Il rosso dei papaveri, il rosso acceso quasi dipinto, tipico di quelle pellicole degli anni settanta, che trasportano subito in un’atmosfera di sogno. Il bianco di un cavallo. Di un cavallo che muore. Un bambino lo guarda. Chiama un ragazzo. Il ragazzo chiama il vecchio del villaggio, Tsitsikore. È l’erba cattiva che ha l’ha ucciso, dice. Un tempo ci fu una battaglia. E i caduti chiedono ancora vendetta. L’erba è malata, meglio portare i cavalli a pascolare altrove. È L’albero dei desideri, un film di produzione sovietica del 1977, diretto da Tengiz Abuladze, e basato sui racconti dello scrittore georgiano Giorgi Leonidze.
I corpi dei personaggi hanno qualcosa di etereo e insieme concreto che ricorda i film di Pasolini. Anche la regia ci sembra antica, venuta da lontano. Riprese fisse, stacchi. Poi ad un certo punto prende il via dolcemente. Siamo in un piccolo paese della Georgia, ai primi del Novecento. Il paese è rimasto uguale nei secoli, immobile nella foschia. Mille bambini da tutte le parti. Le donne vestono di nero, siedono in fianco alle case a rammendare, due o tre insieme. O si trovano tutte insieme, sotto un albero, davanti alla fonte a chiacchierare. Guarda quella donna che va a prendere l’acqua, guarda che sfrontata, veste di rosso. Sarà la terza o la quarta volta che prende l’acqua. Lo fa solo per farsi vedere. Guarda chi arriva, là: è Shete, viene a bere, a rinfrescarsi. Che bel ragazzo, Shete. Chissà com’è che non si è ancora sposato.
Il quadro statico che si presenta ai nostri occhi è subito incrinato da un omaccione nero che si aggira zoppicando per il villaggio. Quell’anticristo ha le tasche piene di bombe, dicono le donne. Urla e sbraita, e dà degli imbecilli a tutti, a Tsitsikore, agli allevatori che lo guardano stupiti, con le labbra il sorriso di chi sa di avere a che fare con un matto. Guardate!, dice. Guardate: mi mangio l’erba. Lo vedete? Quell’erba lì, che voi dite malata, me la mangio. Figurati se è malata. Imbecilli. Imbecilli voi e le vostre superstizioni. Arriverà un temporale, e vi porterà via tutti quanti. Arriverà un temporale.
Stacco. Un prete, un predicatore, poeta, chi lo sa. Tutto vestito di nero, parlando alla gente, parlando a nessuno, agitando le mani, intensamente immerso nel suo discorso, quasi sacro. Apre gli occhi, fissa l’uditorio. È solo.
E poi c’è Pupala. Tutta strana, vanitosa, svaporata. Venuta fuori chissà da dove.
Ogni personaggio è così, immutabile, sempre uguale a se stesso, fiabesco. C’è da chiedersi perché mai le vicende di questo paesino ci interessi tanto. Perché stiamo lì, ad ammirare quell’erba colore smeraldo, quei papaveri, quelle casupole che ricordano i primi dipinti di Van Gogh. Cosa c’entra con la nostra vita, con la vostra esistenza? Forse niente, forse ci piace perché non c’entra niente, perché sono figure esotiche, nuove e sperdute in un paese di cui sappiamo poco, ai margini dell’esistente. E invece, ad un certo punto, una scena ci fa capire.
Eccolo lì, ancora, quell’anticristo anarchico, con il suo cappellone e i suoi baffoni, e il viso tondo da uomo buono. Cosa combinerà adesso. Cosa sta combinando. È lì, non si capisce, insieme a tutti i bambini. Ha un disegno in mano. È il disegno di un treno. Quanto è bello il treno, dice. Vedete quella? È la caldaia. Quando l’acqua bolle, una forza spaventosa solleva il coperchio, e metterà in moto la cinghia della macchina. E allora la macchina urlerà il suo ruggito, un ruggito di pace e di progresso, e di benessere e bellezza per tutti. Che bello il treno, dice l’anticristo coi baffi buoni ai bambini. Che bello. E tutti i bambini si mettono in cerchio, e uno tiene l’altro e tutti insieme formano un grande lungo treno, un treno che cammina per tutta la campagna, tra le mucche, andando al ritmo zoppicante della gamba malata dell’anarchico. Quando arriverà il treno, la terra fiorirà, e voi andrete in città. E studierete, e sarete persone istruite.
«Tu, sovversivo, non ti vergogni?» La voce del vecchio del villaggio, all’improvviso. «Perché rompi le scatole ai ragazzi? Perché racconti balle? Credi che il treno porti la felicità? Quando arriverà il treno, l’aria non diverrà forse sporca? Il grano e l’uva non si guasteranno? Alla gente resterà la coscienza?»
I due si guardano, belli, ognuno nella sua convinzione. È la nuova opposizione tragica del secolo Novecento. Da un lato il progresso, la libertà e l’uguaglianza. Dall’altro il passato, la tradizione. Ma anche il radicamento nella natura. I due continuano a guardarsi ancora oggi, anche quando il progresso e la civiltà sembrano aver spazzato via il secondo. È il mondo che raccontavano i fratelli Taviani, il mondo di quel Padre padrone che anche lui, nella sua cecità, sentiva di far parte di un ordine universale e metafisico. Nessuno sa che fine abbia fatto quell’ordine, scomparso grazie alla forza dei binari e delle locomotive.
Nel frattempo abbiamo imparato a fare conoscenza con Marita e Gedya. Due innamorati dal volto bianco e terso, usciti da qualche antica storia persiana. Due innamorati divisi dalla tradizione, divisi da un matrimonio. Shete, il ragazzo aitante che si era fermato alla fonte a bere e rinfrescarsi, si sposa. La famiglia è povera, deve accettare. Il vecchio Tsitsikore dice che è giusto, così è l’usanza. È la storia più antica triste del mondo. Eppure la riviviamo sempre, ogni volta, come se fosse nuova.
E c’è ancora altro. È un insieme di prismi e di specchi questo film, e di tante storie nelle storie, e tante cose insieme. C’è ancora l’albero dei desideri. Quest’antico albero che nessuno ha mai trovato e che si dice si trovi da qualche parte. Chi cerca trova, dice Pupala. Forse, a trovarlo, si capirà tutto, tutto diventerà più facile e più bello, tutto diventerà d’oro, si aprirà il cielo, come raccontano le vecchie storie. O forse no, forse le storie sono come l’erba malata, che l’anticristo buono ha mangiato senza che gli succedesse nulla. O forse invece le storie servono a qualcosa, dicono qualcosa di vero… nessuno lo sa. Chi cerca trova, dice Pupala.