Nel 19 a.C. sulle coste italiche, lungo la via che porta a Napoli, è sepolto l’autore latino forse più conosciuto al mondo: Virgilio[2].
Voluto da Augusto a celebrazione del suo operato e della sua gens, massima opera propagandistica di tutti i tempi, ha così influito sul nostro sostrato culturale da ritrovarsi ancora oggi nelle opere letterarie contemporanee e nei film epici che vediamo al cinema. Indubbiamente non è il poema più antico (oltre ai poemi Omerici vorrei ricordare il Gilgamesh) ma è una delle opere che ha influito di più sull’uomo e sulla sua storia poetica: la continua fortuna nel corso dei secoli medievali testimoniata dalle moltissime vulgate ne costituisce un solido esempio.
Virgilio compose il poema su Enea, tra il 29 e il 19 a.C. Non lavorò in maniera sistematica, ma compose di volta in volta i brani poetici seguendo la propria Musa ispiratrice. Il risultato è un testo incompiuto: il terzo libro come il quinto presentano evidenti lacune e discrasie con altri pezzi dell’opera, alcuni personaggi scompaiono per poi riapparire in un’altra scena e di nuovo morire: tale fenomeno è particolarmente evidente nelle descrizioni di battaglie che costellano la seconda parte del poema (libri VII-XII)[3].
Poema di fondazione, frutto di un intenso lavoro da parte del nostro autore nel ridare nuova linfa e nuova luce a un personaggio secondario del mito troiano, fu accolto con grande entusiasmo dall’Imperatore, sostituì gli Annales di Ennio nelle scuole, divenne il testo di un popolo.
Popolo che si riconosce nei valori del protagonista, il Pio Enea, giusto padre di Ascanio, solido guerriero e comandante di esperte legioni di combattenti. Un eroe saturo di virtù positive che regala in alcuni passaggi un po’ di amarezza (l’episodio dell’abbandono di Didone, libro IV) nonché ambiguità e sospetto riguardo la sua bontà (l’uccisione di Turno a fine poema).
Sottomesso al Fato[4] che lo vuole fondatore della Gens Iulia e per estensione di Roma si scontra con alcuni personaggi (a mio avviso) più grandi di lui: i su citati Didone e Turno.
L’episodio della regina cartaginese è famosissimo, il suo amore impossibile lo riviviamo ancora oggi in moltissime opere con accenti e sfumature quasi sempre diversi. Turno invece è sempre rimasto nell’ombra (dove tra l’altro finisce nell’ultimo esametro del poema), eroe anche lui, condottiero di un popolo (i Rutuli) e sposo derubato della principessa italica destinata a riscaldare il suo letto: Lavinia. Delle molte scene che lo pongono protagonista in duello (l’ultimo e il più atteso con il Pio Enea, libro XII) quella che mi ha sempre entusiasmato di più, per composizione e gusto plastico dell’esecuzione (sintattica e linguistica) è quella che chiude il IX libro.
E il giovane non riesce a far fronte né con lo scudo,
né con la destra, tanto è travolto dai dardi scagliati
da ogni parte. L’elmo con un costante tinnire risuona
sulle tempie incavate, la salda corazza sotto le pietre
si sgretola, il pennacchio è sbalzato dal capo; ai colpi
non regge lo scudo: con le lance i troiani, e lo stesso
Mnesteo fulmineo, paiono moltiplicarsi; su tutto il corpo
gli gronda il sudore (gli manca il respiro) e scorre in un rivo
denso di pece. L’affanno gli scuote le membra spossate.
Allora, balzando a capofitto, si gettò armato nel fiume
che l’accolse nella sua bionda corrente, lo librò con dolci onde,
e lieto lo restituì ai compagni, purificato dalla strage[5]
Dopo aver subito un assalto notturno da parte degli inseparabili amici Eurialo e Niso, Turno, profittando dell’assenza di Enea al campo dei Teucri[6], compie una strage al suo interno, aiutato da Giunone, moglie di Giove, mortale nemica del nostro eroe. Il ritmo della scena è serrato come l’originalità (molto cruenta) delle morti dei vari personaggi (un gusto dell’orrido che sfocerà nel posteriore poema di Lucano, Pharsalia[7]). Accerchiato dai nemici, non ancora pronto alla dipartita e aiutato dalla sua dea protettrice, Turno si getta nel fiume romano.
Misura e armonia sono gli elementi cardine del poetare virgiliano, l’icastico tuffo di Turno nel biondo Tevere diviene simbolo di quest’arte: lavoro di lima e certosina attenzione ad ogni dettaglio (dei riti, degli eventi e dei paesaggi) per quanto non conclusi divengono esempio di classicità.
L’ombra di Virgilio si staglia così sui secoli medievali, godendo di un’ininterrotta lettura all’interno delle classi agiate, ritornando opera di massa nel medioevo con le su citate Vulgate.
Ritenuto cristiano, profeta nella IV egloga delle Bucoliche dell’avvento del Messia[8], è guida di Dante all’interno del regno infernale e poi nella scalata al Sacro Monte, lodato già nel primo canto della Commedia (vv. 79-87). Come quest’ultima, anche l’Eneide fu un testo immancabilmente presente nelle migliori biblioteche dei vari Regni e Stati che si sono succeduti nei secoli.
Cosa ci intrappola nelle maglie di questo poema vecchio di duemila anni? Perché è ancora studiato, apprezzato da milioni di lettori? Cosa ci fa sussultare, tremare il cuore in petto? Cosa lo rende così sublime ai nostri occhi?
Forse la lingua, la poesia intrinseca nelle parole virgiliane, l’animo sensibile del suo autore che traspare dai gesti dei suoi personaggi; l’assoluto che anima la storia e che è lì presente, come l’uomo e il suo destino di grandezza (o di miseria) che lo attende, un caleidoscopio di figure e sensazioni mai banali, sempre ricche di pietas e umanitas.
Eppure il genere epico, come del resto tutti gli altri generi letterari, muta e si trasforma, mai uguale a se stesso, diverso in ogni autore, nuovo in ogni epoca.
In copertina: Federico Barocci, Enea fugge da Troia.
Nota: La traduzione si discosta leggermente dall’originale in alcuni punti. Riportiamo qui una traduzione letterale delle parti rielaborate. v.812: «Per tutto il corpo»; v. 813 «né la possibilità di respiro»; v.814: «un mesto affanno»; v.815: «con un salto a capofitto, con tutte le armi»; vv.816-17 «quello, accolse lui /che gli veniva incontro».