Hieronymus Bosch

Diceria dell’untore: Bufalino e il dolore di sopravvivere

Mio zio è sempre stato un uomo attento alle proprie letture. Al punto che, da impiegato di banca, divenne uno storico innamorato della sua terra, la Sicilia, e di Sciacca, di cui racconta le vicende quattrocentesche. Non c’è da stupirsi se, quando gli feci leggere un mio primo racconto, chiosandone la lingua e lo stile, mi suggerì Gesualdo Bufalino: uno spirito acutamente poetico, cangiante e tragico come solo alcuni siciliani, a volte, possono essere.

Gesualdo Bufalino, classe 1920, traduttore, insegnante colto, davvero molto colto e timido, venne su a pane e poesia; in particolare poesia e cinema francese. In un’intervista rilasciata all’amico Leonardo Sciascia, tra le prime, ricorda: «Solo dopo la guerra entrai in una buccia più vera di una civiltà seducente: e furono allora Montaigne e Pascal, gli illuministi… Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato[1]».

Il francesista selvaggio e dimezzato, però, esordì tardi con un proprio romanzo. Anzi, quello di Diceria dell’untore fu un esordio accidentato e forzato: fu Elvira Sellerio ad insistere per la pubblicazione del libro, quando Bufalino ancora si ostinava a tenerlo nel cassetto da circa un decennio, perfezionandolo e meditandolo.

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che?  Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; […][2]

Gesualdo Bufalino diceria delluntore

In poche righe si schiude, davanti i nostri occhi avidi, lo spirito, l’idea di finzione, di barocco macabro, che trasuda da ogni singola pagina. Il racconto, ambientato nell’immediato dopoguerra, si svolge seguendo la consunzione dei suoi protagonisti, vere maschere tragiche intrappolate fuori dalla corrente della vita, reclusi in una metaforica isola. L’isola è un sanatorio, la Rocca, sito nella valle palermitana della Conca d’Oro, dove si cura la tubercolosi.

Diceria dell’untore è infatti la testimonianza di un viaggio nella malattia. Non una malattia qualunque, ma una malattia mortale, terrificante per l’epoca, in cui chi vi si ritrova soffre una doppia esclusione: l’esclusione dai sani e l’esclusione dagli altri malati. Il protagnista, di cui non sappiamo il nome, si dibatte nell’angoscia, nell’isolamento: ciò che prova è il dolore della sopravvivenza. Come un soldato disertore, come colui che manca all’appello, (quell’appello di morte verso cui tutti, rassegnati, scivolavano) vive il senso di colpa di sopravvivere ai compagni. Chi sopravvive, ne esce dimezzato, perché continua a vivere etenamente una dimensione di morte, anche quando il corpo riacquisisce vigore e forza. Anche quando si libera dalle catene:

M’aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell’individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccola saviezza d’alito e d’anni. Ma, allo stesso modo dell’istrione in ritiro che ripone nel guardaroba i corredi sanguinosi di un Riccardo o di un Cesare, io avrei serbato i miei coturni, e le tirate al proscenio dell’eroe che avevo presunto di essere, in un angolo della memoria[3].

Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo
Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo

Dunque, la liberazione, l’essere scagionato, si riduce per Bufalino ad essere la prosecuzione di una colpa, o meglio del ricordo di una colpa, da cui si può sfuggire solo con una grigia sequela di atti anonimi, e nemmeno l’amore per una donna, malata come lui, tra le calde e sterili mura della Rocca, può dargli conforto.

Il nostro autore, a differenza dell’amico Sciascia, così teso a raccontare e dipanare la corruzione e la politica siciliana del secolo scorso, si ritira in un tragico cantuccio, una dimensione intima, in cui le sensazioni attanagliano, in un reflusso continuo, la sua mente, giocando a nascondino tra le ombre. Una dimensione di appiattimento, quasi d’ingranaggio, che Bufalino riprende dalle sue letture[4], e che condensa in un hic et nunc drammatico ma compiaciuto, in un gioco che solo a tratti ricorda La montagna incantata di Thomas Mann, e che prende sottobraccio, anche se da lontano, la Recherche proustiana.

La sua arma è la lingua, una lingua fortemente letteraria e preziosa, una lingua poetica che si nutre di figure retoriche e spostamenti linguistici, di giochi ritmici spesso azzardati, fuggendo la chiarezza.

In tutto il romanzo, Bufalino rimane ambiguo, dirige la luce, come ogni bravo scrittore (o pittore) solo su ciò che gli interessa: infatti scrive una diceria, una chiacchiera di poco conto che non sarebbe dovuta pervenire negli annali della letteratura italiana eppure è lì e si rivela a noi «come la notizia di un naufragio, in una vecchia bottiglia, a un solitario guardiano di faro[5]», un frutto che si scioglie subito in bocca ma che ci strega con la sua ricchissima, amara, artificiosità, che si lascia ammirare come il trofeo su un piedistallo al centro di un palcoscenico rubato alle ombre.

 


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