Domon Ken, Yasujiro Ozu

Yasujiro Ozu, il cinema come l’acqua che scorre

«Se avessimo vinto noi, ora gli americani porterebbero parrucche nere e canterebbero canzoni giapponesi masticando chewing gum»
«Allora meno male che abbiamo perso»

(Yasujiro Ozu, Il gusto del saké, 1962)

Inquadrature fisse, cavalletto basso. Colori pastello, scene di interno, fra le intelaiature di legno e i pannelli di carta delle case giapponesi. Yasujiro Ozu è la poesia degli anni cinquanta. L’inquadratura è sempre perfettamente calcolata, precisa, sobria. I personaggi, vestiti all’occidentale o avvolti nei loro kimono, sembra di conoscerli da sempre. Ecco due o tre scorci di città, Tokyo soprattutto. Palazzi freddi e alberi. Poi ferrovie e ponti e case basse. E ancora palazzi e insegne luminose multicolori. Un paese che si apriva al nuovo, che imparava a flirtare con l’America, senza però rinnegarsi, mantenendo la magia di un paese antico.

L’occhio della cinepresa passa quindi in un ufficio, dove una ragazza, in età da marito, fa la segretaria. Oppure, indugia in una sala da tè, dove un vecchio maestro sta cenando con i suoi ragazzi di un tempo, che, ormai sposati e con figli, sono tornati a fargli visita. O ancora c’è una giovane vedova, tutta casa e famiglia, che sarebbe ora si sposasse di nuovo.  I film di Ozu hanno sempre queste ambientazioni intime, in cui non c’è azione, non c’è nulla, se non persone che parlano sedute, bevendo il tè.

Tutti i film di Ozu fanno parte di unico insieme; anche gli attori sono sempre gli stessi, proprio come una compagnia teatrale. E questo, film dopo film, fa sì che gli attori, i loro volti, i loro personaggi, sembrino delle persone vere, conosciute, come vicini di casa o parenti lontani. È lo stesso film che scorre, che continua per tutta la vita del regista, e – inspiegabilmente – si lega anche alla tua, ti dà l’illusione di esserci dentro, di essere anche tu parte del film.

Yasujiro Ozu
Yasujiro Ozu durante le riprese de Il tempo del raccolto del grano, conosciuto anche come Inizio Estate

Ozu ha uno sguardo dolce sul mondo, e lo ritrae a pennellate fini di acquerello, come sapeva fare Chaplin, o Charles Schultz – sì, del celebre autore dei Peanuts condivide la levità, la capacità di raccontare la vita e i desideri. La poesia è in un gesto, in una ragazza che si infila le scarpe, in due amiche che scherzano, nelle gite fra ragazzi fuori porta. C’è qualcosa che ricorda la vita dei nostri nonni, l’Italia frugale del dopoguerra, poi abbagliata dalle possibilità della vita moderna.

E ogni tanto la scena è interrotta da una musica, che sembra provenire non dal film, ma da dentro di noi, come un fatto del tutto interiore. È un modo di usare la colonna sonora in apparenza simile a quello hollywoodiano – anche i ritmi sono occidentali – eppure sembra un’eco, un richiamo lontano. Sembrano quelle musiche che accompagnavano i film muti, come in Chaplin, o nel bellissimo Ménilmontant di Dimitri Kirsanoff, un film poco conosciuto dei primi anni del secolo. Forse non è un caso che Ozu aspettò il ’36 prima di girare il primo film sonoro: è legato a un linguaggio differente rispetto a quello che conosciamo noi, un linguaggio in cui il film non serve solo a raccontare, ma a definire i contorni di un universo.

Attraverso quel modo di comporre le immagini, di pennellarle,  entriamo in un Giappone d’altri tempi, lontano da quell’ubriacatura di tecnologia che ne ha fatto il paese rampante degli anni ‘80. Qui tutto è calmo, misurato, elegantemente povero. La scena è composta fotogramma per fotogramma, e ogni dettaglio è perfettamente costruito, equilibrato, armonico. Ozu sacrifica tutto alla bellezza e alla perfezione della singola inquadratura: arriva persino a spostare gli oggetti da un’inquadratura all’altra, sacrificando ogni regola di continuità[1], in quanto, per Ozu, è l’inquadratura, è il fotogramma a dover essere perfetto, a prescindere dalle relazioni con gli altri fotogrammi.

Tutto ciò, invece che creare confusione, come si potrebbe pensare, genera invece una grande armonia. Un grande equilibrio, che si manifesta in ogni dettaglio della scena. Gli oggetti di scena, gli sfondi, i gesti dei protagonisti sono i correlativi oggettivi della vicenda: sono ciò che dona senso e corpo alla trama, che nasce non dalle azioni, da “quello che accade”, ma dall’atmosfera.

Una leggera musica. Sfondi di paraventi di carta e un giardino. Il fumo di una sigaretta si spande nell’aria; un uomo e una donna, non più nel fiore dell’età, parlano del più e del meno, ricordano.

È L’Autunno della famiglia Kohayagawa, uno dei suoi ultimi film:

Kuniko Miyake e Setsuko Hara in Il tempo del raccolto del grano (Inizio Estate, 1951)
Kuniko Miyake e Setsuko Hara in Il tempo del raccolto del grano (Inizio Estate, 1951)

«Che strano il destino…»
«Perché?»
«Non ci saremmo mai incontrati se avessi perso il primo treno»
«È vero. Era destino che ci incontrassimo»
«Sì, il destino è strano. Non ci vedevamo da diciassette anni»
«E in tali circostanze, per di più. Entrambi siamo cambiati»
«Ritrovarci in un velodromo… la vita cambia, come l’acqua che scorre[2]»

La sua è una commedia, come quelle di Menandro, o meglio ancora, di Terenzio. Sì, una commedia stataria: l’azione è ferma, tutto il film si sviluppa dai dialoghi di due o tre persone pacificamente sedute a bere qualcosa. Usa sempre inquadrature frontali, al limite della linea dei 180 gradi, e questo ping-pong di visi dà ritmo alle scene. Senza essere noioso come di solito sono le sequenze campo-controcampo ripetute.

E così entriamo nelle sue storie di uomini non più giovani affezionati alle loro vecchie fiamme, di ragazze in cerca di marito, e chissà mai se sarà quello giusto; piccole cose, minime. Tramite l’espediente di un matrimonio, di una chiacchierata al bar, di un viaggio, Ozu racconta la danza della vita. Il tè è quasi finito, i due anziani sorridono, e sembrano giovani. Lei agita un ventaglio – la fine estate è particolarmente calda, nelle regioni del Kansai.

Il gusto del saké, Yasujiro Ozu
Gli attori Shima Iwashita e Ryū Chishū ne Il gusto del sakè, l’ultimo film di Yasujiro Ozu. (Sanma no aji, 1962)

«Ti ricordi la sala da tè?
«Hanayashiki, vuoi dire? Ci andavamo spesso»
«Andavamo a fare lunghe passeggiate. Era così divertente.»
«Già, quei bellissimi paesaggi innevati e la caccia alle lucciole… Ti ricordi quella notte di luna piena?»
«Certo. È la notte in cui sono diventata una donna…»

Scopriamo così le loro esistenze, a poco a poco. Scopriamo le mogli, gli amanti, i figli illegittimi. Yasujiro Ozu, completamente alieno da qualsiasi bigottismo, rappresenta una società in cui i rapporti umani sono sempre più complessi; dove i legami familiari vengono meno. Eppure c’è sempre un modo per aggiustare le cose, o almeno accettarle. Anche il dolore, la malattia. O un lutto. Perché anche questo è parte della danza.

Poi, la macchina da presa si posa su una sedia di paglia, una vecchia lampada. Oggetti immobili, come le sue riprese. Oggetti che non sembrano aver bisogno di qualcuno li usi, li riempia, torni a popolarli. Hanno una vita propria, una vita interna che noi non capiamo più. Ma che invece è parte di quella civiltà, che sente il vibrare infinito delle cose.

E così, piano piano, scopriamo un mondo, un Giappone che non esiste più, un Giappone delicato, lontano sia dall’esotismo fin de siècle, sia dalla modernizzazione forzata. Un Giappone di case in legno e tetti spioventi e ferrovie, uffici bianchi, tralicci dell’alta tensione e giardini incantati dietro ogni finestra. E scopriamo, così, all’improvviso, che si può provare una forte, logorante nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai visto.

 

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In copertina: Domon Ken, Kuga Yoshiko e Yasujiro Ozu, 1958

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