Mahabharata

Mahābhārata. Rito di sogno e voci di guerra

Da alcuni anni, la ricerca artistica di Studio Novecento si è svolta all’insegna di una cifra artistica e filosofica molto precisa, compendiata nella formula «Il Circo dei Morti» con cui si erano intitolati alcuni degli spettacoli più riusciti ed ambiziosi dell’associazione. Due di essi in particolare – I Fantasmi di Amleto e Il Maestro e Margherita – avevano come proprio nucleo centrale l’idea di un teatro circense quale luogo di verità, affidata alle ombre dei morti: «I morti sono la verità dei vivi», aveva insegnato il maestro Tadeusz Kantor, e i personaggi pur non essendo reali sono veri – come ci aveva ricordato Luigi Pirandello – perché la loro storia si ripete ogni volta uguale a sé stessa e senza deviazioni o inganni; su questo si innestavano gli studi di Starobinski e l’identificazione dell’attore come saltimbanco per poter mediare tra due mondi tangenti ed altrimenti non comunicanti – il piano delle Ombre e quello degli spettatori – e fare da guida per un Oltre invisibile. Tutto questo è stato superato da Mahābhārata, la più recente produzione della compagnia di STN e coronamento di un anno di studio e lavoro sull’India e la cultura sanscrita.

Il Mahābhārata di Vyāsa, composto tra il IV secolo a.C. e il IV secolo d.C., è il più ampio e complesso poema epico della letteratura mondiale, lungo tra i 75.000 e i 95.000 distici[1] a seconda delle versioni. E se già gli studi omerici hanno da tempo riconosciuto il valore strutturalmente enciclopedico dei poemi epici – che al loro interno raccolgono miti di origine e modelli valoriali, riti sociali e prescrizioni comportamentali – il Mahābhārata, “il Grande [Racconto] dei Bhārata”[2], si propone di compendiare l’intero scibile della cultura hindu; al suo interno, quasi un poema nel poema, è presente la Bhagavadgītā, “il Canto del Divino”, uno dei testi sacri più importanti dell’induismo, nonché una versione riassunta dell’altro poema epico indiano, il Rāmāyaṇa di Vālmīki. È un poema-fiume, o addirittura un poema-mondo – basti pensare che il suo mitico autore, Vyāsa, può comparirvi al suo interno come personaggio agente e progenitore dei protagonisti – un’opera straordinariamente complessa, per la vastità dei personaggi e degli intrecci, stratificata su numerose generazioni ed estesa su plurimi scenari; un poema che può proclamare con sicurezza e poca tema di smentita: «Quello che c’è qui, c’è anche altrove. Ma quello che non c’è qui, non lo si trova da nessun’altra parte»[3].

Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)
Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)

Come facilmente intuibile, un racconto di tali proporzioni e importanza non è facile da rappresentare, specialmente a fronte di una distanza culturale tanto marcata nel tempo e nello spazio: non solo la nostra società non condivide i codici religiosi e culturali della letteratura sanscrita, ma ha anche progressivamente perso la dimensione dell’epica. A questo si aggiunge la difficoltà per il medium teatrale di portare fisicamente sulla scena centinaia di personaggi e rappresentare le loro sovrannaturali prodezze. Non a caso per rappresentare Mahābhārata sulle scene occidentali c’era voluto un autentico genio del teatro come Peter Brook (1925-2022) ed una produzione a dir poco colossale (lo spettacolo durava nove ore, undici contando gli intervalli) e pressoché irripetuta[4]. Questo ci permette di contestualizzare la difficoltà e l’audacia di Studio Novecento nel volersi cimentare con un’opera tanto imponente ed esigente, ricca di episodi ed avvenimenti non meno che di pensiero e filosofia. Dopo il debutto a Milano dal 13 al 15 giugno, e la sua rappresentazione come spettacolo di apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen di Grenoble, possiamo dire che l’azzardo sia stato pienamente ripagato, e non solo.

Il Mahābhārata di Studio Novecento risulta essere un autentico e indiscutibile salto di qualità e cambio di paradigma non solamente per l’associazione, ma per l’intera scena teatrale contemporanea: in questa rappresentazione assistiamo a qualcosa che arriva a trascendere l’idea del teatro, risucchiandoci in un Oltre vivido e presente come non mai. Qui più che mai il teatro si fa epifania dell’Invisibile e porta lo spettatore a contatto con il Sacro; gli attori e le attrici cessano di essere saltimbanchi per diventare officianti di un rito, con la stessa intensità e dedizione che il teatro può avere avuto forse soltanto nell’Atene classica, in India o in Giappone, quando a tutti era noto come il teatro fosse materia sacra. Difatti, gli stessi interpreti sembrano a tratti trasumanare, incanalando nei corpi e nelle voci livelli di energia del tutto estranei alla quotidianità, e capaci di schiacciare lo spettatore sulla sedia, attonito dinnanzi alla scena, eppure desideroso di vederne ancora e ancora.

Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)
Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)

Come il poema di Vyāsa si proclamava poema-mondo, così lo spettacolo ne eredita la vastità e l’ampiezza: attorno al nucleo centrale della vicenda – la lunga ed aspra guerra tra i cinque fratelli Pandava ed i loro cento cugini Kaurava per il dominio sull’India – la riduzione di Marco Pernich riesce a conservare molti episodi laterali, dalle origini soprannaturali degli eroi alle loro gesta; pur dovendo rinunciare ad altrettanti episodi, alcuni solo citati, si riesce comunque a restituire un quadro dignitoso del poema.

Ne consegue una rappresentazione di non breve durata, ma in cui lo spettatore non si affatica; anzi, il pubblico è talmente avvinto dalla storia da desiderare che questa non finisca mai, ed esce incuriosito e chiedendone di più. In questo è d’aiuto la struttura stessa della narrazione, curiosamente costruita in maniera bustrofedica e convergente: la narrazione parte dalla conclusione, risale a ritroso parte degli avvenimenti fino ad arrivare all’origine, e a quel punto torna indietro fino allo scioglimento del conflitto e di lì all’epilogo. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, questo aiuta la comprensione da parte del pubblico a livello intuitivo: pur venendo tirato in mezzo a nomi difficili ed eventi che non conosce, lo spettatore si ritrova a discendere fino al nucleo in profondità, quando tutti i pezzi si incastrano a dovere, e nella risalita si ha così una cognizione precisa di episodi e personaggi.

Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)
Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)

Il teatro è notoriamente arte spuria, privo di una materia propria e formato cogliendo gli elementi costitutivi dalle altre arti: i corpi dalla danza, le immagini dalla pittura, toni e ritmi dalla musica, parole e versi dalla poesia. Difatti, il compito del regista è principalmente di trovare una coesione tra questi elementi ed orchestrarli in un insieme coerente ed armonico. Ma anche sotto questo punto di vista Mahābhārata arriva ad un livello superiore di commistione, fino ad assomigliare all’opera d’arte totale teorizzata da Richard Wagner: al pari del testo di partenza, si assiste ad una summa di arti che vanno dal canto alla danza, dalla musica alle immagini, magistralmente armonizzate da Stefania Lo Russo in una regia di sorprendente maturità, ognuna presente senza risultare estranea alle altre, declinate a proprio modo in un mosaico vasto e variegato, i cui elementi si fondono nella totalità. Non a caso lo spettacolo si apre con un momento esclusivamente musicale e compiutamente psicagogico: con voce e bansuri, le due musiciste dànno il via al rito portando gli spettatori fin dentro il mondo di sogno del rito di Mahābhārata, scandendo con precisione i vari quadri dello spettacolo con gesti codificati e canto, quasi uno spettacolo dentro lo spettacolo.

Mirella Schino, professoressa presso l’Università di Roma 3, nei suoi studi ha indicato due maniere per approcciarsi al teatro sanscrito, giacché quest’ultimo ripropone ancora oggi una tradizione strettamente normata e codificata: o l’attore occidentale studia quei codici fino a padroneggiarli e divenirne Maestro, oppure deve rappresentare il dramma sanscrito vivendolo come un sogno – vale a dire, ricombinare gli elementi della cultura sanscrita in maniera creativa ed originale, facendoli propri come accade nei sogni.

Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)
Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)

Quest’ultima è la strada intrapresa da Studio Novecento nei vari spettacoli di questo anno dedicato all’India, come la Śakuntala riconosciuta, ma in Mahābhārata assistiamo ad una fusione dei due modi: nel rappresentare il sogno, gli interpreti finiscono per mostrare i segni. Al contempo, la dimensione del sogno restituisce quel senso di meraviglia di una vicenda più vera della realtà, più estesa della sua durata effettiva; un lampo di quell’eternità che si si ripete in cicli innumerevoli sempre uguali e diversi – di cui il Mahābhārata racconta solo una frazione – e che accade di nuovo ogni volta che qualcuno ne racconta la storia.

Questo senso dell’eternità si ritrova in maniera non dissimile anche nella tradizione epica e tragica dell’antica Grecia, e non è la sola rassomiglianza. Tanto nella regia quanto nella drammaturgia, Mahābhārata è impregnato degli schemi e dei modi di fare del teatro greco – cosa del resto non sorprendente, vista la formazione di Studio Novecento – e questi modelli ellenici sono prestati al servizio dell’epica indiana: lo spettacolo si dipana in un’alternanza fluida di quadri, affidando la maggior parte degli episodi alla narrazione piuttosto che alla rappresentazione. A questi strumenti di messa in scena si affiancano consonanze già presenti nel materiale narrativo di partenza, che vengono sottilmente evidenziate: la presenza meravigliosa e terribile del Divino che sgomenta, che i greci riassumevano nella parola deinós; l’ineluttabilità di un Disegno più grande di noi, del quale si può solamente scegliere se assecondarlo od ostacolarlo, ma senza speranza di stornarlo. Non per caso lo spettacolo si apre con l’annuncio della morte di Kṛṣṇa, conclusione della terza era cosmica, alla quale il dio va incontro con la stessa serenità con cui ammonisce il suo pupillo Arjuna di adempiere al suo dovere nella grande battaglia finale[5].

Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)
Rappresentazione del Mahabharata in apertura ai XXXVI Rencontres du Jeune Théâtre Européen (foto: Giulia Berruti)

Ed è la guerra l’ultima rassomiglianza tra l’epica omerica e quella sanscrita, nonché il nucleo centrale del Mahābhārata di Studio Novecento. Già Vyāsa fa culminare il suo poema nella grande battaglia, durata diciotto giorni, in cui gli eserciti delle due fazioni lottano per il destino del cosmo fino all’annientamento reciproco; una guerra fratricida e devastante, dove gli eroi di entrambe le parti muoiono uno dopo l’altro poiché il loro tempo è scaduto, al pari di quanto cantò l’anonimo aedo dei Canti Ciprii[6]. Ma questo spettacolo va oltre, fino a diventare una riflessione sul concetto stesso di guerra, sulla sua giustezza e disgrazia; e non per caso le riflessioni sulla guerra sono affidate allo stesso attore, che interpreta di volta in volta Dhṛarāṣṭra e Yudhiṣṭira, il re cieco ed il principe giusto. La guerra è crudele, la peggior sciagura, ma è parte costituente del Dharma e non può esserne bandita dal mondo. La vera sapienza, la vera speranza, è amare la pace prima che la guerra diventi inevitabile, prima che non ci sia alternativa alla distruzione.

È con questo spirito che Studio Novecento guarda al mondo di oggi, sconvolto da guerre e rumori di guerre, ed è questa la lezione tratta dal Mahābhārata. Ancora una volta, il teatro si rivela uno straordinario mezzo di conoscenza e comprensione, perché da questa epopea riesce a trarne la meraviglia e la bellezza. Un mondo intero rivive davanti ai nostri occhi, nella gloria e nel dolore, e il pubblico ne esce commosso, avvinto dalla forza e dalla delicatezza di quest’epica leggendaria. Allo spegnersi delle luci, pare di risvegliarsi da un sogno durato ere, e non si vorrebbe altro che riviverlo ancora.

 


Mahābhārata è uno spettacolo di Associazione Studio Novecento, tratto dal poema epico Mahābhārata di Vyāsa.
Riduzione e drammaturgia di Marco Maria Pernich.
Regia di Stefania Lo Russo.
In scena Andrea Bonzi, Bianca Cerro, Bianca Del Basso, Lorenzo Fonti, Elisa Marinai, Francesco Nigrelli, Andrea Pella, Giacomo Piseri, Leonardo Sarzi-Braga, Riccardo Serra, Ailin Tracchia, con la partecipazione straordinaria di Sofia Paoli e Thy Li Procacci.
Fotografie di Giulia Berruti.

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