L’arte spesso nasconde segreti e talenti. Gli artisti confrontandosi con il mondo esterno non sempre ricevono l’apprezzamento che meritano e, un po’ per colpa della loro timidezza e grande profondità d’animo, un po’ per la leggerezza della gente comune, trovano conforto solo in se stessi, in quel che mente e corpo produce.
Una descrizione che comodamente può accogliere un pittore piemontese della metà dell’Ottocento di nome Enrico Reycend, per molto tempo dimenticato e solo ultimamente riportato alla luce, anche grazie all’esposizione dei suoi quadri alla Fondazione Accorsi-Ometto di Torino, attiva dal 27 settembre 2018 al 20 gennaio 2019.
Sono andata a vedere le sue opere, le locandine hanno attirato molto la mia attenzione mentre percorrevo via Po tra una lezione e l’altra all’università, e le speranze di osservare tanta meraviglia e bellezza hanno trovato una soddisfazione immensa.
Giunta al loro cospetto ho potuto immergermi in quelli che erano antichi paesaggi naturali della provincia torinese e della vecchia periferia urbana di Torino, non ancora coperti da infrastrutture ed edifici odierni: la mia impressione complessiva dopo aver lasciato il museo Accorsi è stata una lieve malinconia, una nostalgia per qualcosa che non ho mai potuto vivere e osservare in prima persona ma percepita come se mi appartenesse, immaginabile anche attraverso il cemento che oggi c’è al posto di quei prati e vecchie fattorie diroccate abitate da povera gente.
Enrico Reycend nasce a Torino nel 1855, respira un’atmosfera artistica fin da quando è in fasce, essendo figlio di librai e mercanti d’arte. Inizia a studiare all’Accademia Albertina ma presto la abbandona per continuare la pittura en plain air in autonomia, appresa grazie ad Antonio Fontanesi, suo insegnante negli anni di scuola. Presto sviluppa un suo stile pittorico, lontano da ciò che aveva imparato nella parentesi accademica, anche grazie alla sua indole solitaria e schiva che lo porta a dipingere molto e ad osservare il mondo silenziosamente.
Il 1873 è l’anno della rivelazione: espone per la prima volta alla Società Promotrice delle Belle Arti, allora situata nel Palazzo di Carlo Ceppi a Torino. Negli anni successivi fino al 1920 i suoi quadri sono messi in mostra anche nelle sale del Circolo degli Artisti nel Palazzo Graneri della Roccia. Durante questa sua proficua attività visita l’Esposizione universale di Parigi del 1878, dove rimane ammaliato dalle opere di Corot, di cui è un grande estimatore. Il successo aumenta e nel 1881 espone in diverse città italiane, la sua opera più apprezzata è Porto di Genova: sì, perché oltre alla campagna canavesana e alla periferia torinese, troviamo nella sua produzione anche alcuni paesaggi di mare: sono soprattutto l’alba e il crepuscolo ligure che posano sulla distesa d’acqua ad affascinarlo. Porto di Genova mostra però il mondo contemporaneo dell’industria agli albori del XX secolo, propria di un mondo in cambiamento.
Porto di Genova sembra essere profetico: i problemi infatti arrivano con lo scoppio del Primo conflitto mondiale. Le sue opere iniziano ad essere rifiutate perché viste come sorpassate e poco alla moda, non avendo nulla a che vedere con Futurismo e Avanguardismo più in generale. Di conseguenza, spinto dai problemi economici, ripropone soggetti uguali perdendo ogni istinto innovativo che prima riusciva a stupire e far innamorare il suo pubblico. Alcuni anni dopo la guerra, intorno al 1925, Reycend giunge al tracollo economico, vende la casa dei genitori e si trasferisce in Via Lagrange, dove affitta alcune stanze a poco prezzo. In questa modesta abitazione muore due anni dopo, nel 1928.
Per molto tempo il mondo prosegue come se Enrico Reycend non fosse mai esistito: tutti eccessivamente distratti dal progresso e dalla frenesia che aveva travolto non solo l’Italia ma l’intero Occidente. Una società piena di nuovi oggetti, nuovi edifici, denaro, nuovi mezzi di trasporto era troppo rumorosa per sentire ancora l’arte “delicata” e silenziosa di Reycend, un’ arte prodotta dalla riflessione e dall’attenta osservazione del mondo contadino metodico e lento.
Solo uno tra molti riesce ad evitargli l’oblio. Grazie all’interesse dello storico dell’arte Roberto Longhi, che riesuma il fascino della pittura del paesista piemontese, Reycend torna alcuni decenni più tardi tra le nostre vite per essere nuovamente apprezzato. Longhi è il fondatore della rivista “Paragone”, sulla quale nel 1952 pubblica il suo articolo intitolato “Ricordo di Reycend”: lo storico, negli anni del collasso del pittore, in concomitanza con la Prima Guerra Mondiale, trova alcune sue opere in vendita presso piccoli mercatini milanesi. Stupito dalla qualità elevata di quelle pitture vendute però al prezzo delle sigarette, le acquista senza esitare e poco tempo dopo decide di far visita all’autore. Reycend parla a Longhi di una “natura delicata”, mostrando la sua volontà di rimanere fedele a se stesso, senza farsi coinvolgere dalle nuove correnti artistiche nel Novecento.
Longhi custodisce con cura le opere fino al momento che pare il più adatto per riportarle in scena: alla Biennale di Venezia del 1952 i quadri di Reycend vengono esposti nella mostra Paesisti piemontesi dell’Ottocento e successivamente la raccolta viene donata alla GAM di Torino.
Escludendo quella parentesi della storia che ammutolì per un attimo Reycend, la critica ha sempre apprezzato quest’arte sensibile, timida ed elegante, sia negli anni del successo, sia negli anni della riscoperta fino ad oggi. Il critico Biancale afferma che per Reycend “la luce […] divenne la protagonista suprema dell’azione pittorica” definendo le sue opere come “una luminosità totale e continua”.
Attraversando i corridoi nel museo Accorsi, con le mura decorate dai quadri di Reycend, l’idea è stata quella di affacciarsi a finestre sul passato, una natura incontaminata e poco pretenziosa, con l’unico intento di chiedere all’uomo un po’ di apprezzamento, un po’ di volontà nello scorgere la sua bellezza semplice e per l’appunto “delicata”, come il pittore la descrive.
Quel che più ha assorbito il mio sguardo sono state le piccolezze e i dettagli: si scorgono poche figure umane accompagnate quasi sempre da animali, le quali occupano una minima parte della veduta, dominata invece dall’ambiente naturale, per la maggior parte con l’utilizzo dei colori verde e azzurro. La considerazione di Biancale dimostra quel che ho potuto notare: Reycend dipinse alcune opere su tela, altre su tavola e altre ancora su cartone. Il materiale di supporto utilizzato determina molto il tipo di lucentezza dell’opera.
Ricorre in ogni opera un punto di vista discreto e timido, tanto da farmi pensare che, come la natura, anche questo pittore volesse lasciare di se stesso su questo mondo, un ricordo delicato.