Oggi è arrivato il male! Calypso, religione e magia nera

Calypso, illlustrazione di Martina Trotta

Se aveste domandato a un qualsiasi predicatore cristiano del diciannovesimo secolo quale fosse la sua idea del Purgatorio, avreste probabilmente ricevuto in risposta una descrizione abbastanza puntuale di Trinidad, o di qualche altro ameno scenario da Mar dei Caraibi. Da quando, nel 1498, Cristoforo Colombo aveva piantato sull’isola il vessillo della monarchia spagnola, una lunga storia di schiavismo, passaggi di proprietà, ribellioni e ondate migratorie aveva fatto di Trinidad un esuberante crogiolo multiculturale. Il prodotto finale di tutti questi capricci del destino era, all’inizio del ‘900, un paese il cui governo era asservito alla corona britannica, ma la cui popolazione era costituita da varie percentuali di americani, europei, africani e asiatici, stipati assieme spalla contro spalla in poco più di quattromila chilometri quadrati.

Dal punto di vista religioso, come si può facilmente intuire, tutto ciò avrebbe fatto l’orgasmo di un antropologo e l’impotenza di un missionario. Come uno zelante inglese di confessione battista, W.H. Gamble, ebbe a dichiarare nelle sue memorie di viaggio:

Per i servi di Cristo, Trinidad costituisce un difficile campo di lavoro. Qui non ci sono soltanto, come ci sono in tutte le altre regioni, le avversità della carne, i piaceri del peccato e i mille affari del mondo a contrastare e vanificare i progetti e le fatiche dei servi del Signore; ma il cattolicesimo, l’induismo, l’islamismo, le superstizioni africane, un’ignoranza generalmente diffusa, la varietà delle lingue – tutto ciò concorre a rendere questo terreno assai sterile[1].

La diversità delle pratiche cultuali presenti sull’isola era destinata a suscitare, nello sprovveduto visitatore, una comprensibile confusione, peraltro aggravata da un ulteriore dettaglio: i loro prolungati contatti avevano dato origine, col passare dei secoli, a imprevedibili spaccature all’interno delle religioni stesse, le cui cerimonie spesso si mescolavano tra loro con funambolico sincretismo. In un clima di lassa nonchalance, i sacerdoti di antichi culti africani accoglievano all’interno del loro pantheon figure di santi greci e romani dai contorni ormai sbiaditi, mentre un gruppo di cristiani invasati danzava a perdifiato al ritmo degli stessi tamburi che, soltanto un paio di isolati più in là, accompagnavano le preghiere intonate in onore di Shango, il dio yoruba delle tempeste. Ed era cosa abbastanza naturale che di questa fertile linfa vitale fatta di messe, orazioni collettive, riti e processioni, dovesse presto cominciare a nutrirsi uno dei più interessanti fenomeni musicali mai prodotti in terra di Trinidad: il calypso.

***

Sviluppatosi nel corso dell’ ‘800 per vie tortuose, a partire dai canti che accompagnavano le sfilate del carnevale, il calypso aveva cominciato a indossare all’inizio del secolo successivo una veste più nobile e diversa. Lo si sarebbe potuto accostare alle broadside balladsinglesi, o alle lunghe narrazioni dei cantastorie dell’Italia meridionale: in canzoni di varia lunghezza, le cui strofe erano spesso improvvisate su melodie preesistenti, quella singolare figura di menestrello che era il calypsonian presentava al suo pubblico un catalogo inesauribile di storie strane e curiose, consigli di carattere morale, denunce sociali e pazzesche avventure amorose. Per gli abitanti delle campagne, e in generale per i ceti meno abbienti della popolazione, il calypsonian veniva insomma a trovarsi in un’ambigua posizione tra l’artista di strada e il cavaliere errante, tra il giornalista e il predicatore. E per un buon calypsonian, sempre pronto a ricavare dal mondo che lo circondava nuove materie prime per la sua arte, il panorama religioso di Trinidad rappresentava l’equivalente di un centro commerciale in pieno periodo di saldi.

Una delle più divertenti presentazioni delle varietà di culto più in voga nella vecchia Trinidad ci viene da Lord Executor (ca. 1880-1952), al secolo Philip Garcia, uno dei maggiori calypsonian della sua generazione. Executor, dotato di grande forza espressiva, di vivace immaginazione e di una capacità di improvvisazione che aveva del leggendario, aveva contribuito forse più di chiunque altro alla trasformazione del calypso: i suoi ingegnosissimi testi, intonati da una voce chioccia e inconfondibile, sono ancora oggi considerati dagli addetti ai lavori un vero e proprio modello di perfezione stilistica. Tutte le caratteristiche tipiche della sua arte fanno bella mostra di sé in Three Friends’ Advice (1937), uno dei suoi migliori calypso, in cui racconta con suprema ironia alcune delle sue più disastrose avventure all’interno delle varie sette di Trinidad.

Questa, in breve, la trama. Spinto dai consigli di amici e parenti, Executor ha finalmente deciso di pensare seriamente alla salute della propria anima, ma non ha le idee molto chiare su come procedere. Tramite una raccomandazione riesce a farsi ammettere come novizio presso la chiesa degli Shouter (letteralmente “gli urlatori”, una setta un po’ fanatica di ispirazione cristiana), ma le cose non vanno per il verso giusto: dopo uno sfiancante periodo di digiuno, il calypsonian resta perplesso di fronte a un tentativo di battesimo condotto in modo piuttosto brusco. È quindi pronto ad accogliere il parere contrario di Violet, la sua ragazza, che gli suggerisce invece di unirsi al culto africano di Shango e delle divinità Orisha, con le sue sfrenate danze cerimoniali.

Ebbi un consiglio da un certo amico,
Che mi fece entrare nel covo degli Shouter:
In tutte le celebrazioni a cui presi parte
Cantavamo “Moses, Moses, take off thy shoe!”[2] Digiunai per quaranta giorni cantando inni,
Poi mi buttarono nel fiume, ma io non sapevo nuotare!
Allora dissi a Vio: “No,
Penso che imparerò a ballare la danza di Shango.”

Subito però si fa avanti un altro amico, che con un diverso consiglio spalanca ad Executor le porte dell’obeah – una sorta di magia nera. Con le spalle coperte da un cencio bucherellato e una barba imperiale, l’aspirante stregone si ritrova a trascorrere le giornate rannicchiato in una specie di grotta oscura, zeppa di tutti i più squallidi parafernali del mestiere. Inutile dire che anche questa volta, fatto un rapido bilancio dell’esperienza, il povero Executor è fin troppo contento di lasciar perdere.

Ora ascoltate, amici: quel che avevo nella mia stanza
Erano uno scheletro che ghignava con faccia tetra,
Un pavone danzante pitturato di rosso,
Un rospo senza testa che saltellava in giro,
Tre topolini ciechi, un serpente boa,
E un bambolotto nero che camminava e si dimenava[3] Ma io di nuovo dissi a Vio: “No!
Penso che imparerò a ballare la danza di Shango.”

***

Musica Calypso

Se le pittoresche assemblee degli Shouter, con le loro danze orgiastiche e il loro sound da concerto degli AC/DC, destavano di solito nei calypsonian un’ironia più o meno garbata, i riti di Shango suscitavano in loro una gamma di sentimenti assai più complessi. Colui che più di tutti sembrò subirne il fascino fu Rafael De Leon, The Roaring Lion (1908-1999), altro formidabile calypsonian la cui carriera si estese per buona parte del secolo scorso. Dalle testimonianze superstiti, sappiamo che le cerimonie degli yoruba esercitavano su di lui un richiamo difficile da ignorare: non se ne perdeva una e, per questo motivo, spesso lo si poteva incontrare sui vari autobus che collegavano gli angoli più distanti di Trinidad, impegnato a cantare i suoi calypso per scemare agli altri passeggeri la noia del viaggio.

Al contrario di molti suoi colleghi, Lion si accostava alle celebrazioni dei devoti di Shango col piglio dello studioso. Le sue descrizioni del culto sembrano spesso animate da un sincero interesse, che va al di là della piatta semplificazione o della parodia; con vivo entusiasmo (e più di un pizzico di vanità) Lion sbatte continuamente in faccia al pubblico le proprie competenze in materia di riti yoruba, arrivando a elencare i nomi dei tamburi cerimoniali, dei diversi momenti del sacrificio al dio, delle varie danze. È quanto avviene in Shango (1934), che è solo uno dei tanti calypso da lui dedicati al tema: dopo un’ingannevole strofa d’apertura, in cui sembra disposto ad ammettere la propria ignoranza in materia…

Tra tutte le varie denominazioni,
Ce n’è ancora una che non riesco a comprendere (x2):
Quella di quando si canta “yé di Abatala ho”,
E poi “di fe ri lé so di fe ri Alado”,
“Di umbé lé umbé-oh”,
Meglio nota come Shango[4].

…il calypsonian si lancia nell’appassionata descrizione di una festa sacrificale, arrivando persino a citare – in forma però assai storpiata – alcune delle originali invocazioni in lingua yoruba.

Ora parliamo della danza: è buffo da dire,
Ma comincia con un “Eshu barakbo yé!”;
Nel frattempo preparano una capra,
E con un colpo di coltello le tagliano la testa.
Poi, nella danza che chiamano “il sacrificio”,
Nutrono gli spiriti con sangue e riso.
“Di umbé lé umbé-oh” –
Meglio nota come Shango[5].

***

Poi c’era l’obeah. Definirla in modo preciso da un punto di vista teorico era praticamente impossibile. Originariamente importata dagli schiavi provenienti dall’Africa dell’ovest; rielaborata, travisata, imbastardita da ogni sorta di contaminazione esterna: l’obeah praticata a Trinidad pareva consistere in un indistinto “qualcosa” a metà fra la religione, la stregoneria e la peggio superstizione da romanzo. A differenza dei fedeli di Shango – che i calypsonian consideravano magari anche un po’ matti, ma comunque membri di una comunità religiosa in piena regola – l’obeah man era di volta in volta descritto come un furbo impostore, un avido fattucchiero su commissione o una calamità naturale. Viveva immancabilmente in un antro buio, illuminato a candele, pronto a ricevere i malcapitati che qualche brutto scherzo della sorte aveva reso bisognosi della sua infernale assistenza. A chi gli metteva in mano qualche dollaro era contento di porgere aiuto e consiglio, raddrizzando torti, spezzando vite, formando indissolubili legami d’amore, curando (o infliggendo) tremende malattie.

Il catalogo dei calypso ci ha lasciato tantissime storie di obeah incise su disco, che sono altrettante testimonianze dell’atteggiamento tenuto dai vari calypsonian nei confronti dei suoi praticanti. A un dissacrante scetticismo è improntata Jim Congo Meyer (1938) [minuto 51.16], un comico duetto inciso da Lord Executor in compagnia di Raymond Quevedo – uno dei suoi allievi, divenuto famoso nel mondo del calypso col nome di battaglia di Atilla The Hun (1892-1962). Il pezzo, accompagnato da un’orchestrina zoppicante, si apre con una sguaiata fanfara a due voci, che saluta l’arrivo in terra di Trinidad di un nuovo “prodigious doctor” in grado di operare miracoli:

Oh, Jim Congo Meyer
Comes from Africa!
Obeah man zala ka pléwé:
“Jodi malè rivé!”[6]

La grandiosità dell’entrata è però subito stemperata dall’intervento di Executor, che con un paio di colpi ben piazzati demolisce tutta la credibilità del losco individuo rivelandone la vera natura: quella di un semplice truffatore con una faccia da parodia.

I suoi occhi, il naso, la bocca, il mento
Si amalgamavano in un peccato mortale:
[La sua bocca enorme] sembrava entrargli in testa,
Come se fosse stata pronta a inghiottire mille pagnotte.

Calypsonian 1947
Un gruppo di Calypsonian: a destra si possono riconoscere Lord Invader e Wilmoth Houdini.

Per tutta la durata del brano, Atilla cerca di interloquire con Executor per chiedergli notizie sull’enigmatico personaggio, ma il collega è talmente rapito dalla sua foga polemica da non degnarlo della minima attenzione. Alla fine, stanco di aspettare, il più giovane calypsonian si vendica svelando al pubblico una scomoda verità: Executor rifiuta di rispondere perché in realtà anche lui, secondo le voci di corridoio, altro non sarebbe che un obeah man in incognito!

Hai detto un sacco di cose su Jim Congo Meyer,
Caro Executor, l’uomo venuto dall’Africa;
Ma in giro per tutta l’isola, mi sembra di capire,
Tu stesso hai fama di essere un obeah man!

***

Una disinvoltura ancora maggiore nel trattare le cose dell’obeah è quella ostentata da Wilmoth Houdini (1895-1973), un popolare calypsonian originario di Trinidad che però trascorse a New York la maggior parte della vita. Grande rivale di Executor e dei suoi compari, che lo detestavano, Houdini fu una figura complessa nella storia del calypso: i suoi detrattori, non senza qualche ragione, gli rinfacciavano di essersi fatto bello col lavoro altrui, appropriandosi del patrimonio musicale affinato dai suoi colleghi di Trinidad per poi spacciarlo come roba propria al grande pubblico statunitense. Quanto però fossero ancora forti le radici che legavano Houdini alla terra natia, è splendidamente dimostrato da Don’t Do That to Me (1935), uno dei suoi calypso più divertenti.

Nella canzone, Houdini veste i panni di un marito vessato dalle angherie della moglie – nulla di particolarmente originale, nella lunga lista dei drammi coniugali portati in scena dai cantanti di ogni tempo e luogo. Stavolta però la signora in questione, un peperino di nome Elodie, ha escogitato un metodo più creativo per rendersi odiosa agli occhi del consorte: invece di accontentarsi di lasciarlo, ha deciso di gettargli addosso una maledizione. Houdini, esasperato, indugia volentieri nella descrizione delle oscure pratiche messe in atto dalla fanciulla per dargli il malocchio: Elodie gli ruba le calze di nascosto per portarle all’obeah man, Elodie gli dà da mangiare “all kinds of things”, Elodie di notte, metro alla mano, comincia già a prendergli le misure per la bara. La situazione, potenzialmente drammatica, è però buttata in tragicommedia dai goffi rimproveri del protagonista:

Elodie, sei una maledetta ingrata:
Ogni volta che ti vedo, che rabbia che mi fai!
Se penso alle menzogne che racconti ai tuoi
Per screditare me, papa Willie…
Elodie, lo sai che non è una bella cosa
Bruciare tutte quelle radici in giro per casa, la notte!
Tu stai cercando di farmi una negromanzia,
A me, papa Willie –
Non farmi questo!

I guai del povero Papa Willie, insomma, sembrano non avere mai fine – ma è solo quando la diabolica incantatrice gli partorisce un figlio che il calypsonian comincia a sospettare (mentre il suo pubblico finisce di comprendere) fino a quale effettivo livello di perizia si spingano realmente le sue arti magiche:

Donna, lo sai che c’è qualcosa di sbagliato:
Può forse un nero generare un bambino bianco?
Ha gli occhi azzurri più belli che si siano mai visti:
Questo è il sangue di un europeo.
Il bambino non è mio, te l’ho già detto:
Io discendo dagli africani, e ne sono sicuro!
Stai cercando di farmi una negromanzia,
A me, papa Willie –
Non farmi questo!

***

Ma ora devo fermarmi. Tante, e tanto diverse tra loro, furono le ispirazioni che i calypsonian trassero dai culti di Trinidad, che la speranza di darne un catalogo completo in un articolo di duemila parole non può che naufragare nel nulla. Ma di quanti strani calypso potrei ancora parlarti, caro lettore! Potrei citarti l’inquietante African War Call (1938) in cui Lion, accompagnato dal coro, rivolge agli Orisha una litania di arcane invocazioni spezzata dai sababo, gli ululati rituali che annunciavano ai devoti il manifestarsi di Shango.

Potrei raccontarti di Yaraba Shango (1936), la descrizione del sinistro rituale cui The Growling Tiger (1916-1993), un altro eccezionale calypsonian, ebbe la sfortuna di prendere parte. Ma tutto questo richiederebbe ulteriore spazio, che non so se il resto della redazione sarebbe felice di concedermi: da quando, un paio d’ore fa, il mio caporedattore è passato di qui a prendere il tè, non riesco più a trovare diverse paia di calze. Il mio caporedattore non si chiama Elodie, questo è vero. Ma sapete com’è, non me la sento di rischiare.

 

In copertina: illustrazione di Martina Trotta (sì, non ha molto del mood caraibico… se vi interessa capire maggiormente l’opera, potete chiedete all’autrice)


La mia fonte principale per questo articolo è stata Donald R. Hill, Calypso Calaloo – Early Carnival Music in Trinidad, University Press of Florida, 1993. Tutti i calypso che ho menzionato sono stati raccolti, insieme a tanti altri, nel bellissimo CD Shango, Shouter, & Obeah – Supernatural Calypso from Trinidad 1934-1940, uscito nel 2001 e mai più ristampato. È ormai introvabile, [inserire imprecazioni a caso], ma per ora si può ascoltare integralmente su YouTube.

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.