Hafiz Osman, Il nome di Allah, 1600 ca.

Al Hallaj, il Cristo dell’Islam

L’Islam per me è sempre stato un mistero. Islam, “sottomissione”: di primo acchito provo un forte scetticismo per questa parola. Poi però, una moschea dopo l’altra, un incontro dopo l’altro hanno generato in me, non credente, una inspiegabile, irrazionale attrazione. Non è facile spiegarlo, non è facile parlare di Islam,  ma è quantomai necessario, per non confondersi tra musulmani e terroristi, per orientarsi anche in questi tempi in cui la religione è tornata a essere un motore, una speranza, un tema non solo culturale, ma anche politico.

Non è un caso che pochi giorni dopo l’11 settembre, la Mondadori abbia creato una collana apposita, dal titolo Islamica. Per capire, prima di giudicare, prima di fare delle facili equazioni. Per distinguere, anche. I tempi in cui viviamo non si affrontano solo con una battaglia politica, ma anche con una battaglia culturale.

L’Islam resta ancora un mistero, per me. Nonostante tutte le letture. Uno crede di fare qualche progresso, e poi si rende conto che non ha capito, che sta solo guardando dal buco della serratura. Un piccolo passo avanti credo però di averlo fatto grazie ad una lunga conversazione con un giovane imam nella sperduta Diyarbakır, la capitale del Kurdistan turco. Scrivevamo in turco su dei foglietti di carta, in modo che avessi il tempo di tradurre con calma; poi, quando l’argomento si fece più complicato, l’imam si faceva capire a gesti, e sono quei gesti che mi sono rimasti, più che le parole.

Era chiarissimo: «L’aria la sento, ma non la vedo; così è Dio, lo sento col cuore, anche se non lo vedo. Lo sento, come tu ora senti le mie parole anche se non ti sto parlando». E quando si entra in una moschea, lo si capisce. Non è come entrare in una delle nostre chiese, per quanto affascinanti; si sentiva una presenza diversa. È come entrare in un altro mondo, e allo stesso tempo sentirsi a casa.

Ci fu un musulmano, anche se non propriamente ortodosso, che avrebbe sicuramente condiviso queste parole: si chiamava Al Husayn Ibn Mansur Al Hallaj. La meditazione su Dio, l’innamorarsi di Dio, fu l’unica ragione di vita di quest’uomo, che visse nella seconda metà del IX secolo d.C in Persia, dove predicò spostandosi da una città all’altra, e dove venne condannato a morte per le sue idee (non si sa se sulla croce o per impiccagione). Per questo è conosciuto come il Gesù Cristo dell’Islam.

Questa è una possibile ricostruzione del disegno di Al-Hallaj. Il punto al centro rappresenta il significato profondo della realtà, ed è inconoscibile.
Questa è una possibile ricostruzione del disegno di Al Hallaj. Il punto al centro rappresenta il significato profondo della realtà, ed è inconoscibile.

Al Hallaj compose diverse poesie, dei «detti ispirati» estremamente enigmatici. L’enigma era parte di questo personaggio, che, quand’era in vita, veniva chiamato «il cardatore di segreti», colui che scioglie e ricompone i più reconditi nodi delle conoscenze umane. La sua era una particolare visione dell’Islam, in cui il significato letterale del Corano è solo la scorza, la parte più superficiale. La parte più profonda è costituita da quelle che Pascal chiamerebbe «le ragioni del cuore». E infatti, nel mondo culturale sufi, la grande disputa di allora riguardava la cosiddetta «ebbrezza» spirituale.

A differenza dei poeti del Trecento persiano, come Hafez, in cui sacro e profano si mescolano, e che probabilmente frequentava davvero le taverne, la maggior parte dei predicatori sufi, compreso Al Hallaj, dava un significato più che altro simbolico a questo termine. Significava lasciarsi trasportare dai sentimenti, considerare primari e superiori il sentimento estatico e «l’innamoramento» per Dio fino addirittura all’irrazionalità, alla follia. Al Hallaj propendeva decisamente per questa interpretazione; al contrario, gli altri sufi, più moderati, predicavano la «sobrietà». La rottura era questione di anni, e, quando Al Hallaj incominciò a predicare, trovò molti seguaci, ma anche diversi oppositori, i quali lo considerarono come un eretico. Il giovane predicatore parlava in modo abbastanza singolare, in effetti:

Ho molto pensato alle religioni, per capirle,
e ho scoperto che sono i molti rami di un’unica Fonte.
Non pretendere dunque dall’uomo che ne professi una,
così s’allontanerebbe dalla Fonte sicura.
È invece la Fonte, eccelsa e pregna di significati,
che deve venire cercando, e l’uomo capirà.

(Al-Husayn Ibn Mansur Al-Hallaj, Il Cristo dell’Islam, Mondadori 2007, Milano, p.73)

La convinzione della fondamentale unità di tutte le religioni diventerà un tema ricorrente nel sufismo, si pensi a questi bellissimi versi di Ibn ‘Arabi:

Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma:
è un pascolo per le gazzelle, un convento pei monaci cristiani,
È un tempio per gl’idoli, è la Ka’ba del pellegrino,
è le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano
Io seguo la religione d’Amore, quale che sia mai la strada
che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede.

(Ibidem)

L'esecuzione di Al Hallaj in una miniatura. Alcune fonti riferiscono che fu crocifisso, altre che fu impiccato
L’esecuzione di Al Hallaj in una miniatura. Alcune fonti riferiscono che fu crocifisso, altre che fu impiccato

Ma Al-Hallaj fa un passo ulteriore: afferma che non si può seguire una sola religione, ma che la «religione d’Amore» di cui parlerà Ibn ‘Arabi è superiore ai precetti, agli insegnamenti, si erge al di sopra di tutte le religioni. E, soprattutto, è lei che viene a cercare l’uomo. Cercare Dio è inutile, è Lui che si avvicina a noi.

La predicazione di Al-Hallaj si basava sulle poesie, sui detti, ma anche sui disegni. Oggi è molto difficile ricostruirne le forme originali, sono state spesso modificate dai copisti. Quello che colpisce è il tentativo di andare oltre le parole, la consapevolezza che le parole non bastano a spiegare il disegno divino e che si debba non solo comunicarlo, bensì ricrearlo, dare ad esso una forma tramite il segno. Qui sono mostrate tre ba’ (la lettera b in arabo), che rappresentano il cammino dell’uomo verso la verità.

Al Hallaj scrive:

La b esterna rappresenta chi è pervenuto alla soglia della realtà, la seconda b simboleggia chi ha varcato quella soglia ma poi ha smarrito la strada, e la terza raffigura colui che vaga perduto nei deserti della realtà. Indietro! Chi potrebbe mai penetrare nel cerchio, se la porta è sbarrata e il postulante viene respinto? Il punto della b superiore rappresenta l’aspirazione di colui che cerca, quello della b inferiore il suo ritorno all’origine e infine quello della b intermedia la sua stupita incertezza.

Tutta la vita di Al Hallaj fu una continua peregrinazione di città in città; andò tre volte alla Mecca, si spostò in Iran e tornava periodicamente a Baghdad, fino a quando i suoi nemici non riuscirono a istruire un processo contro di lui, che si risolse, malgrado l’assoluzione dalle colpe più gravi, con una prigionia di nove anni. Alla fine, a sessantacinque anni, venne condannato a morte. Si narra che, nelle ultime ore di vita, fosse sempre allegro, e ridesse spesso. «È la civetteria della bellezza divina» rispondeva a chi ne chiedesse il motivo.

È così che, all’alba del 26 marzo 922, le truppe del prefetto lo prelevarono, gli tagliarono mani e piedi e lo issarono, pare, su una croce. Quando fu in punto di morte, un amico gli chiese: «Cos’è il sufismo?». Rispose: «Quello che vedi ora». Anche questo paradosso è uno dei tanti, insolubili del cardatore di segreti. Ma credo che, alla fine, il nocciolo di tutta la sua predicazione siano proprio le parole del mio giovane imam: «L’aria la sento, ma non la vedo; così è Dio, lo sento col cuore». E questo mostra che, forse, il suo insegnamento non è del tutto scomparso.

 


In copertina: Hafiz Osman, Il nome di Allah, 1600 ca.

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