Nel 1261 una fiumana di poveri disgraziati si riversò in massa dalla città di Mosul al Cairo. L’inarrestabile avanzata verso la città delle armate dei Mongoli, capitanate dal nipotino di Gengis Khan, aveva già da un annetto fatto nascere nei suoi abitanti il sospetto che il destino avesse in serbo per loro qualcosa di assai poco simpatico, perciò tutti coloro che nella propria personalissima lista di cose da fare prima dei cinquant’anni non avevano contemplato l’essere sventrati da una scimitarra fecero su armi e bagagli e ripararono in Egitto. Signore del Cairo e dell’intera nazione era ai tempi il sultano Baybars della dinastia dei Mamelucchi.
Personaggio complesso e contraddittorio, promotore delle scienze e della cultura, Baybars era anche un despota intenzionato a tenere ad ogni costo le terga ben poggiate sul trono. Per garantire stabilità alla corona cercava instancabilmente l’approvazione della frangia religiosa più estremista e conservatrice della città, quella Sunnita, mettendo il proprio potere al servizio delle sue castigate esigenze in campo morale.
Questo spiegava come terrificanti perversioni quali l’alzare il gomito o il far bisboccia in compagnia di cinedi e mignotte – ma anche più semplicemente l’ascoltare musica lasciva o l’assistere a rappresentazioni sceniche – potessero procurare alla gente qualche grana con la giustizia[1].
Fu in questo ambiente che uno dei rifugiati di Mosul, un vispo ragazzino di nome Muhammad Ibn Dāniyāl, si ritrovò a crescere. All’inizio non fu senza difficoltà che i suoi compatrioti dovettero adattarsi alla loro nuova città: il signore di Mosul aveva mostrato una ben diversa attitudine nei confronti di alcune delle più blande trasgressioni all’ortodossia religiosa. L’aria che si respirava al Cairo era sotto quest’aspetto decisamente più pesante, ma per fortuna anche in mezzo a tanta quaresima non mancavano luoghi in cui i divieti del sultano venivano aggirati senza troppi problemi.
Uno di questi era il quartiere al-Husainiyah, dove in un impenetrabile dedalo di vicoli e botteghe trovavano ricetto tutti gli allegroni che nel resto della città non avevano vita facile: ubriaconi, puttanieri, pederasti, saltimbanchi e compagnia briscola. Non è sicuro che il giovane Ibn Dāniyāl abbia mai fatto parte di una di queste categorie, ma è sicuro che con tutte loro sia entrato in contatto nelle sue frequenti visite al quartiere.
Al Cairo, il primo mestiere con cui Ibn Dāniyal tentò di portarsi a casa la pagnotta fu quello di oculista. Ci si dovette rendere conto ben presto, tuttavia, di come le sue abilità poetiche superassero di gran lunga le sue pur considerevoli competenze mediche. I versi che buttava giù tra una visita e l’altra erano dei veri piccoli capolavori, pieni di spirito e di una piccante irriverenza che non tardò a conquistargli un certo seguito presso gli intenditori; persino quelli che trovavano da ridire sul contenuto delle sue poesie – talvolta, invero, piuttosto spinto – non potevano comunque attaccarlo sul piano della forma, sempre raffinata ed elegante. Nei suoi carmi entrava di tutto, dalla medicina alla vita nei bassifondi del Cairo, e non venivano di quando in quando risparmiate frecciate satiriche allo stesso Baybars e alla sua intransigente politica interna. Fu proprio in virtù di questa sua estrema versatilità che, un giorno, un curioso personaggio avvicinò il giovane poeta con una proposta destinata a fare la sua fortuna.
L’uomo si chiamava ‘Alī Ibn Mawlāhum e gestiva un teatrino delle ombre. Non era, bisogna dirlo, un biglietto da visita particolarmente promettente: le leggi del sultano bollavano attori e teatranti come individui perversi e immorali, senza contare il fatto che nell’Egitto del XIII secolo il teatro delle ombre stava alle arti sceniche come la pastasciutta col ketchup sta alla gastronomia. Le opere scritte per questo tipo di teatro erano quanto di più sciapo e triviale si potesse concepire, i loro autori erano scribacchini che cercavano di strappare risate al pubblico raschiando il fondo del barile della comicità.
Di questa assai bassa forma d’intrattenimento ‘Alī aveva fatto il proprio mestiere, ma bisogna pensare che non ne fosse interamente soddisfatto. La lettura delle poesie di Ibn Dāniyāl era stata per lui una folgorazione, la prova di come anche le peggiori oscenità potessero essere portate in scena vestite d’una metrica perfetta e dei più ingegnosi artifici retorici[2], e questa fu la ragione che lo spinse a commissionare al nostro abilissimo poeta-oculista tre opere da mettere in scena nel proprio teatrino. Quel che Ibn Dāniyāl scrisse per accontentarlo è tutto ciò che ci rimane del teatro delle ombre del medioevo islamico[3].
Due sono le cose che colpiscono subito il moderno lettore delle opere di Ibn Dāniyāl. La prima è la loro organizzazione sul piano formale, totalmente diversa rispetto a quella cui siamo abituati. La loro trama procede per episodi, non sempre collegati tra loro in modo per noi del tutto logico, e l’interazione tra i personaggi avviene più attraverso un susseguirsi di monologhi che di dialoghi veri e propri. Frequentissima è l’inserzione di componimenti poetici (anche belli lunghini) che rallentano la trama in modo talvolta intollerabile.
La seconda particolarità di queste opere, forse ancor più evidente della prima, è invece la loro pazzesca, assurda, grottesca volgarità. Ibn Dāniyāl era un uomo timorato di Dio. Tutte e tre le sue opere – Lo Spirito Ombra, Il meraviglioso predicatore e lo straniero, L’ammalato d’amore – si concludono con i protagonisti che rinnegano i loro passati errori e tornano in seno all’Islam con rinnovato ardore. Il problema è che la castità di questi finali è all’interno del testo ampiamente controbilanciata da una trama in cui tutto, tutto ciò che la mente di un uomo del secolo decimoterzo poteva concepire in materia di zozzerie ci viene sbattuto in faccia con imbarazzante franchezza. Facciamo qualche esempio.
La prima opera, Lo Spirito Ombra, deriva il suo titolo dal nome del co-protagonista, un gobbo che dopo aver passato diversi anni al servizio di un eccentrico nobiluomo, il principe Coito, ha deciso di partirsene per Mosul. Quando, dopo qualche anno, risolve di far ritorno al Cairo il suo shock è immenso. Taverne, bordelli e case da gioco cadono in rovina, poiché a causa dei decreti del sultano Baybars nessuno può più osare mettervi piede. Il diavolo in persona – immagina Spirito Ombra in una lunghissima e lamentosa elegia – siede in mezzo alle macerie dei suoi antichi templi e piange sconsolato la sua perduta grandezza.
Mentre il gobbo è immerso nelle sue elucubrazioni entra in scena il principe, il suo antico signore, il «portatore del lungo bastone», colui che può «rubare la sonnolenza al sonno», colui che ha «schiaffeggiato più facce di quanto un panettiere abbia mai fatto coi suoi impasti», colui che è «più rottinculo di quel buffone di Abū Nuwās[4], il poeta» ma è anche allo stesso tempo colui che ha «sverginato più ragazze di quanto una chiave abbia deflorato lucchetti[5]». Il principe Coito comincia quindi a squadernare le sue… ehm… imprese in un’interminabile filza di versi che fanno sembrare Le 120 giornate di Sodoma un bigino per educande.
A quel punto Spirito Ombra, lieto di ritrovare in quel luogo di mestizia quel matto del suo padrone, si premura di informare il principe del fatto che un grande poeta, il panegirista di corte Mucchiodisterco, ha composto un poema in suo onore. Il poema viene recitato e il principe lo ascolta compiaciuto, ma Spirito Ombra si accorge subito che qualcosa non torna: disperando di ricevere una ricompensa per i suoi servigi, Mucchiodisterco ha infatti farcito i suoi versi di imbarazzanti doppi sensi che, mentre sembrano lodare il principe, mettono in realtà in serio dubbio la sua virilità. Il gobbo si lascia scappare una risatina, facendo insospettire il principe. Lo scambio di battute che ne deriva è qualcosa di memorabile.
PRINCIPE COITO Cosa puoi dedurre da tutte queste metafore?
SPIRITO OMBRA Che il grande Mucchiodisterco si è visto negare una ricompensa per la sua fatica, e pertanto la sua poesia si è riempita di amarezza e la sua retorica si è fatta spregevole e disgustosa.
PRINCIPE COITO Mi pare evidente. Giuro che gli farò piovere sulla schiena il cielo e la terra. Poi gli strapperò un braccio e glielo infilerò nel culo.(The Ibn Dāniyāl Trilogy, ed. Martin E. Segal Theatre Center Publications, New York, 2013., p.27)
È una battuta geniale. Alla prima parte della minaccia, epica e tonitruante, da vero miles gloriosus, fa seguito il cambio di registro più brusco della storia della letteratura, con un effetto comico irresistibile.
Ancor più sboccata è forse la terza opera della trilogia, l’Ammalato d’amore. Il protagonista è stavolta un pederasta, Al-Mutayyam, che dopo aver intrecciato una relazione amorosa con un uomo di rara bruttezza decide di punto in bianco di piantarlo per il bellissimo Al-Yutayyim.
Il bel giovane fa il prezioso, e la prima parte del testo teatrale è interamente occupata da una serie di sfide imposte da Al-Yutayyim al suo allupatissimo spasimante per potersi dimostrare degno delle sue grazie. Nel corso dell’ultima sfida, un combattimento fra tori, Al-Mutayyam ha la peggio: il suo toro viene ucciso da quello dell’imberbe fanciullo che a questo punto, stranamente, esce di scena per non ricomparirvi più.
Ha ora inizio la seconda e ben più curiosa parte dell’opera, quella in cui il disperato Al-Mutayyam decide di consegnare ad un cuoco i resti mortali del suo toro in modo da poter offrire con essi un banchetto ai suoi amici, i frequentatori del bordello maschile più famoso della città. Costoro fanno la loro comparsa sulla scena, uscendo da dietro le quinte uno alla volta e presentandosi al pubblico. Qui, per il gran finale della sua trilogia, la fantasia di Ibn Dāniyāl si scatena.
Ogni personaggio esce allo scoperto recitando un piccolo carme introduttivo, per poi dilungarsi con estrema dovizia di particolari nella descrizione della propria particolare perversione sessuale. Davanti agli increduli occhi del pubblico sfilano scambisti, coprofili, masochisti, in una processione che è un’enciclopedia di ogni pratica sessuale possibilmente teorizzabile da un uomo del medioevo.
La cosa interessante è che, pur presentando questa gaia compagine come una melma umana completamente asservita al proprio peccato, Ibn Dāniyāl non dimentica mai neanche per un istante di stare scrivendo per un pubblico, quello del teatro delle ombre, che ha pagato per divertirsi. L’impegno che l’autore profonde nel caratterizzare queste figure dalla discutibile moralità si risolve in una serie di perifrasi originalissime, a tratti geniali, che mai e poi mai ci parrebbero uscite da una penna del XIII secolo. Questo, a titolo di esempio, è l’incipit del discorso pronunciato da ‘Omayr Al-Jallād, “il masturbatore”, nel presentarsi al pubblico.
«Io sono il vostro servitore ‘Omayr Al-Jallād, l’uomo che ha messo incinta la sua mano, l’uomo dall’enorme uccello che può evocare con la fantasia immagini di bei ragazzi per poi scoparsele. Sono a tal punto un puttaniere che posso anche farmela con spettri e fantasmi. […]»
(Ibn Dāniyāl, Op. cit., p.191)
Si dica quel che si vuole, ma «l’uomo che ha messo incinta la sua mano»non è solo letteratura, è poesia.
Strano tipo, il nostro Ibn Dāniyāl. Nel leggere le sue opere sarebbe fortissima la tentazione di vedere in lui una figura moderna, un uomo che in mezzo a una società bigotta e oscurantista ha trovato il coraggio di cantare a squarciagola le gioie del sesso, del vino, del proibito. Attenzione però, perché sarebbe un’idea del tutto fuorviante.
Volete sapere come finisce, la storia dell’ammalato d’amore Al-Mutayyam? Via via che entrano in scena, gli ospiti del suo banchetto cadono ubriachi uno ad uno. Sul velo del teatrino di ‘Alī Ibn Mawlāhum le loro ombre giacciono a terra immobili, e solo Al-Mutayyam è rimasto sveglio per accogliere l’ultimo dei suoi ospiti. A bussare alla porta del bordello, per ultimo, viene l’angelo della morte. È una disperata invocazione quella che chiude l’opera, l’invocazione che un peccatore fa a Dio perché perdoni le sue colpe prima di portar via la sua anima. E Dio, benevolmente, accetta. I convitati si ridestano all’improvviso, ma se la danno a gambe terrorizzati: il passaggio del corteo funebre che accompagna al cimitero i resti mortali del povero ammalato d’amore è l’immagine sula quale si chiude finalmente il sipario.
Ibn Dāniyāl non giustifica la condotta dei suoi personaggi. Non approva la loro lussuria, la loro ubriachezza, la loro promiscuità sessuale. Si astiene però dal condannarli. Per lui Spirito Ombra, il principe Coito, il pederasta e i loro degni compari non sono pezzi di carne già pronti per l’Inferno, bensì uomini. Uomini trasformati dai loro eccessi in figure caricaturali, è vero, ma non per questo meritevoli di anatemi e maledizioni.
Le loro intemperanze non sono marchi d’infamia da nascondere ad ogni costo: di esse si può parlare, di esse si può ridere. In fondo – e questo è il messaggio di Ibn Dāniyāl – non siamo anche tutti noi le figure di carta di un grande teatrino delle ombre? Non viene commissionata anche a noi, al momento della nostra nascita, l’invenzione di una storia da portare in scena su un palcoscenico sontuosamente illuminato? Non dovrà un giorno anche questa trovare la sua fine, quando qualcuno soffierà sulle candele?
In copertina: Jean-Léon Gérôme, L’Almeh, 1873