Love of my life (…)
When I grow older
I will be there at your side to remind you
How I still love you.
È Freddie Mercury che canta e che ci parla ancora. Il pianoforte lo accompagna nel consegnare alle pagine di storia della musica il pentagramma di un amore ultraterreno, da cui tutti dovremmo trarre ispirazione. Le note accolgono le dita affusolate che le accendono e vibrano leggere attraverso l’aria e i versi.
Fra le righe di questa canzone, Love of my life – traccia di A Night at the Opera, ma che conobbe il suo miglior successo con Live Killers del 1979 – traspare la donna della vita del celebre e sfortunato solista dei Queen: Mary, Mary Austin.
La straordinaria apertura vocale di lui si intreccia con le note bianche del pianoforte e forgia una dichiarazione d’amore che dissesta facilmente i cuori di tutti. La canzone si inerpica su una richiesta forsennata di ritorno, affinché l’amore della donna possa spazzare via il deserto che l’amante avverte dentro di sé. Scongiura la donna di riportare a casa quell’amore, il loro, che è talmente intenso da essere massacrante, ma limpido, senza il quale l’autore si sente senza destinazione.
Back, hurry back
Please, bring it back home to me
Because you don’t know
What it means to me.
La donna appare cieca e distante, come una donna-angelo, di marca stilnovistica, indifferente e di mistica lontananza. Ma in realtà, Love of my life è un dialogo interrotto dalla presenza di una donna vera e reale nei pensieri dell’autore e nella sua vita. Love of my life, che germoglia sulla carta nei primi anni Settanta, rende plastico l’amore scalpitante di due amanti malvoluti dal destino che lottano con violenza per mantenere in vita il loro sentimento, riuscendoci.
Mary e Freddie hanno costruito da soli il loro amore: un amore come una piccola barca, sopra il mare lunatico del cuore di lui e sotto la luce abbagliante dei riflettori e della fama. Hanno piantato i chiodi nelle travi di legno a mani nude, per costringersi a ferirsi e a guarire insieme. Hanno verniciato le stesse di bianco latte, per pulire la vista e guardarsi meglio. Si sono seduti dentro, stretti stretti, per non sentire il freddo del tramontare del corpo sottoposto alla malattia e hanno trascorso i loro giorni galleggiando, col sottofondo del mare, controvento, lontano dalla riva e senza paura di naufragare.
Quando si sono incontrati per la prima volta, nel 1969, non sapevano che il loro amore avrebbe sorpassato il confine del corpo, forato per giunta l’anima e che avrebbe resistito allo spegnersi della vita di lui.
Freddie Mercury – allora solo Farrock Bulsara – lavorava assieme a Roger Taylor a una bancarella di vestiti al Kensington Market, nella zona ovest di Londra. Si distinguevano da lontano i capelli lunghi sulla fronte, che premevano sulle ciglia lunghe d’indiana fattura, creando inedite insenature sugli occhi. Così come le labbra sporgenti, causate da un’iperdontia mai rinnegata, che di lì a poco, sarebbero state la finestra di canzoni indimenticabili, che incontravano sia timbri ariosi e cristallini sia ruggiti rock. Appiccicata addosso, portava con goffaggine tutta la timidezza dei suoi ventiquattro anni e di radici genealogiche mai del tutto affrontate. Mary Austin lavorava in un negozio lì vicino come addetta al pubblico. Aveva lo sguardo ampio e diciannove anni di bionda e ingenua energia.
Dal 1970, non si sono più separati. Né il coming out di Mercury, la diagnosi di AIDS e la nascita del figlio di Mary e neanche la morte dell’artista, occorsa il 24 novembre 1991, ha rotto un amore di porcellana, legno e seta come il loro.
Quattro anni dopo il primo incontro, Freddie chiese a Mary di sposarlo.
(…) mi ha dato una grande scatola il giorno di Natale. Dentro c’era un’altra scatola, poi un’altra e così via. Era solo uno dei suoi giochetti divertenti. Alla fine, ho trovato un bell’anello di giada all’interno dell’ultima scatola, quella più piccola. (…) gli ho chiesto: «A quale mano devo metterlo?». E lui disse: «All’anulare, sulla mano sinistra». E poi aggiunse: «Perché… mi vuoi sposare?» (…) Sono appena riuscita a sussurrare: «Sì. Lo voglio[1]».
Successivamente, nel mondo infurierà la mania-Queen. Freddie Mercury, Roger Taylor, Brian May e John Deacon riempiranno stadi e piazze. Milioni di voci canteranno all’unisono Bohemian Rapsody o Don’t stop me now, idolatrando la musica senza luogo dei Queen, cioè camaleontica e scoppiettante come i musicisti che l’avevamo composta.
Freddie, attraverso una complessa introspezione di sè stesso, facendo anche tappa su vari corpi e letti sfatti delle mattine post-concerto, confesserà a Mary di essere bisessuale.
Non dimenticherò mai quel momento. Essendo un po’ ingenua, ci avevo messo un pezzo a capire la realtà. In seguito, si è sentito meglio per avermi finalmente detto che era bisessuale, anche se io ricordo di essermi rivolta a lui in quel momento dicendo «No Freddie, non credo che tu sia bisessuale, penso che tu sia gay»[2].
Quel momento teso, un imbuto angusto che sembrava risucchiare la vivacità dell’amore, fu riscaldato e siglato da un abbraccio. Stretti fra le ossa e la pelle dell’altro, si promisero di non lasciarsi morire nella polvere dei sentimenti mal conservati.
L’amore di Mary Austin e Freddie Mercury è stato innanzitutto costruzione e riparo. Costruzione di musica e di luoghi, seppur traballanti, in cui consumare l’amore, e riparo dai coltelli taglienti del messaggero della morte, l’AIDS, diagnosticato a Mercury nel 1987, ma tenuto nascosto fino al 22 novembre 1991, due giorni prima la morte, quando, consapevole dello stato terminale della malattia, fece pubblicare un comunicato stampa in cui si ammetteva la sieropositività.
Mary Austin ha amato Freddie Mercury seppur gay, seppur pallido e deperito, seppur morto. L’amore, cristallizzato nelle note di Love of my life, ha trasceso, inizialmente, la distanza dei corpi vivi, i pubi lontani dal loro luogo di ricongiungimento, poiché affossati altrove e, poi, lo sbarramento della morte. Solo lei conosce il luogo in cui è sepolto, al riparo da occhi estranei da sanguisuga.
A mano a mano, continuano a tenersi stretti e a specchiarsi reciprocamente negli occhi. Hanno cucito, con precisione di sarta, le loro pelli affinché potessero continuare a tendersi, sfidando la distanza del cielo. Portano addosso il solco del corpo dell’altro: un solco, come quello sulle lenzuola dopo una notte insieme, in cui poter stare ancora un altro po’.
In copertina: Dave Hogan, Mary Austin e Freddie Mercury, circa 1983.