Ma perché, qualcuno dirà, la Luna? Perché preferire questo come nostro obiettivo? […] Noi scegliamo di andare sulla Luna entro questo decennio, e poi altre cose, non perché siano facili ma perché sono difficili, perché quell’obiettivo ci servirà come organizzazione e misura delle nostre migliori energie e capacità, poiché quella è una sfida che siamo disposti ad accettare, non siamo disposti a rimandare, intendiamo vincere.
(traduzione a cura di PianetaX)
Questo discorso sul National Space Effort, declamato dal presidente John F. Kennedy nel campus dell’Università Rice a Houston (Texas) il 12 settembre 1962, era l’esternazione della decisione più importante della permanenza in carica del presidente, la stessa che egli rese prioritaria nel corso dell’anno: “la conquista dello spazio”, lo sbarco sulla luna.
A citare il discorso è Damien Chazelle nel film che ha concorso al Festival di Venezia del 2018, ossia First man – il primo uomo. Il lungometraggio statunitense (141 minuti) prende spunto dal libro di James R. Hansen e presenta un cast magistrale: Ryan Gosling, Claire Foy, Jon Bernthal, Pablo Schreiber, Kyle Chandler, Jason Clarke, Corey Stoll, Patrick Fugit, Lukas Haas. È proprio Ryan Gosling ad interpretare Neil Armstrong, protagonista di cui viene sviscerata sia la vita privata sia la vita pubblica, le quali confluiscono nel tema principale: lo sbarco sulla Luna.
Tuttavia lo scopo della pellicola non tende all’epico, allo storico o al celebrativo, bensì converge nel concetto dello straniamento, sottolineando gli squilibri percettivi e sensoriali («Volevo sottolineare quanto fosse pericoloso andare nello spazio, con questi uomini che stavano – letteralmente – dentro una specie di barattolo di latta, o una bara», sottolinea Chazelle); tale disorientamento era conseguenza di problematiche relative alle condizioni e alle esercitazioni degli astronauti, ai pericoli che correvano, ai radicali cambiamenti di spazio e compagnia che subivano e alle svariate morti alle quali dovevano assistere.
Dunque, a questo fine, la rappresentazione viene curata nei minimi dettagli, dando degli spaccati lavorativi e famigliari, interni ed esterni, in constante paragone affinché si amplifichi la sensazione di vortice emotivo, ma comunque basati su una realtà perfettamente ricreata. Maniacale è la ricostruzione tecnologica, tra cui apparecchi come l’X15 e l’Apollo11, aerei e razzi vettore, la ricostruzione ambientale e la rivelazione di errori, incidenti o voli di prova; un altro particolare riguarda la pronuncia di Claire Foy, nei panni della moglie di Neil Armstrong: l’attrice trasforma il suo inglese reale in un carico accento del Midwest.
Inoltre sussiste un’analisi in voga tra gli appassionati di orologi per quanto riguarda i modelli utilizzati dagli astronauti; anche questo dettaglio viene minuziosamente curato, in quanto, all’epoca, ancora non si diffondevano computer di bordo sofisticati e dunque il cronografo di precisione al polso, che permetteva di calcolare i secondi di spinta, di virata, di salita e di cabrata, era lo strumento più efficace… ma la ricostruzione storica non termina qui e si avvia la speculazione: ogni modello degli orologi Omega veniva utilizzato per una funzione differente.
Gli esemplari riprodotti sono un Omega Speedmaster ST 105.003, il cronografo che la Nasa aveva qualificato per il volo spaziale, un Omega Speedmaster Stopwatch, il cronometro qualificato dalla Nasa per le simulazioni a terra e un Omega CK 2605, orologio da uomo indossato da Armstrong dagli anni Cinquanta come strumento di precisione per attività di vario genere (Armstrong/Gosling lo utilizza quando non lavorava ancora per la Nasa o quando non era impegnato in missione).
Per quanto riguarda la scelta registica, invece, il film viene girato con un carnet di tecnologie differenti al fine di sporcare l’immagine e rendere il tutto più inerente all’epoca storica; la regia è convulsa e, in un primo momento, la telecamera indugia pressantemente sul protagonista, mentre successivamente staziona sugli sguardi per poi vorticare con frenesia (per trasmettere un senso di confusione, nausea e estraniamento); inoltre, quando Armstrong sbarca sulla luna, viene utilizzato l’Imax per godere di una panoramica a 270 gradi. Nelle scelte registiche è inclusa la selezione dei suoni, che in questo caso si priva di una componente musicale importante per sottolineare il suono ambientale, il rombo dei motori e i rumori dei problemi tecnici.
Precisamente questi rumori, insieme agli spazi e alla fisica newtoniana, compongono la sostanza fantascientifica del lungometraggio, la quale si fonde al melodramma. Un melodramma che ha a che fare con la morte e con le motivazioni che spingono gli uomini a navigare in mari sconosciuti. Metafora, quella del mare, utilizzata dallo stesso regista: Armstrong e i suoi colleghi vengono definiti «marinai del cielo». E come tutti i marinai c’è chi fa ritorno e chi no, infatti la costellazione di morti è talmente vasta da far dichiarare «Ci siamo abituati ai funerali». Dunque la domanda si formula autonomamente: ne vale la pena? Quante altre vite e quanto altro denaro si deve spendere per una missione dall’esito incerto? Proprio nella risposta sta la bellezza del film!
L’opinione pubblica del tempo si frammentò tra chi manifestava intolleranza e sfiducia in una missione che si portava dietro vite e soldi che secondo molti sarebbe stato meglio utilizzare per questioni terrene, problematiche concrete che turbavano il sociale e tra chi opponeva con resistenza il proprio ideale, dichiarato con ardore da Kennedy e mantenuto delicatamente da Armstrong, il quale asserì: «L’esplorazione dello spazio ci permetterà di vedere cose che non abbiamo visto prima e che forse avremmo dovuto». Nella sovreccitata affermazione si racchiudono motivazioni nascoste che spingono Neil sulla Luna: prima fra tutte la morte prematura della figlia, bambina uccisa dal tumore. Un trauma psicologico che avrà conseguenze nelle interazioni con gli altri, nella comunicazione con la propria famiglia e nel rapporto con la morte stessa.
Dunque l’esperienza alla Nasa divenne la spinta per un nuovo inizio, come il risultato positivo dello sbarco sulla Luna non significò, per lui, solamente vincere la sfida, penetrare lo spazio vuoto e conoscere l’ignoto, bensì significò volare nel nero impenetrabile che ingoia le persone amate, i sogni, le immagini e le esperienze e mantenere il controllo, trovare un nuovo luogo stabile e da lì vedere il proprio mondo in un modo diverso per ricostruirlo. Lo scopo non era diventare celebre ma trovare un senso; per trovarlo Armstrong dovette chiudere il dolore in un cerchio, quello ideologico che lo porterà alla simbolica scena finale e quello concreto della Luna. Una Luna analoga alle simbologie di Federico García Lorca, che diviene allegoria di morte e di madre e che preannuncia il destino della bimba e del padre, facendosi protagonista di una ninnananna.
Vi consiglio di “fare un piccolo passo per l’uomo” e scoprire se questo film può piacervi!