Detroit

Detroit, una guerra nella culla dell’Occidente

Nell’immaginario americano Detroit occupa un posto speciale e alquanto singolare.

Sicuramente meno narrata sullo schermo ma di grande importanza, se vogliamo comprendere un po’ meglio il sistema americano e le sue incredibili contraddizioni. Economicamente non meno importante di New York, Chicago, Los Angeles o San Francisco. Denominata “la Parigi del West” per la sua architettura, Detroit è collocata in un punto strategico tra i grandi laghi, il Wisconsin, il Michigan e il Canada. Dalla fine della guerra civile ebbe un grandissimo sviluppo industriale tanto da diventare la capitale dell’industria automobilistica americana dopo che Ford, nel 1896, vi insediò la prima sede della Ford Motor Company. Detroit, pertanto, sin dalla fine dell’Ottocento diventò una grande meta d’immigrazione per i neri che scappavano da un sud d’odio e di violenti linciaggi.

Alla fine dell’Ottocento oltre agli afroamericani arrivarono a Detroit anche nuovi immigrati bianchi dall’Europa come polacchi, italiani e irlandesi. In questo complesso calderone sociale Detroit crebbe sempre di più, la popolazione aumentò e la competizione inizialmente solo lavorativa si trasformò in un vero e proprio scontro razziale. Non solo una guerra tra bianchi ricchi e neri poveri, ma una guerra tra bianchi poveri e neri poveri. In questo contesto sociale decisamente teso il 23 luglio del 1967 scoppiò una delle rivolte più violente della storia americana.

Alle 4 di notte del 23 luglio la polizia di Detroit fece irruzione in un club illegale nel quale stava avvenendo una festa di afroamericani che stavano celebrando il ritorno di due ragazzi dal Vietnam. Con la scusa di vendita illegale di alcolici la polizia arrestò tutti i presenti. Gli afroamericani del quartiere della 12esima strada cominciarono a lanciare pietre e molotov contro le macchine della polizia.

Detroit Bigelow

Alcuni manifestanti arrabbiati e frustrati dalle loro misere condizioni di cominciarono a saccheggiare negozi e bruciare interi quartieri. In quei giorni la violenza nelle strade era davvero insostenibile. «il nostro problema è che non siamo mai stati violenti» urlano i manifestanti prima di incendiare negozi, attività, case. I militari invadono la città con carri armati e sparano persino sui bambini che sbirciano incuriositi dalla finestra. «Sembra il cazzo di Vietnam» afferma Klauss, il poliziotto razzista tra i protagonisti della pellicola di cui ci accingiamo a parlare.

È in questo contesto di guerriglia urbana e razziale, che si sviluppa Detroit, il nuovo film di Kathryn Bigelow, prima donna ad avere vinto un oscar alla regia con The Hurt Locker, nel 2010, opera ambientata tra gli artificieri nella guerra in Iraq. La Bigelow ha continuato nel 2013 con Zero Dark Third, storia dell’uccisione di Osama Bin Laden. La regista, in questo suo interessante percorso cinematografico, porta avanti la sua personale idea che il concetto di guerra americano non si sviluppi solo in lontani campi di battaglia, dal Vietnam all’Iraq, ma anche nelle strade americane, nella cultura e nella testa degli americani.

La guerra urbana tra afroamericani ghettizzati e poliziotti che insanguina le strade di Detroit fa da sfondo all’avvenimento centrale del film, un fatto di cronaca abbastanza sconosciuto al di fuori degli Stati Uniti: l’incidente dell’Algiers Motel. La sera del 25 luglio la polizia sente alcuni spari provenienti da un tranquillo motel vicino al Virginia Park. La paura della presenza di un cecchino sui tetti del motel fa sì che la polizia e i militari si organizzino per accerchiare l’edificio e interrogare tutti i presenti.

La storia corale si focalizza sui vari personaggi: il poliziotto Philippe Krauss, che, determinato a tutti i costi a trovare il cecchino, decide di usare ogni mezzo possibile per arrivare al suo obiettivo; Larry, cantante del gruppo soul “the Dramatics” e Audrey, giovanissimo amico di Larry; Julie e Karen due amiche bianche in cerca di svago e divertimento e Robert reduce dal Vietnam. Infine, la giovane guardia afroamericana Dismukes, che sarà testimone della tragica vicenda.

Detroit film bigelow

Detroit è un film sensoriale, viscerale, teso e muscolare. Lo stile della regista è fortemente incentrato sul farci entrare completamente nel contesto delirante e folle di una guerra. Una guerra non contro Vietcong o terroristi islamici ma tra americani contro americani. Neri ghettizzati contro poliziotti bianchi incazzati.

La ricostruzione perfetta dell’ambientazione, dei luoghi, dei volti e delle vicende storiche circondano lo spettatore a 360 gradi. Ci si sente come se vivessimo in prima persona questa guerra civile. La composizione delle immagini da pochissima profondità e respiro, schiacciandoci sempre come se fossimo contro un muro e perquisiti. La camera a mano, come se fosse un reportage dell’epoca, utilizza relativamente grandangolo e ottiche molto larghe. Infine il montaggio nervoso, super frenetico non lascia mai una possibilità di distensione. Il suono ha un’importanza cruciale, al pari delle immagini.

Spesso i suoni sono troppo alti e fuori campo. Spari, roghi, proteste, sassi, vetrine infrante, bottiglie scagliate furiosamente contro macchine della polizia ci fanno sentire completamente dentro al film, come se fossimo dei testimoni di una illogica follia. In tutto questo contesto noi spettatori rimaniamo storditi e confusi poiché il confine morale, la giustizia e la catarsi spariscono completamente nella guerra. Quando usciamo finalmente dalla sala l’unica domanda a cui riusciamo a pensare è: ma è cambiato qualcosa da quella afosa estate del 1967?

Nella guerra si ammazzano soldati e innocenti. Il campo minato non è solo in Iraq ma anche a casa nostra, nei nostri bei sobborghi e nelle nostre paure nel vedere le contraddizioni. Questo clima di tensione non è sparito, ha solo cambiato vestito.

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