe dovuto scrivere uno scoop sensazionale, avrebbe dovuto documentare la vita all’interno dell’istituto psichiatrico così com’era, negli aspetti positivi e negativi. Avrebbe dovuto elogiare quello che funzionava e biasimare ciò che non approvava. Come Cockerill sottolineò più volte, l’importante era attenersi ai fatti.

«E come pensate di farmi uscire, una volta che avrò terminato il mio reportage?»

«Ancora non lo so»

Fu così che iniziò uno delle inchieste giornalistiche più famose e conosciute della storia e che avrebbe trasformato Nellie Bly in una pionera del giornalismo investigativo.

Nellie aveva una buona fiducia nelle sue capacità recitative, ma temeva che nessun dottore avrebbe creduto alla presunta follia di una donna sana di mente. Avrebbe dovuto eseguire un’interpretazione magistrale.

Prese l’identità di Nellie Brown, una ragazza da poco immigrata da Cuba. Scelse una delle tante case di accoglienza destinate a donne lavoratrici e affittò una stanza. Sapeva che ai primi segni di follia, le altre ragazze qui alloggiate non si sarebbero sentite al sicuro e avrebbero fatto di tutto per liberarsi di lei.

Decise di passare insonne la notte precedente all’inizio del suo lavoro sotto copertura, per avere un aspetto sofferente e sciupato. Finse di non ricordare nulla della sua vita passata, prima dell’arrivo negli Stati Uniti, di essere sola al mondo. Si dimostrò apatica di giorno, passò la notte urlando.

Bastarono un paio di giorni e si trovò prima davanti ad un giudice, che la reputò mentalmente insana e poi all’ospedale di Bellevue. La diagnosi arrivò così presto dopo una visita così sommaria, che Nellie rimase sconvolta dalla facilità con cui l’aveva ottenuta. Affetta da demenza. Da ricoverare in una struttura dove si possano prendere cura di lei.

Nellie Bly Vignette
Nellie Bly esaminata da uno psichiatra e davanti al giudice Duffy, in due vignette dell’epoca

Ce l’aveva fatta. Sarebbe entrata nel manicomio di Blackwell’s Island.

Condivise l’imbarcazione che la condusse sull’isola con altre due donne. Mrs Louise Schanz, un’anziana signora lasciata a Bellevue dal figlio il cui unico apparente problema era di non parlare altra lingua all’infuori del tedesco e Miss Tillie Mayard che soffriva di debolezza nervosa causata da una lunga malattia. Sperava di trovare l’aiuto di cui necessitava a Blackwell, su suggerimento di alcuni amici. Sembrava non aver capito che si stesse dirigento in un istituto di igiene mentale.

Arrivata sull’isola, l’infermiera che accolse le donne subito intimò loro di spogliarsi. Consegnò loro una camicia da notte e un lenzuolo troppo leggeri per proteggersi dal freddo e dall’umidità causati dallo spessore dei muri. Portò Nellie nella camera che avrebbe condiviso con altre cinque donne, chiuse a chiave la porta intimando di coricarsi e dormire. Erano da poco passate le sei del pomeriggio.

Era il 25 settembre 1887 e Nelly Bly si apprestava a passare la prima delle sue dieci notti in manicomio.

Fu una notte infernale, resa infinita dal freddo penetrante, dal rimbombo militaresco dei pesanti stivali delle infermiere e dal loro improvviso spalancare le porte per controllare. Grida e urla arrivavano incessanti dal dipartimento maschile e, di tanto in tanto, anche la sirena dell’ambulanza che conduceva all’istituto altre donne sfortunate, portando con sé il suono della vita e della libertà alla quale Nellie aveva volontariamente rinunciato.

Il giorno dopo numerosi dottori dell’istituto visitarono ancora Nellie, che oramai si era convinta che nessun medico avrebbe potuto constatare con certezza la sanità mentale di una persona o la sua mancanza. Le chiesero se sentisse delle voci, se vedeva volti, ma nessuno sembrava davvero ascoltare le sue risposte La diagnosi fu la stessa, che si accompagnò all’aggettivo incurabile.

Nellie insieme alle altre nuove arrivate fu costretta a sottoporsi ad una “procedura di benvenuto”. La spogliarono a forza di tutto ciò che aveva indosso, e fu costretta ad immergersi in una vasca di acqua gelata, nonostante le proteste, il battere dei denti per il freddo e il colore livido che stava assumendo la sua pelle. Pensò di affogare a causa delle secchiate gelide che le versarono sul capo. Le proteste le costarono anche una notte in cella d’isolamento, ancora bagnata e con i capelli gocciolanti. Il mattino dopo le consegnarono una sottoveste nera che fungeva da divisa e le pettinarono e legarono in capelli in una treccia strettissima con un trattamento più simile ad una forma di tortura che ad altro.

Gli spazi interni del manicomio di Blackwell's Island in due vignette dell'epoca
Gli spazi interni del manicomio di Blackwell’s Island in due vignette dell’epoca

La settimana successiva fu un costante scrivere sul taccuino che la giovane giornalista era riuscita a portarsi dietro. Documentò la giornata tipo delle 1600 donne rinchiuse nell’istituto. La sveglia prima dell’alba, i pasti miseri e spesso irranciditi o ammuffiti.

Scrisse delle passeggiate mattutine nel parco antistante gli edifici dell’istituto, durante le quali ovunque volgesse lo sguardo, poteva vedere file di donne vestite tutte uguali che marciavano lentamente. Alcune di esse apparivano sporche e trasudate, con la vita fasciata da cinture di pelle e legate le une alle altre da una corda, all’estremità della quale era attaccato un pesante carro. Le spiegarono che erano le donne che risiedevano nel Lodge, l’edificio in cui erano rinchiuse le donne considerate le più pericolose.

Descrisse i momenti dei pasti, in cui venivano serviti cibi scarsi, inadatti al sostentamento di una persona e dall’odore nauseabondo. Una patata lessa, manzo avariato, pane ammuffito. Il tutto servito senza posate e da consumarsi nel completo silenzio.

Descrisse le violenze fisiche, verbali e psicologiche che le donne erano costrette a subire dalle infermiere. I pestaggi, i calci e i pugni, gli insulti. Spesso costringevano le pazienti più mansuete a fare da spola per avvertire nel caso arrivassero i dottori. Ogni scusa era buona per negare alle donne ogni forma di piacere, soprattutto l’amato pianoforte della sala comune.

Nellie si rese conto di come queste procedure, questa rudezza stessero spingendo davvero verso la pazzia Tillie Mayard, la sua compagna di viaggio verso il manicomio e con la quale strinse preso un legame di amicizia. Giorno dopo giorno precipitava sempre più verso uno stato di apatia.

Vita quotidiana nel Blackwell's Island da due vignette dell'epoca
Vita quotidiana nel Blackwell’s Island da due vignette dell’epoca

Raccontò la vita di altre detenute. Di Tillie Mayard, di Louise Schanz. Di Josephine Despreau, emigrata negli Stati Uniti, lasciando in Francia il marito e tutti i suoi conoscenti. Una mattina era stata colta da debolezza e la padrona di casa aveva chiamato due ufficiali che la condussero al commissariato. O di Sarah Fishbaum che il marito aveva fatto rinchiudere dopo aver scoperto la sua relazione con un altro uomo. O di Margaret che un giorno aveva litigato con il proprietario del locale dove lavorava come cuoca che in seguito l’accusò d’insanità mentale. Di Carry Grass, che sembrava pazza davvero.

Tante storie diverse di donne con la stessa tragica meta.

Quando decise di aver raccolto abbastanza materiale per la sua inchiesta, Nellie smise di fingersi pazza e cercò di convincere i dottori della sua sanità mentale, atteggiandosi in modo ordinario. Tuttavia, più parlava e agiva, normalmente, più loro la consideravano malata.

Dopo dieci giorni, Nellie riuscì ad uscire dall’isola di Blackwell grazie ad un avvocato mandato da John Cockerill. Per mantenere la copertura riuscì a convincere i medici di aver trovato qualcuno disposto ad occuparsi di lei.

Il reportage fu pubblicato come una serie di articoli sul New York World a partire dal dicembre 1887 e successivamente in un libro, Dieci giorni in manicomio. Nellie definì l’istituto d’igiene mentale di Blackwell’s Island «Una trappola umana per topi. È facile entrare ma, una volta lì, impossibile uscire».

Gli articoli destarono grandissimo scalpore e venne aperta un’inchiesta. A seguito della testimonianza di Nellie, la commissione destinò 10 milioni di dollari, più di quanto mai fosse stato stanziato, alla cura del malati di mente.

Nellie tornò successivamente all’istituto, che ora appariva impeccabile. Non c’era più traccia, però, delle donne da lei citate nell’inchiesta e ritenute sane. Alcune irrintracciabili o trasferite altrove, altre morte. Riuscì a rivedere solo Tillie Mayard, talmente peggiorata che stentò a riconoscerla.

 


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Maria Elena Villa
Maria Elena Villa

Ho avuto la fortuna di nascere e crescere in un posto un po' magico vicino a Milano, dove i compleanni si festeggiano su montagne di granturco, si gioca a fare teatro e i racconti dei nonni si tramandano intorno ad un camino acceso. Amo le belle storie, in qualsiasi modo vengano raccontate.