Eccoci di nuovo a parlare di Fabio Iuliano, quest’istrionico giornalista aquilano, musicista, blogger e insegnante di lingua e letteratura inglese, che ho conosciuto grazie all’editore di Aurora Edizioni, Mirko Zanona.
A un anno dalla pubblicazione del suo primo libro, New York Andalusia del cemento, un saggio su Federico Garcia Lorca, eccolo alle prese con un racconto dai contorni allucinati e dalle verità schiaccianti.
Cominciamo dal titolo: Lithium 48.
Il litio carbonato è un sale impiegato come farmaco elettivo nel trattamento del disturbo bipolare. Ma Lithium è anche il titolo di un famoso pezzo dei Nirvana. Tra un disturbo bipolare e la voce lacerata di Kurt Cobain, accompagnata dai suoni striduli delle chitarre, ci siamo noi, spettatori, attori, nonché lettori di un racconto, che rappresenta quel che siamo e come viviamo.
Devo cercare di ricostruire come sono finito qui e soprattutto perché.
Tutto ha inizio in una stanza bianca, con un letto con lenzuola bianche, bianco è pure il vestito indossato dal protagonista, Simone un ventitreenne: blogger e musicista, trasferitosi a lavorare come giornalista a Parigi, che non ricorda perché si trova in quella stanza, un posto ovattato che assomiglia a un ospedale, ma ha sbarre alle finestre come fosse una prigione, fra persone sconosciute, legato a un letto. È costretto a stare fermo, gli fanno ingoiare pillole di vario colore e grandezza, che gli offuscano la vista e gli intorpidiscono gli arti, però la mente continua a formulare pensieri.
Mi sento in gabbia, ma il problema non è tanto questo. Esistono gabbie di ogni forma e dimensione. A forma di ufficio, a forma di palco, persino a forma di studio televisivo. Le banche di cui parlava Bert, lo spazzacamino. L’amico di Mary Poppins. Non abbiamo mai dato la giusta importanza a ciò che ci facevano vedere da piccoli.
Bert effettivamente suscita le nostre simpatie, mentre i banchieri sono davvero spaventosi. Ha ragione Simone a dire che non abbiamo dato la giusta importanza, quel film assume oggi il ruolo di profezia edulcorata del nostro tempo, nella realtà, molto più spaventosa, Bert è stato risucchiato dal vento insieme a Mary Poppins e i bimbi rimasti da soli scappano spaventati, con la sensazione di essere inseguiti, spiati, annientati.
Simone in 48 ore si troverà come uno di quei bimbi, è solo a fuggire da se stesso, che vede riflesso in milioni di telecamere.
Ho imparato ad avere paura dalle telecamere da quando mi sono accorto di essere seguito.
Amici e colleghi non si spiegano lo strano comportamento del ragazzo e non riescono ad aiutarlo, sfugge come un’anguilla impazzita, lo sguardo perso tra la paura di un’aggressione e il languore di un amore finito male.
Perché all’origine di tutto c’è Paola, Beatrice o Laura del Duemila: un amore finito tramutato in infinito sentire.
Non sapremo mai nulla di lei se non la sensazione calda e avvolgente dei suoi occhi, che Simone crede di vedere in una ragazza incontrata per caso alla stazione della metro. Un incontro che casualmente si ripeterà, alimentando la fantasia del ragazzo dalle conseguenze imprevedibili.
Y a-t-il quelcqu’un? Y a-t-il quelcqu’un?
“C’è qualcuno qui?” Grida Simone, o almeno crede di gridare ma non sente la voce, perché non ha le forze nemmeno per gridare.
La vista è annebbiata ma nella mente le immagini sono nitide: c’è una moto rovesciata a terra, ci sta lui a torso nudo, nonostante il freddo, che canta a squarciagola la Marsigliese, c’è il proprietario della moto, c’è la polizia francese e ci sono gli occhi indifferenti di Parigi.
Con il passare delle ore affiorano alla mente i ricordi delle 48 ore, trascorse prima di arrivare alla Espace Maison Blanche, questo è il nome della struttura dove è stato portato.
Durante i giorni di permanenza coatta nell’ospedale psichiatrico, il protagonista ricostruisce le 48 ore, nella speranza di capire perché è in quel posto e perché nessuno vuole spiegarglielo.
Y a-t-il quelcqu’un? Y a-t-il quelcqu’un?
C’è qualcuno qui? – lo ripete spesso nel corso della prima parte del racconto, quando l’immobilità a letto e lo sgomento misto a paura e rabbia di non sapere e di non capire, lo fanno sentire ancora più solo, ancora più abbandonato.
Simone è la gioventù del Duemila, che si porta dietro le migliori utopie del Novecento, ma deve fare i conti con la tecnologia sfrenata, la globalizzazione e la costruzione sempre più virtuale dei rapporti umani.
Da quei tre giorni a Seattle, un mese prima del cambio di millennio, in cui un piccolo gruppo di maiali ha provato a ridefinire gli accordi di libero scambio tra gli Stati.
Non ci capisco molto di economia e finanza, ma temo che il risultato di tutto questo sia inevitabilmente un periodo di crisi e di instabilità politica e quello che è successo a New York lo scorso anno rischia di essere solo il primo di una serie di episodi.
Fabio Iuliano ha la caratteristica di scrivere libri che invitano a leggere, perché non trae mai conclusioni o lapidarie spiegazioni, ma stimola la curiosità del lettore.
Sia nel suo saggio, che in questo racconto ci sono focolai impertinenti come questo pezzo sui tre giorni di Seattle e sulle sue conseguenze, di cui l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 è stato solo l’inizio di una tragedia morale, economica e civile che ci riguarda tutti, nessuno escluso.
C’è chi cerca lo scontro, chi vuole giocare ‘alle Crociate’, noi contro loro, puntando alla definizione netta di confini razziali e religiosi.
Negli Usa, così come in Europa, si sta compiendo un’operazione culturale estremamente pericolosa, identificando l’immigrazione con il terrorismo.
Simone non è un esperto di economia, non è un politico, è un giornalista che ha le mani sporche di Storia, che la sente vibrare nel suo corpo. È uno come noi, vittima di un ingranaggio manovrato da oscuri interessi, che portano profitti a pochi e danneggiano tutto il resto, perché nel tritacarne dei poteri occulti dell’economia: esseri umani, animali, piante e aria sono tutti accomunati, tutte pedine di un gioco che sembra non avere fine.
I personaggi schizzati e non perfettamente descritti nelle loro sembianze fisiche, compreso il protagonista, hanno uno e mille volti, tante quante sono le maschere umane che ci camminano accanto senza neppure vederci.
Del resto non c’è mai tempo, stiamo tutti fuggendo da una gabbia, da una stanza linda, da quest’opprimente grigiore che ci toglie appetito e buon umore.
Tutto il libro è pervaso da un senso di ansia e di nevrosi, la viviamo correndo dietro a Simone, che la incarna, assurgendo a simbolo di tutte le donne e gli uomini del nuovo millennio, alienati e frustrati.
Sguardi persi nel vuoto di un’altra giornata da pendolari.
Chi fugge ha il fiato grosso e gli occhi sporgenti. Chi fugge ha paura e, durante la fuga, la paura si trasforma in panico e tutto il libro di Iuliano è teso a provocare tensione e ansia nel lettore, che, come nel mio caso, sarà costretto a fermarsi, ad acciuffare quelle lettere saltellanti e a pensare alla profondità del testo appena letto.
Io da qualche mese a questa parte non mi sento lo stesso. Ho paura ogni volta che mi fermo in un luogo affollato, che sia un centro commerciale, un concerto o un mercatino.
La sua paura è la stessa che serpeggia in tutti noi, donne e uomini dell’Occidente opulento, che ci difendiamo riempiendo di telecamere le strade e i luoghi pubblici, nella speranza di renderli più sicuri.
Le telecamere così come i computer e i cellulari stanno invadendo ogni nostro spazio. La rete e la conversazione virtuale sta disumanizzando i rapporti tra gli esseri umani.
It’s virtual reality, it doesn’t really hurt you.
Le parole di Dana, un canadese con cui abitavo in Galles, mi tornano alla mente.
Per lui era tutto virtuale
Dietro un computer c’è un volto senza connotati e questo fa pensare che sia una realtà che non fa male, ma l’ossessione del protagonista dimostrerà il contrario, il virtuale può fare male e la cronaca di tutti i giorni conferma questa affermazione.
Simone è figlio del suo tempo e come molti ha un suo profilo social dal nome assurdo Ainediberucci_M, da qualche tempo chatta con un’altra identità, presumibilmente donna, dal nome improbabile di Ksenia, che con le sue strane affermazioni, conferma le paure del ragazzo.
ksenia_F: hai fatto tardi ieri…
ainediberucci_M: cosa ne sai?
ksenia_F: io so tutto e ti osservo… non te lo dimenticare
[…] ksenia_F: fai attenzione a quello che fai e dici.
Niente sfugge all’occhio liquido delle telecamere.
che ti piaccia o no, siamo entrati in un’altra epoca.
Ksenia è la maschera inquietante, la coscienza turbata, la rappresentazione di milioni di amicizie virtuali, nate e morte sulla rete.
Non capiremo mai fino a che punto questa conversazione sia frutto delle paranoie del protagonista, ma non è rilevante questo, quanto la dimostrazione della pericolosità del virtuale.
Fabio non è un moralista e segue l’evoluzione della storia, spiazzandoci con la rapidità della narrazione, che passa dal presente al passato, lasciando al lettore le considerazioni etiche.
Importante è il ruolo salvifico dei genitori del ragazzo, sbucati dal nulla, che riescono a portarlo a casa, a liberarlo; una fortuna che molti altri ospiti della struttura non avranno, rimanendo per sempre fuori dal mondo, pur potendo al mondo regalare ancora tanto. Con delicatezza e tristezza viene accennato il dramma dei malati di disturbo psichico, in una società sempre più indifferente, dove la solitudine è la povertà più assoluta.
Lithium 48 è un libro pregevole, snello che si legge in fretta, possibilmente accompagnato dalla musica dei Nirvana, Pearl Jam, Doors, i cui versi citati in lingua originale nel libro, spezzano l’affanno della narrazione e concedono una tregua di pochi secondi.
Lithium 48 è edito da Aurora Edizioni di Mirko Zanona, un editore che crede nella forza della buona letteratura e nel suo valore etico.
Fabio Iuliano, classe 1978, sposato e padre di due splendidi bambini, vive e lavora a L’Aquila dove insegna e svolge la sua attività di giornalista, insegnante e blogger. Suona, per passione e non per professione insieme a un gruppo, gli Y.A.W.P.