Capita spesso di fare affermazioni che potevano inizialmente essere plausibili, salvo poi vederle clamorosamente smentite dall’evoluzione degli eventi. Alle volte, il quadro iniziale non consentiva di prevedere un andamento mutevole, e non tutti i particolari della situazione erano noti fin da subito. Lo iato conseguente tra le predizioni dimostratesi infondate e i fatti divergenti che le hanno seguite provoca uno scarto straniante, e sovente condanna l’incauto autore ad un ludibrio non sempre meritato. Di esempi più o meno celebri e più o meno tragici abbondano le cronache: dal radicato convincimento che la guerra si sarebbe conclusa ben prima del Natale del 1914, all’idea che un topo disegnato su uno schermo avrebbe spaventato gli spettatori, sono molteplici le occasioni in cui il senno di poi schernisce senza pietà le previsioni passate.
Tra le affermazioni più controverse e rivelatesi azzardate, detiene un posto d’onore la teoria della fine della Storia, elaborata nel 1992 dal politologo americano Francis Fukuyama. Per ragioni personali, e del tutto asimmetricamente, considero Fukuyama la mia nemesi intellettuale: il fatto di aver dedicato i miei studi alla Storia e di essere nato due anni dopo la sua supposta fine mi hanno lasciato alquanto scettico riguardo al suo proclama. Peraltro, lo stesso Fukuyama ha ritenuto opportuno rielaborare la sua teoria e ridurre il carattere universale che gli aveva attribuito; del resto, come premesso, al momento della sua formulazione le circostanze lasciavano campo ad un’affermazione del genere.
Dopo averlo messo tanto alla berlina, sarà opportuno che illustri il pensiero di Fukuyama, e metta in luce le sue criticità. La teoria della fine della Storia potrebbe essere sinteticamente definita, come operato dallo stesso autore, come un’attualizzazione della dialettica hegeliana: nella visione di Fukuyama, la Storia ha una valenza universale ed un andamento direzionato, tendendo verso un fine ultimo che raggiunge tramite scontri progressivi di modelli culturali e superamento delle contraddizioni.
All’interno di questa cornice, si individua nella democrazia liberale e di mercato la meta definitiva, verso la quale tendono tutte le nazioni, e che si è dimostrata capace di battere i suoi contendenti autoritari facendone esplodere le contraddizioni. La caduta del muro di Berlino diviene così uno spartiacque nella Storia: il fallimento del modello sovietico ha definitivamente sgombrato il campo dall’ipotesi che esistano alternative praticabili rispetto al capitalismo e alla democrazia di matrice occidentale. Poiché la Storia procede a partire dallo scontro dialettico – e a volte armato – delle diverse ideologie, il restringimento della platea ad un singolo attore deve necessariamente – a detta di Fukuyama – portare all’imitazione e all’assimilazione della sua struttura da parte degli altri paesi. In presenza di un vincitore manifesto e spariti altri contendenti, la Storia arriva al suo epilogo.
I primi vent’anni del terzo millennio si sono incaricati di smentire senza neanche troppa cortesia il modello di Fukuyama: un’egemonia statunitense tanto esaltata quanto effimera ha lasciato il posto ad una nuova esplosione di conflitti e ad un riacutizzarsi della tensione internazionale. L’assunto che capitalismo e democrazia liberale dovessero procedere di pari passo e portare l’uno direttamente all’altra è stato confutato dall’ascesa cinese, e la dimensione universale della Storia rivolta a Occidente si è vista opporsi la rivendicazione orgogliosa di identità culturali e religiose non disposte ad assimilarsi e pronte a combattere. Ma il vero difetto di questa teoria è che una sua precedente applicazione, benché più circoscritta, aveva già dimostrato la propria infondatezza.
Nell’anno 431 a.C., il mondo greco è sconvolto da quella che potrebbe per certi versi essere considerata la prima guerra totale della Storia: Atene e Sparta, a capo di vasti imperi e alleanze, si combattono fino alla fine del secolo per l’egemonia sul mondo greco. Fasi cruente si alternano a fragili tregue, e alla fine Atene sconfitta vede tramontare il suo momento di apogeo. Della guerra del Peloponneso ci parla il nostro nume tutelare Tucidide, reputato a buon diritto fondatore della storiografia scientifica e diretto testimone degli avvenimenti. Ma non è la guerra in sé che mi interessa in quest’occasione, seppur la cosiddetta trappola di Tucidide[1] sia stata invocata spesso come monito contro la compiacenza dei poteri egemoni. L’insospettabile punto di contatto con Fukuyama si trova proprio al principio.
Per far fronte alla schiacciante superiorità spartana sul campo aperto, Pericle, capo carismatico di Atene, prende una decisione drastica: sacrificando la chora, il contado, raccoglie tutti gli abitanti dell’Attica dentro le mura di Atene, rifornita per mare dal suo impero navale. Gli spartani non si vedono concedere la battaglia di falange in cui eccellono e sono scornati dalla loro impossibilità di sostenere un assedio risolutivo, e per due anni sono costretti a rientrare in Peloponneso al termine della stagione estiva. Questa strategia, aspra ma vincente, fu piegata da un evento imponderabile: nell’anno 429 una pestilenza proveniente dalle coste africane raggiunge il porto di Atene. Il morbo riduce in ginocchio la città: la popolazione dell’Attica, sovraffollata oltre misura nello spazio esiguo delle mura, viene falcidiata; la malattia si propaga con una velocità ed una facilità mai viste prima; lo stesso Pericle muore nell’autunno successivo, lasciando la città priva di una guida all’altezza.
Ancora oggi, la peste di Atene rappresenta un enigma per gli storici. Il termine, che noi oggi associamo esclusivamente all’infezione del batterio Yersinia Pestis, nell’antichità era adoperato per indicare qualsiasi malattia epidemica che mostrasse un’alta contagiosità ed una cospicua mortalità. Col nome evocativo di peste sono descritti patogeni che la ricerca scientifica ha ormai catalogato come agenti distinti: tifo e morbillo, vaiolo e febbre tifoide, nonché la peste bubbonica vera e propria. Ma prima che arrivasse la ricerca microbiologica a identificare con precisione le singole malattie, la peste era una categoria superiore, di uso maggiormente letterario che clinico.
Responsabile involontario di tutto ciò è proprio il nostro Tucidide: la precisione e il dettaglio della sua descrizione della peste di Atene, la cura pressoché fotografica con cui ricostruisce l’agonia della città, la sua capacità di suscitare orrore e pietà pur mantenendo il freddo impianto del cronachista hanno reso immortali i suoi capitoli, e modello di riferimento per tutti coloro che sono venuti dopo. Tutti i letterati successivi, da Sofocle a Boccaccio, da Lucrezio a Manzoni, hanno omaggiato Tucidide seguendo la sua descrizione dell’epidemia.
La malattia è sempre stata una compagna costante e presente nel pensiero umano. La stessa letteratura greca si apre in primo luogo con la descrizione di una pestilenza: nel primo libro dell’Iliade, il dio Apollo, offeso per l’oltraggio al suo sacerdote, punisce il re Agamennone scatenando un morbo nel campo acheo:
Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia,
e fu pauroso il ronzìo dell’arco d’argento.
I muli colpiva in principio, e i cani veloci,
ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta
lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte.
Da nove giorni andavano i dardi del dio per il campo;
al decimo chiamò l’esercito in adunanza Achille[2].
Pure, non è la peste di Troia ad essere divenuta proverbiale. Forse per l’unica volta, Omero deve cedere a Tucidide il suo ruolo di protos euretés, di antesignano cui tutti fanno riferimento. Sono gli Ateniesi e non gli Achei il popolo spazzato via dal morbo. Questo si può spiegare molto facilmente: l’episodio della pestilenza è obiettivamente una parte minore dell’Iliade, per la quale funge da mero innesco narrativo; liquidata in pochi versi, e senza troppe descrizioni, assolve al suo compito di scatenare l’aspra contesa tra Achille e Agamennone, nucleo centrale del poema. Ben diversa è la cura di Tucidide, che spende larga parte del suo secondo libro per illustrarne i sintomi e le conseguenze. Nondimeno, è forse un’altra la ragione che ha elevato la peste di Atene da fatto storico ad archetipo narrativo.
È ben noto che l’età d’oro di Atene, cui posero fine la guerra e la peste, fu un periodo di straordinaria fioritura letteraria e artistica, che ci ha donato i tesori per cui ancora oggi ricordiamo l’epoca classica: da quei cinquant’anni di pace e prosperità ci sono giunti il Partenone di Fidia e le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ma in quello stesso arco di tempo prendeva luogo una rivoluzione intellettuale tanto dirompente quanto spesso sottaciuta, che proprio in Atene aveva uno dei suoi epicentri ed il teatro di azione di un suo protagonista. La parte centrale del V secolo a.C. vede infatti la nascita del razionalismo greco, sotto l’impulso di un filosofo, Anassagora di Clazomene, e di un medico, Ippocrate di Kos.
Anassagora detiene il primato di aver introdotto la filosofia nella Grecia continentale: prima di lui, i suoi predecessori avevano vissuto ed operato solamente nelle colonie dell’Asia Minore e della Magna Grecia. Inoltre, è uno dei possibili candidati quale padre della filosofia: di lui Aristotele dice che «sembrò il solo filosofo, e, a suo paragone, i predecessori sembrarono gente che parla alla ventura»[3]. Stretto collaboratore e amico di Pericle, fu costretto all’esilio da Atene con l’accusa di empietà, volta in realtà a colpire il suo illustre sostenitore. Oltre a sviluppare le teorie atomiste di Democrito, Anassagora elabora la concezione di un principio di intelletto cosmico, il Nous, una divina intelligenza ordinatrice capace di governare i fenomeni naturali e reggere l’architettura dell’intero cosmo. Rispetto ai suoi predecessori, Anassagora è il primo a svincolare il principio causale da una raffigurazione antropomorfica e a ipotizzare una legge superiore necessaria e razionale che sottende alla natura delle cose.
Ancora più dirompente è l’operato di Ippocrate, al punto che ancora oggi i medici novelli giurano in suo nome per sancire il completamento dei loro studi. Ippocrate è infatti il fondatore della medicina scientifica e della patologia: fu il primo a registrare i sintomi dei suoi pazienti e la loro evoluzione nel tempo, introdusse i concetti di prognosi e diagnosi e pur non potendo immaginare l’esistenza degli agenti infettivi intuì che la salute fosse influenzata globalmente da numerosi fattori fisiologici ed ambientali. A partire dai suoi insegnamenti, la scuola ippocratica si guadagnò grande e meritata fama per tutta l’Ellade, rivoluzionando l’atteggiamento dei medici di fronte alla malattia e provocando un sensibile incremento delle guarigioni.
È questa cesura che ci permette di accostare la fine della Storia al mondo greco, altrimenti permeato da una concezione del tempo ciclica e ininterrotta. L’azione congiunta di Anassagora ed Ippocrate suscitò negli ambienti intellettuali dell’epoca uno straordinario ottimismo: era nata l’idea che l’analisi razionale avrebbe potuto dischiudere tutti i reconditi segreti della natura; le malattie ora potevano essere affrontate, e grazie a questo nuovo approccio con il tempo sarebbero state smascherate e sconfitte. Ma poi venne la peste.
La peste di Atene distrusse senza pietà qualsiasi illusione di progressiva vittoria che il pensiero razionalista aveva coltivato fino ad allora. Il morbo imperversava e colpiva senza lasciare scampo; i medici erano impotenti, ed anzi erano i primi a morire, perché venivano contagiati nell’atto di soccorrere i loro pazienti. L’intera città fu travolta da un indescrivibile terrore, perché proprio nel momento in cui si era creduto che la pace definitiva fosse solo questione di tempo, l’epidemia aveva smascherato l’illusione. Di questo troviamo una traccia alquanto sottile nei registri linguistici dell’Edipo Re: di fronte alla peste che travolge Tebe, Edipo giura di scoprirne la causa individuando il colpevole della contaminazione, e nell’originale greco adopera il verbo eurisko, il verbo della ricerca empirica e dell’analisi scientifica; ma la sua azione è impotente e destinata alla tragedia, perché l’origine dei suoi mali risiede in un principio superiore che non si può cogliere con il mero intelletto umano.
Redigo quest’articolo al volgere del secondo anno di pandemia. Il Covid-19 è stata la pietra tombale sull’idea che la Storia fosse giunta al termine, e che ci attendesse un futuro di benessere incontrastato e necessariamente ineluttabile. Per l’Occidente ricco e pasciuto, la diffusione del virus ha anche scardinato l’altezzosa credenza che le malattie fossero un relitto del passato ormai alle nostre spalle, da relegare a tempi trascorsi o a luoghi remoti. Come accadde ad Atene nel 429, abbiamo dovuto rinunciare alla pia illusione che la scienza ci avesse elevati al di sopra della natura, e che ogni problema sarebbe stato affrontato e infine vinto al momento debito.
Abbiamo creduto che i confinamenti e le quarantene sarebbero stati una parentesi circoscritta, e invece sono un fantasma incombente. Abbiamo sperato di poter un giorno eradicare il Covid e farlo sparire per sempre come un demone ricacciato nell’abisso da cui era uscito, ed ora dobbiamo prendere in considerazione la possibilità che il virus, sia pur depotenziato e ridotto, possa diventare una nuova presenza costante nel nostro futuro.
La Storia non si è fermata, e non è certo finita. Altri imperi sorgeranno, e altre ideologie cercheranno di risolvere le mille complessità del mondo. Un giorno, i nostri discendenti ci guarderanno con il riso bonario che noi rivolgiamo al geocentrismo e alla teoria degli umori; del Covid magari parleranno con la levità che noi riserviamo a morbillo e varicella, o forse sarà un’ombra svanita come per noi la peste e il vaiolo. Ma anche allora non dovranno abbassare la guardia e credere di assistere al tranquillo epilogo: la Storia non era finita ad Atene, non è finita per noi e non finirà nemmeno per loro.
In copertina: John Martin, La fine del mondo, 1851-53, olio su tela, National Gallery, Londra. Noto anche con il titolo Il gran giorno della Sua Ira, citazione di Apocalisse 6:17, il quadro di Martin è la seconda parte del trittico Il giudizio universale.
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