Si definisce religione un «complesso di credenze, sentimenti, riti, che legano un individuo o un gruppo umano […] con la divinità[1]». È uno di quei concetti che ci sono così familiari da rasentare l’ovvietà, integrati a tal punto nella nostra cultura da averne comunque un’idea immediata e ben radicata, qualunque sia la nostra opinione al riguardo. Proprio questa ragione dovrebbe spingerci ad indagare con attenzione ulteriore: ci vuole una distanza prospettica per poter scrutare l’oggetto della nostra analisi senza deformazione, e nulla più dell’abitudine ad uno schema consolidato può essere d’ostacolo alla comprensione.
La nostra abitudine nei confronti della religione ci porta a ritenere che essa, avendo per oggetto il divino, ne condivida proprietà ed attributi; poiché Dio, per Sua propria natura, è eterno e immutabile, non toccato dallo scorrere del tempo cui è estraneo, similmente la religione è immutabile, e si è conservata costante nel corso dei secoli senza mescolarsi con lo spirito delle epoche passate, nelle quali sarebbe dunque possibile ritrovare del pari stilemi che trascendono il corso della Storia.
Una simile opinione, per quanto familiare e radicata, non tiene nella debita considerazione un elemento cardine: la religione, per sua stessa definizione, è relazione, ed ogni relazione è regolata e influenzata da entrambe le parti che la compongono. Per quanto possa essere lecito ritenere Dio immutabile, la religione è altrettanto, o forse addirittura solamente, un fatto umano, e nulla più degli uomini è influenzato dal passare del tempo, o soggetto a modificarsi. Per questo motivo la Storia delle religioni è un campo di studio tanto interessante e capace di illuminare la nostra comprensione: l’evoluzione di dogmi, riti e credenze riflette i valori della società che li elabora, le contingenze operanti e la stessa idea di sé che quella società ha, e proietta sulla figura divina a suggellarne l’importanza.
Altrettanto radicata, e parimenti imprecisa, è la distinzione, cui siamo abituati fin dai primi studi a scuola, tra politeismo e monoteismo: fin da bambini ci è stato raccontato come i popoli pagani dell’antichità adorassero numerosi, talvolta infiniti, dèi, e come di converso le religioni abramitiche sorte nel Vicino Oriente si distinguessero proprio in ragione del loro riconoscere un unico Dio, seppur variamente rappresentato. Anche questa è una semplificazione che non riesce a rendere appieno le numerose sfumature con cui si è articolato il divino nella Storia umana. Friedrich Max Müller, fondatore dello studio comparato delle religioni, conia infatti il termine enoteismo per meglio descrivere alcune delle sfumature delle religioni antiche e spezzare la dicotomia tra unicità e molteplicità di Dio.
Nella definizione di Müller, l’enoteismo indica la preminenza di un singolo dio sugli altri, dei quali è tuttavia riconosciuta sia l’esistenza sia la dignità. Teorizzato come stato intermedio e di passaggio tra politeismo e monoteismo, nell’enoteismo sono presenti molteplici divinità, ma ad una sola di queste viene conferito un primato d’onore e venerazione, per ragioni di discendenza, superiorità o importanza. Questa è la posizione della religione induista, o dell’ultimo paganesimo dell’età tardo-antica come teorizzato dal filosofo Plotino. Un ulteriore affinamento di questa posizione è la cosiddetta monolatria, dove il primato d’onore si trasforma in una vera e propria esclusività dell’adorazione: un culto monolatrico ammette l’esistenza reale di numerose divinità, ma riserva la totalità della venerazione e dell’obbedienza ad una sola tra queste. Ne è un esempio la tentata riforma di Amenhotep IV, il “faraone eretico” meglio noto come Akhenaton, che cercò di imporre l’adorazione esclusiva del disco solare Aton a scapito delle altre divinità tradizionali del pantheon egizio.
Tra le religioni praticate ancora oggi, l’ebraismo è una delle più antiche, e conserva una tradizione millenaria assai forte. La fede è stata un elemento fondante della condizione identitaria del popolo ebraico, che riconosce sé stesso anche a partire dalle tradizioni tramandate nel corso dei secoli. Questa costante permanenza non deve però indurci all’equivoco di ipotizzare un’immutabilità dei modi della religione ebraica: l’aver conservato invariati per secoli alcuni precetti e convinzioni non implica necessariamente che la forma con la quale ci sono arrivati sia la stessa che hanno avuto alla loro origine. D’altronde, il Tanakh – il testo sacro dell’ebraismo, meglio noto nel mondo cristiano come Antico Testamento – non ha certo una composizione unitaria né immediata, ma viene compilato e trascritto nel corso del primo millennio prima dell’era volgare, riunendo testi e materiali composti e tramandati oralmente nei secoli precedenti. Scrutando il testo con attenzione può quindi riuscire di ritrovare alcune tracce di un’evoluzione dottrinale, che rivela atteggiamenti alquanto inaspettati e lontani dall’immagine classica che abbiamo della religione.
Uno dei caratteri più noti e fortemente identificativi dell’ebraismo è un rigoroso monoteismo, segno di evidente distinzione rispetto al politeismo dei popoli circostanti. Tuttavia, questa peculiarità non avrebbe fatto parte della dottrina giudaica fin dai primordi, ma secondo i biblisti si sarebbe sviluppata, assieme alla trascrizione del Tanakh, a seguito della cattività babilonese, e proprio come segno identitario e distintivo del popolo di Israele in esilio, riuscito a mantenere una propria concezione di sé come popolo proprio riconoscendosi nel Dio unico e nel patto di alleanza stretto con lui. L’ebraismo divenne quindi compiutamente monoteistico solamente nell’era del Secondo Tempio[2], quando in assenza dei re la figura di maggiore autorità era quella del sommo sacerdote, come strumento di riaggregazione sociale e culturale di un popolo che aveva resistito all’assimilazione forzata da parte di un impero.
L’adozione tardiva del monoteismo, e la mutevole dialettica con le altre divinità, è testimoniata dalle differenze che intercorrono in alcuni episodi del racconto biblico, in cui un’attenta lettura riesce a evidenziare come in origine le dodici tribù di Israele praticassero una religiosità più propriamente monolatrica. Il tema dello scontro tra il Dio di Israele e gli dèi stranieri, e l’ineluttabile superiorità del primo sugli altri e dei Suoi inviati contro i sacerdoti pagani, viene raffigurato ripetutamente nella Scrittura, fino ad assumere una forma quasi archetipica e ricorrente nello scontro tra il profeta e i falsi profeti. Tuttavia, mettendo a confronto i due esempi più noti ed importanti, non potranno nascondersi alcune capitali differenze, che tradiscono non tanto una variazione stilistica quanto una concezione affatto differente della divinità. I protagonisti di questi episodi sono due delle figure più importanti della tradizione ebraica: il patriarca Mosè, che guidò Israele via dalla schiavitù in Egitto e ne codificò la legge, ed il profeta Elia, ultimo dei credenti nel Dio di Israele al tempo del re Acab e custode della vera fede contro l’idolatria.
Mosè viene considerato la figura fondatrice della religione ebraica: gli sono attribuiti i cinque libri della Torah, la parte più sacra del Tanakh, e le leggi più antiche ed importanti di Israele. La sua storia è tanto nota quanto archetipica: sottratto alle persecuzioni del malvagio faraone dalla madre, che lo affida alle acque del Nilo per salvargli la vita, Mosè viene cresciuto dalla figlia del faraone; in età adulta, uccide un sorvegliante egizio che stava opprimendo uno schiavo e fugge via nella terra di Madian, dove diventa pastore e genero del sacerdote Ietro; anni dopo, sul monte Sinai, incontra una manifestazione di Dio che lo esorta a ritornare in Egitto per comandare al faraone di liberare il popolo di Israele dalla schiavitù. Il faraone si ostina a trattenere gli ebrei, e dunque Dio colpisce l’Egitto con segni e prodigi, finché il faraone non cede e Mosè può quindi guidare il suo popolo al di là del Mar Rosso fino alla Terra Promessa, cui arriveranno dopo una lunga peregrinazione nel deserto e l’instaurazione della Legge, su cui si fonda il patto di alleanza tra Dio e il suo popolo.
Il racconto dell’uscita dall’Egitto, come riportato nel libro dell’Esodo, è uno dei primi e più importanti ad affrontare la dialettica del rapporto tra Israele e i popoli stranieri, e soprattutto tra Dio e i loro dèi. Tuttavia, nonostante il suo carattere fondativo, l’Esodo non contempla minimamente una concezione monoteista, ma anzi lascia ampie prove testuali della pratica enoteistica diffusa all’epoca della sua composizione. Questo è il primo confronto tra Mosè e i suoi contendenti:
Il Signore disse a Mosè e ad Aaronne: «Quando il faraone vi parlerà e vi dirà: “Fate un prodigio!” tu dirai ad Aaronne: “Prendi il tuo bastone, gettalo davanti al faraone”; esso diventerà un serpente». Mosè e Aaronne andarono dunque dal faraone e fecero come il Signore aveva ordinato. Aaronne gettò il suo bastone davanti al faraone e davanti ai suoi servitori e quello diventò un serpente. Il faraone a sua volta chiamò i sapienti e gli incantatori; e i maghi d’Egitto fecero anch’essi la stessa cosa, con le loro arti occulte. Ognuno di essi gettò un bastone e i bastoni divennero serpenti; ma il bastone d’Aaronne inghiottì i loro bastoni[3].
A prima vista, appare una narrazione molto lineare della superiorità del Dio d’Israele, i cui emissari trionfano sui loro oppositori. Ma è interessante notare che questa supremazia discende da un vero scontro, in cui gli inviati di Dio combattono veramente con i loro corrispettivi. Il Dio di Abramo è più grande degli dèi dell’Egitto, e quindi il suo serpente divora gli altri serpenti, ma la metamorfosi del bastone avviene in entrambi i casi, e nulla lascia trasparire che i maghi del faraone ricorrano a trucchi ed illusioni[4]. In una prospettiva monoteistica, in cui Dio è l’unico Dio e tutti gli altri sono falsi idoli o sue creazioni minori, non sarebbe affatto possibile opporre un prodigio della stessa natura, seppur di minore potenza, alla manifestazione del vero potere divino; questo può invece accadere in un contesto enoteistico, laddove gli dèi dell’Egitto sono veri dèi, esistono pienamente ed offrono un reale potere ai loro rappresentanti terreni, ma il Dio degli Ebrei è più potente di loro e quindi li vince.
Il prosieguo del racconto rafforza ulteriormente questa prospettiva: per condurre alla resa il faraone e liberare gli ebrei dalla schiavitù, Dio scatena sull’Egitto quelle che vengono tradizionalmente indicate come le dieci piaghe – benché né il loro numero, né questo titolo siano mai esplicitamente definiti nel testo biblico. Questi eventi miracolosi e soprannaturali, indicati come “segni e prodigi”, termini derivati dalla letteratura profetica per indicare l’azione della divinità nell’ordine del mondo, presentano una graduale escalation nel dispiegarsi del potere divino. All’inizio, i maghi del faraone sono in grado di replicare i miracoli, e sono portatori di una sapienza legittima, che solo in seguito si rivela insufficiente:
Aaronne alzò il bastone, percosse le acque che erano nel Fiume sotto gli occhi del faraone e sotto gli occhi dei suoi servitori; e tutte le acque che erano nel Fiume furono cambiate in sangue. I pesci che erano nel Fiume morirono e il Fiume fu inquinato, tanto che gli Egiziani non potevano più bere l’acqua del Fiume. Vi fu sangue in tutto il paese d’Egitto. Ma i maghi d’Egitto fecero la stessa cosa con le loro arti occulte, e il cuore del faraone si indurì[5].
Allora Aaronne stese la sua mano sulle acque d’Egitto e le rane salirono e coprirono il paese d’Egitto. Ma i maghi fecero lo stesso con le loro arti occulte e fecero salire le rane sul paese d’Egitto[6].
Aaronne stese il braccio con il suo bastone, percosse la polvere della terra e ne vennero delle zanzare sugli uomini e sugli animali. Tutta la polvere diventò zanzare per tutto il paese d’Egitto. I maghi cercarono di fare la stessa cosa con le loro arti occulte per produrre le zanzare, ma non poterono. Le zanzare infierivano sugli uomini e sugli animali. Allora i maghi dissero al faraone: «Questo è il dito di Dio». Ma il cuore del faraone si indurì e non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come il Signore aveva detto[7].
Non solo i sapienti d’Egitto, ma anche i loro dèi si rivelano impari al compito: «I figli di Israele partirono a testa alta, sotto gli occhi degli Egiziani, mentre gli Egiziani seppellivano quelli che il Signore aveva colpiti in mezzo a loro, cioè tutti i primogeniti, quando anche i loro dèi erano stati colpiti dal giudizio del Signore[8]». Difatti, alcuni studi hanno rilevato una sorta di corrispondenza tra le dieci piaghe e le divinità più importanti del pantheon egizio, quasi a rimarcare come la superiorità del Dio di Israele si esercitasse in ogni campo, rendendo del tutto impotenti gli dèi d’Egitto persino nelle aree tradizionalmente loro deputate.
Alcuni di questi segni sono evidenti: la trasmutazione dell’acqua del Nilo in sangue non solo riecheggia la tradizionale piena del fiume foriera di fertilità, tramutando in presagio mortifero un segno usualmente vivifico, ma può essere interpretata anche letteralmente come un attacco al dio Nilo, costretto a sanguinare; similmente, l’oscurità che avvolge nelle tenebre l’Egitto per tre giorni è una sfida a Ra e ad Horus, divinità solari e sovrani del pantheon egizio, di cui lo stesso faraone è ritenuto l’incarnazione terrena, e la morte dei primogeniti uno schiaffo ad Osiride, protettore della vita e della morte e giudice dei morti. Altri sono più sottili, ma ugualmente significativi: le ulcere patite da uomini e bestie sovrastano il dominio di Thot, dio della medicina e della conoscenza ma anche arbitro degli dèi e garante di giustizia. Ad ogni modo, appare evidente come il racconto dell’uscita dall’Egitto diventa un mito fondativo nel rimarcare sia una distinzione tra Israele e i popoli stranieri, sia una superiorità del Dio di Abramo sugli altri dèi.
Nulla di tutto questo avviene durante la predicazione del profeta Elia, come raccontata dal primo libro dei Re. Lo scenario è posteriore di alcuni secoli, e profondamente diverso rispetto alle vicende di Mosé: il popolo di Israele si è ormai stabilmente insediato nella terra di Canaan, e il regno è stato diviso in due parti, Israele a nord e Giuda a sud; mentre quest’ultimo manterrà una fede più salda, il regno di Israele abbandonò spesso l’alleanza con Dio, adorando divinità straniere e dedicando loro idoli in spregio alla legge di Mosè. Il corrispettivo del faraone questa volta è:
Acab, figlio di Omri, fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti quanti quelli che l’avevano preceduto. Come se fosse stato per lui poca cosa abbandonarsi ai peccati di Geroboamo, figlio di Nebat, prese in moglie Izebel, figlia di Etbaal, re dei Sidoni, andò ad adorare Baal, a prostrarsi davanti a lui, e innalzò un altare a Baal, nel tempio di Baal che costruì a Samaria. Acab fece anche l’idolo di Astarte. Acab fece più di quello che avevano fatto tutti i precedenti re d’Israele per provocare lo sdegno del Signore, Dio d’Israele[9].
Elia il Tisbita è l’ultimo dei profeti di Dio rimasti nel regno di Israele, dopo che Acab ha perseguitato e ucciso gli altri. Per la sua fede compie miracoli e sopravvive alle avversità del deserto e della persecuzione. Arriva infine il momento in cui Dio gli ordina di sfidare re Acab e di liberare Israele dall’idolatria, e sul monte Carmelo assistiamo ad un nuovo scontro tra il profeta e i suoi avversari:
Allora Elia disse al popolo: «Sono rimasto io solo dei profeti del Signore, mentre i profeti di Baal sono in quattrocentocinquanta. Dateci dunque due tori; quelli ne scelgano uno per loro, lo facciano a pezzi e lo mettano sulla legna, senza appiccarvi il fuoco; io pure preparerò l’altro toro, lo metterò sulla legna, e non vi appiccherò il fuoco. Quindi invocate voi il nome del vostro dio, e io invocherò il nome del Signore; il dio che risponderà mediante il fuoco, lui è Dio»[10].
Da qui in avanti il racconto prende una piega ben diversa dalle vicende dell’Esodo:
[I sacerdoti] presero il loro toro, e lo prepararono; poi invocarono il nome di Baal dalla mattina fino a mezzogiorno, dicendo «Baal, rispondici!» Ma non si udì né voce né risposta; e saltavano intorno all’altare che avevano fatto. […] E quelli si misero a gridare più forte, e a farsi delle incisioni addosso, secondo il loro costume, con spade e lance, finché grondavano di sangue. E passato che fu il mezzogiorno, quelli profetizzarono fino all’ora in cui si offriva l’offerta. Ma non si udì voce o risposta, e nessuno diede loro retta[11].
Questa volta, le divinità straniere non compaiono nemmeno, e i loro sacerdoti sono costretti ad attendere vanamente un intervento che non si compirà mai. Il loro fallimento mostra uno stridente contrasto rispetto ai maghi e ai sapienti del faraone: le arti occulte a loro disposizione, qualunque fosse la loro natura[12], avevano dato prova di esercitare un vero potere, e non avevano prevalso perché sopraffatte da un potere superiore; i sacerdoti di Baal invece sono impotenti, le loro preghiere e i loro rituali vuoti e senza esito. Ancora più rimarchevole è la risposta di Elia:
Con quelle pietre costruì un altare al nome del Signore, e fece intorno all’altare un fosso […]. Poi vi sistemò la legna, fece a pezzi il toro e lo pose sopra la legna. E disse: «Riempite quattro vasi d’acqua, e versatela sull’olocausto e sulla legna» […]. L’acqua correva attorno all’altare, ed egli riempì d’acqua anche il fosso. All’ora in cui si offriva l’offerta, il profeta Elia si avvicinò e disse: «Signore, Dio d’Abraamo, d’Isacco e d’Israele, fa’ che oggi si conosca che tu sei Dio in Israele, che io sono tuo servo, e che ho fatto tutte queste cose per ordine tuo. Rispondimi, Signore, rispondimi, affinché questo popolo riconosca che tu, o Signore, sei Dio, e che tu sei colui che converte il loro cuore!» Allora cadde il fuoco del Signore, e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la polvere, e prosciugò l’acqua che era nel fosso. Tutto il popolo, veduto ciò, si gettò con la faccia a terra, e disse: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio![13]».
Se la lotta di Mosè coi sapienti d’Egitto può essere letta come uno scontro di potenze, in cui il Dio di Israele prevale perché più grande, nulla di simile accade ad Elia. Baal e Astarte non hanno nulla che spartire con il Dio di Abramo, e dunque chi parla nel loro nome è del tutto impotente di fronte al profeta. Inizia qui a delinearsi la figura del falso profeta, ovvero di chi parla nel nome di Dio senza autorità o mandato, ma anche chi afferma di parlare per conto di altri dèi illegittimi. Del pari, comincia un processo di riduzione e demonizzazione delle divinità pagane del Vicino Oriente, di cui viene negata la natura divina e che vengono abbassati al rango di demoni maligni e ingannatori, spesso storpiando il loro nome originale: gli appassionati di folklore magico e demonologia potranno facilmente ritrovare Moloch e Chemosh, o riconoscere Astarte e Baal (il cui nome completo era Ba’al Zebûl “Ba’al il principe”) dietro le maschere di Astaroth e Beelzebub, il Signore delle Mosche, ma nessun dio dell’Egitto ha subito una simile condanna.
Ancora più illuminante per la riscoperta di questa originaria monolatria è il confronto tra i dieci comandamenti posti a fondamento della legge di Mosè, compilati quindi in questo clima enoteista, con il credo cristiano elaborato ai concili di Nicea e Costantinopoli, alla luce di una secolare tradizione monoteistica. Laddove il simbolo niceno-costantinopolitano può proclamare «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili[14]», dando così per scontato che nella Trinità si esaurisca e sia compresa ogni parte di sacro, il decalogo giudaico deve fare i conti con l’esistenza di altre divinità, tanto presenti da dover essere evitate:
Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù.
Non avere altri dèi oltre a me.
Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono laggiù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso[15].
Molti di questi attributi apparirebbero incongrui e difficili da spiegare in un contesto monoteistico: quale necessità avrebbe l’unico Dio di presentarsi, di specificare chi è, come del pari aveva fatto quando aveva incontrato Mosè? Quale preoccupazione dovrebbe mai esserci nell’adorare fantasmi inconsistenti, e perché Dio dovrebbe esserne geloso? Ma il testo è testimonianza di un’epoca in cui quelle altre divinità erano effettivamente riconosciute, e il patto di Dio con il suo popolo consiste proprio nel rinunciare a loro per dedicarsi esclusivamente all’alleanza.
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Tutte le citazioni del testo biblico provengono dalla Nuova Riveduta, curata dalla Società Biblica di Ginevra. Per i nomi dei personaggi si è optato per la grafia popolare nel corpo dell’articolo e per la grafia biblica nelle citazioni. La dicitura “Signore” in maiuscoletto è scelta del traduttore per rendere il Tetragramma YHWH.
In copertina: John Martin, La settima piaga d’Egitto, 1823, olio su tela, Museum of Fine Arts, Boston. La pioggia di grandine e fuoco viene tradizionalmente interpretata dagli esegeti come il primo dei tre prodigi volti a dimostrare una separazione tra i popoli gentili ed Israele come popolo eletto.