Negli anni Settanta del Novecento la figura di Artemisia Gentileschi venne scelta dal movimento femminista internazionale come simbolo di emancipazione: se da un lato ciò ha portato ad una maggiore considerazione della sua figura, al tempo stesso ha messo in luce più la sua vicenda biografica, alquanto rocambolesca, che i suoi meriti artistici, al punto che diversi storici dell’arte del secondo Novecento, tra cui Federico Almansi, hanno addirittura parlato di strumentalizzazione ideologica.
L’opera della pittrice romana, in realtà, era già stata ignorata da diversi biografi e storici dell’arte che avevano scritto di arte italiana nei secoli precedenti; a volte ne facevano cenno, citavano alcuni aneddoti più o meno gustosi, nulla di più, confondendo spesso le opere di Artemisia con quelle del padre.
Il merito di una rivalutazione della pittrice è da legare all’attività di Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte del secolo scorso, che in un suo articolo del 1916 comincia a distinguere le opere di Artemisia da quelle del padre, Orazio, inserendole nel contesto degli anni in cui la pittrice effettivamente vive e dipinge.
Cresciuta in un contesto connotato in senso artistico dalla presenza di diversi pittori che frequentavano la casa paterna, quali il manierista Giuseppe Cesari d’Arpino o il fiammingo Wenzel Coebergher, la giovane artista è, sin da subito, fortemente suggestionata dall’opera di Caravaggio, che probabilmente conosce di persona, e dal suo crudo realismo. A questa si aggiunge l’influenza del padre, artista più vicino alla pittura di maniera tipicamente romana di fine secolo e al delicato lirismo di matrice toscana.
La prima opera a lei attribuita, Susanna e i vecchioni (1610), non mostra però un forte legame con il caravaggismo: la figura di Susanna, infatti, manifesta piuttosto il dettato del più maturo stile paterno da cui derivano il controllo disciplinato del disegno anatomico o il trattamento soffice e soffuso della luce (non ancora violentemente direzionato come quello delle opere del Caravaggio a lei contemporanee) e, in particolar modo, il dolce schema coloristico, dai toni caldi e lucenti. A dire il vero, nel disegno della mano del vecchione che si allunga verso la giovane donna e nella complicità delle due figure maschili, è possibile osservare, se non riconoscere, la citazione di una tela del Caravaggio: Giuditta che decapita Oloferne (1598-1599).
Un’opera recentemente attribuita all’artista romana è La suonatrice di Liuto (1610-1612) in cui alcuni tratti della figura di Susanna – quali le labbra carnose o il disegno dei capelli – sembrano richiamati. Il drappeggio delle vesti, vesti pesanti, risulta quasi leggero, dinamico. Questa opera, rispetto alla precedente, muove in una nuova direzione sia nel soggetto (probabilmente derivato da alcuni studi paterni sulla figura femminile) che nei colori, più corposi e accesi rispetto alle tinte delicate del primo dipinto.
La fase di transizione, sottolineata dagli eventi del processo del 1612 in cui padre e figlia accusarono un amico del padre, Agostino Tassi, di aver usato violenza contro la giovane Artemisia, è segnata da un distacco (fisico ancor prima che artistico) di padre e figlia. Nella Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613), ora a Napoli, il disegno dei soggetti ricorda diversi quadri del padre mentre l’ambientazione declina verso atmosfere più grottesche, dall’impianto teatrale di matrice caravaggesca. La tela è la prima dove la Gentileschi decide di affrontare questo soggetto e, inoltre, è il primo dove si evidenzia quella complicità fra donne che segnerà, d’ora in avanti, parte della produzione della pittrice romana.
L’attenzione a questo tema, quello della complicità femminile, deriva probabilmente dal trauma dello stupro subìto dall’artista qualche anno prima: secondo le carte del processo, di fatti, Tuzia, vicina e amica d’infanzia di Artemisia, fu complice di Agostino. Amaramente delusa, tradita, l’artista decise di raffigurare le eroine dei suoi quadri accentuandone il sentimento di complicità e di solidarietà.
Ritornando alla tela, la fonte specifica di Artemisia, in questo come anche in altri casi, fu proprio la Giuditta di Caravaggio già citata in Susanna e i vecchioni. La pittrice, nella sua Giuditta, accentuò il realismo caravaggesco sino a pervenire, nell’esplosione della violenza del gesto, ad esiti orrorifici successivamente mai più raggiunti.
Dopo gli eventi del processo Artemisia partì alla volta di Firenze dove rimase ospite, cortigiana, di Cosimo II de’ Medici. Questo soggiorno, prolungato per alcuni anni, infonderà nell’opera dell’artista nuove fugaci influenze – legate alla visione delle tele del Bronzino o ancora di altri pittori di maniera – che si innestano su un caravaggismo di fondo che rimane verace seppure un po’ mitigato dal colorismo fiorentino e dall’attenzione al disegno propria degli ambienti artistici fiorentini dei primi decenni del Seicento.
La prima commissione fiorentina di cui si ha notizia è l’Allegoria dell’Inclinazione, opera che risale al 1615 in cui il nudo femminile è realizzato in maniera incredibilmente realistica, tanto da essere giudicato troppo carnale qualche anno dopo e quindi coperto da dei panni per volere del committente, il bisnipote di Michelangelo Buonarroti. Il volto, che sembra rapito da una meditazione estatica, è sottolineato nelle membra e nel volto da una luce diffusa, brillante. La Giuditta (1620), ora agli Uffizi, sembra, dalle fonti, da considerarsi l’ultimo lavoro realizzato nella capitale toscana: rispetto alla trattazione precedente si nota l’uso di una tavolozza più complessa e un gusto che ritorna a compiacersi di toni più drammatici, di nuovo più caravaggeschi.
Si trasferisce a Genova per un breve periodo. La città cosmopolita le dà occasione di trarre nuovi spunti per i suoi quadri che ritornano, però, ad una più marcata influenza paterna. Nel ’22 è di nuovo a Roma dove si fermerà sino al 1630. A riprova del tema della solidarietà femminile nel ’25 Artemisia esegue il dipinto di Giuditta e la fantesca, riconosciuto dalla critica come uno dei capolavori del barocco caravaggesco. Nel quadro l’artista sottolinea la drammaticità dell’azione grazie ad un uso sapientissimo del chiaroscuro e nella scelta di rendere Giuditta come una figura vigorosa, imponente, affiancata dalla serva. Giuditta risulta in questo caso determinata, forte nel gesto che la vede protagonista.
Le alterne vicende di Artemisia, negli anni successivi, la condurranno, tra le altre mete, anche in Inghilterra alla corte di Carlo I. La sua produzione sarà sempre dominata dal fantasma di Carvaggio mentre accoglierà di volta in volta nuovi spunti, tratti dalle esperienze contingenti. La sua creatività arderà ancora per alcuni anni sino a spegnersi negli ultimi anni di vita quando, povera, morirà a Napoli poco dopo lo svoltare del secolo.
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In copertina: Artemisia Gentileschi, Giuditta e la fantesca, 1625
Per approfondire:
Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, “Art Dossier”, Giunti Firenze, 2001.
Carlo Bettalli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia dell’arte italiana, Bruno Mondadori Milano, 2009 (1990)