Fanny Hensel: creatività incatenata

Fanny Hensel

Spesso quando si tratta di indagare l’operato di un’artista marginalizzata dalla storiografia tradizionale e accademica, la focale viene posta sulle sole informazioni biografiche, come se parlare delle loro opere fosse superfluo. L’infanzia, l’educazione, i rapporti familiari, le difficoltà professionali causate dalle problematiche di genere e le sue relazioni con uomini (padri, fratelli, mariti o figli): questi sono gli argomenti più trattati.

Probabilmente a causa di una mancanza di informazioni, e di una punta di pregiudizio che relega l’arte delle donne ad una dimensione privata e casalinga, le indagini stilistiche restano superficiali e la trattatistica limitata ad aneddoti e analisi strutturali, che confrontano i loro brani con quelli di altre autrici o con autori a cui erano legate.

Fra le conseguenze di questa disattenzione storiografica vi è l’abitudine dei musicisti di affrontare il repertorio delle autrici con carenza di approfondimento, generando interpretazioni neutre e prive di intenzione, ignorando l’esistenza di una prassi esecutiva e di una serie di idiosincrasie tipiche dell’artista con cui si stanno confrontando, finendo per confermare agli scettici che la musica delle donne è poco interessante.

È importante dunque capire che è possibile parlare di certi personaggi e delle loro opere con serietà, anche se tradizionalmente questa è riservata a coloro che già sono parte dell’immaginario storico collettivo, e per non togliere importanza alla complessità della loro esperienza, l’ideale sarebbe confrontare elementi tecnici e ragioni biografiche all’origine della composizione. Un personaggio oramai reintrodotto nella narrazione storica, ma ancora soggetto all’appena descritto fenomeno del biografismo, è Fanny Hensel, nella cui esperienza vita e opere si fondono in un elemento ben preciso: la collaborazione artistica col fratello, Felix Mendelssohn.

Il suo stile compositivo si costituisce come una delle possibili ramificazioni del Romanticismo tedesco: lontano dal virtuosismo brillante e standardizzato dell’estetica Biedermeier, nasce come conseguenza di uno studio approfondito di forme classiche e tecniche di contrappunto, arricchito dall’esecuzione costante delle opere tarde di Beethoven.

Questi elementi poi si uniscono ad un personalissimo tipo di espressività, andando a creare un’estetica fatta di sentimento, profondità, ma anche di intelletto e finezza: un humus adatto, infatti, alla sperimentazione. Buona parte delle sue opere nacque infatti a fini esplorativi e sperimentali, ma tutte presentano un’evidente consapevolezza strumentale, esecutiva e di ricezione.

Come accaduto ad altre autrici che rimasero escluse dai circuiti più influenti del mercato musicale, Hensel ebbe modo di esprimere le proprie peculiarità estetiche liberamente: senza la pressione dei canoni estetici a cui erano sottoposti molti dei compositori più apprezzati, subì poche influenze esterne e poté dar vita ad uno stile davvero personale e riconoscibile. Questo tuttavia significò un’esclusione dai circuiti – che nel suo caso si configurò anche come anche un’autoesclusione – ed alla maggior libertà stilistica corrispose una brutale limitazione professionale, poiché in quest’epoca agire al di fuori dei canoni significa subire isolamento e delegittimazione.

I rapporti familiari furono per Hensel di grande imntralcio: se da un lato l’ambiente culturale in cui era cresciuta le aveva permesso una formazione completa e una pratica musicale di qualità altissima[1], la posizione sociale che aveva la sua famiglia e la ristrettezza che questo comportava le furono di forte impedimento ad avviare una carriera, con tanto di dichiarati sabotaggi.

Il divieto ad applicarsi all’arte come unica attività le arrivò principalmente dal padre ma fu, con dinamiche umanamente molto complesse, rafforzato dal fratello Felix: fu lui ad incoraggiarla a comporre, ma allo stesso tempo a impedirle di pubblicare.

Può sembrare un controsenso, ma spesso le inviava le proprie composizioni per ricevere opinioni e correzioni, che teneva sempre in grande considerazione, affidandole non di rado anche la cura e direzione nelle prime rappresentazioni delle sue opere corali e sinfoniche – a dimostrazione del fatto che il loro, questo è il caso di dirlo, fu un rapporto complicato e di grandissimo impatto per la carriera dell’autrice.

Se da un lato le permetteva di esibirsi e cimentarsi in attività musicali di grande valore e qualità, dipendere dall’approvazione fraterna la rendeva prigioniera della di lui volontà: la sua attività si limitò infatti per molto tempo alla direzione di esecuzioni musicali semi-private delle opere del fratello o della cerchia ristretta di conoscenze musicali dei due, con sporadiche pubblicazioni di piccoli brani, inseriti però in raccolte a nome del fratello (come le Romanze senza Parole) e ad alcuni concerti in forma semi-privata.

Senza entusiasmo da parte dei familiari, che tentarono di dissuaderla, ad un’età inusuale per l’epoca sposò Wilhelm Hensel, che per primo le fu di vero appoggio professionale – e col quale collaborò a progetti sinergici e sperimentali: solo dopo il matrimonio l’autrice poté finalmente pubblicare le proprie opere, alcune delle quali composte in gioventù, avvalendosi della casa editrice Breitkopf & Härtel.

Purtroppo solo una manciata di queste videro le stampe, a causa della sua morte improvvisa, lasciando ai posteri un numero notevole di manoscritti: ufficialmente infatti il suo catalogo arriva al numero d’opera 11, col Trio in re minore, ma in realtà vi sono un totale di oltre 450 composizioni accertate, di piccola e grande forma e per quasi ogni tipo di organico, ancora in fase di pubblicazione[2].

Il perché delle remore di Felix nell’immaginare la sorella professare l’arte, risiede in una problematica culturale dell’epoca piuttosto complessa le cui conseguenze però si riverberano fino ai giorni nostri, nella sostanziale assenza delle compositrici dai libri di storia e dai programmi di concerti e concorsi: in passato si era genuinamente convinti che le donne non avessero le capacità mentali per gestire la composizione di musica in forme e tecniche complesse. La causa era originata nella mitologia biblica, dove si parla della creatività artistica e biologica come di capacità distinte, assegnate all’uomo e alla donna, in rapporto compensativo[3]. Questo concetto, oggi perso anche a livello dottrinale, pare che fosse invece piuttosto importante nell’educazione religiosa e culturale dell’Europa post-napoleonica.

Nei primi dell’Ottocento, con il ripristino di una certa austerità religiosa e sociale infatti, i proto-musicologi si impegnarono molto per diffondere una visione della musica in quanto appannaggio maschile, patologizzando la femminilità in tutte le sue interpretazioni e rappresentazioni e incorporando questa mentalità nei primi manuali di quella neonata disciplina che era la storiografia musicale.

La diffusione delle opere di Hensel in Italia oggi si trova in accelerazione, ma è dovuta ancora purtroppo all’impegno di singoli musicisti e musicologi: mentre all’estero, soprattutto in area tedesca, il suo contributo storico e artistico è ormai universalmente appurato e riconosciuto, nel nostro Paese il suo catalogo resta relegato a occasioni speciali, monografie e in generale escluso dai circuiti di maggior influenza.

In parte questo è dovuto al fatto che in Italia il repertorio musicale è fortemente standardizzato, con parametri di selezione improntati su logiche antiquate che esaltano il genio e riconoscono validità storica solo a coloro che si ritiene abbiano fatto qualcosa per primi – ignorando sostanzialmente tutta quella fetta di produzione musicale che non si ritiene abbia portato ad una svolta nei canoni musicali occidentali.

Durante l’estate del 1829, poco tempo prima del matrimonio con Wilhelm, l’autrice si cimentò nella composizione di una Sonata per pianoforte in Mi bemolle maggiore, scrivendo due movimenti e accennandone un terzo. L’opera, per qualche motivo rimasta incompiuta, venne recuperata cinque anni dopo e riarrangiata per due violini, viola e violoncello, trasformandosi con l’aggiunta di due nuovi movimenti in un quartetto d’archi, diventando così quella che ad oggi è fra le sue opere cameristiche più eseguite e conosciute – anche se pubblicata solo in tempi recentissimi.

Lo studio e la frequente esecuzione di opere di Beethoven e del fratello Felix hanno sicuramente influenzato la composizione del brano, il quale tuttavia presenta degli elementi stilistici personali e di carattere abbastanza sperimentale, che la allontanano dal contesto in cui si era formata e che furono causa di frizione fra i due fratelli, nel contesto dei loro abituali scambi di manoscritti.

Gli elementi innovativi furono infatti oggetto di un giudizio negativo da parte del fratello, che li interpretò come segni di immaturità artistica e di una sua generale mancanza di propensione alla composizione di brani complessi di ampio respiro – giudizio molto diffuso sulla musica delle donne all’epoca. Il brano venne interpretato come “sbagliato” perché nella mente del fratello la possibilità che vi fosse della ricerca o un intento sperimentale semplicemente non sussisteva.

Nella lettera in cui le muoveva le critiche tecniche, incluse il suggerimento di abbandonare la composizione di opere di ampio respiro, ritenendo che quel che riteneva errori fossero da imputare ad una sua incapacità di riportarvisi e concentrarsi su miniature e liederistica. Purtroppo lei gli diede ragione, come appare dalla lettera in cui l’autrice rispose:

Non è tanto un certo modo di comporre ad essere carente quanto lo è un certo approccio alla vita, e come risultato di questa discordanza, le mie cose lunghe muoiono nella loro giovane decrepitezza. Manco delle abilità per sostenere propriamente delle idee e dar loro la dovuta consistenza. Perciò i Lieder mi si addicono di più, nei quali, se necessario, semplicemente un’idea graziosa senza troppo potenziale di sviluppo può bastare.

Questo episodio la segnò a tal punto che la sua seconda grande composizione cameristica, il Trio op.11, non arriverà che 13 anni più tardi, dato peraltro alle stampe postumo per mano di Felix in seguito alla morte prematura della sorella – avvenuta pochissimo dopo aver deciso di pubblicare tutte le proprie opere senza più chiedergli il permesso.

A disturbare il compositore era stato l’approccio alla forma che, oltre ad allontanarsi dagli stilemi classici dal punto di vista strutturale, conduce al contempo ad un uso alternativo e ambiguo dell’armonia tonale, che trasporta gli ascoltatori in un continuo vorticare di atmosfere differenti. L’approccio intellettuale che Fanny Hensel[4] aveva nella composizione delle sue opere, lontana com’era dai circoli mondani di cui faceva parte il fratello, emerge anche dall’uso della polifonia, presente già nel primo movimento, Adagio ma non troppo, e si pone come principale elemento di distinzione stilistica e interpretativa fra i due fratelli nella totalità dei loro cataloghi.

 


Se vuoi approfondire perché l’autrice chiama Fanny Hensel con il nome da sposata, leggi anche questo articolo: Vademecum per cognomi d’artiste.

Margherita Casamonti
Margherita Casamonti

Sono una pianista di musica classica di Firenze, appassionata di questioni di genere, ricerca musicologica relativa alle minoranze sociali ed ampliamento del repertorio strumentale. Ho fatto della volontà di ampliare le conoscenze dei musicisti e del pubblico la mia missione, nella speranza che, cambiando marcia, la musica classica sopravviva al declino culturale di questa porzione di secolo.