Nella cultura americana, i tre anni della presidenza Kennedy vengono spesso ricordati con il nome di Camelot. Questa buffa intitolazione deriva non solo da un rinnovato interesse che il ciclo arturiano riscosse all’inizio degli anni ‘60, portando ad una discreta fioritura di film, spettacoli teatrali e studi accademici, ma anche da un lavoro di identificazione volto a creare un parallelo tra la mitica corte del re e la neonata amministrazione: gli anni di Kennedy furono dipinti come una gloriosa età dell’oro, retta da un leader giusto e capace e attorniato di fedeli compagni, che solo una morte prematura poté fermare.
La stessa Jackie Kennedy avrebbe rilasciato un’intervista a Life appena due settimane dopo la morte del presidente, in cui citò alcuni versi dell’omonimo musical di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe : «Don’t let it be forgot, that once there was a spot, for one brief shining moment, that was known as Camelot[1]» erano i versi preferiti di J.F.K. a detta della vedova, che aggiunse: «Ci saranno grandi presidenti di nuovo, ma non ci sarà più un’altra Camelot».
La Camelot dei Kennedy è uno dei più classici esempi di medievalismo: l’uso di concetti e immagini del Medioevo storico, letterario e leggendario come chiavi di lettura per descrivere il proprio presente, dove l’attenzione non è rivolta tanto alla verità storica quanto all’immagine iconica e affascinante. L’identificazione dell’amministrazione Kennedy con il ciclo arturiano diviene indiscussa e indissolubile proprio a causa dell’assassinio del presidente, che come il sovrano di Camelot diviene la vittima innocente delle forze dell’irrazionalità e del fanatismo. Ed è da questo punto che partirà la nostra storia: a quanto pare, uno dei caratteri imprescindibili per la narrazione arturiana è una conclusione prematura, ingiusta e dolorosa.
Delle tre materie dei romanzi medievali, la materia di Bretagna è quella che ha riscosso la maggior fortuna tra pubblico e autori; la leggenda del re Artù e dei suoi prodi cavalieri è stata raccontata in innumerevoli opere tra cronache, romanzi, poesie, film e spettacoli teatrali. A partire dalle prime attestazioni in epoca celtica, sassone e normanna fino alle luci di Hollywood, la corte di Camelot ha affascinato schiere di spettatori con una costanza difficilmente eguagliata, prestandosi a mille reinterpretazioni e ai più disparati messaggi. Come sempre accade in opere tanto prolifiche e soggette a rimaneggiamenti, tentare di compendiarle tutte sarebbe un compito tanto presuntuoso quanto vano, al quale dunque non ci presteremo. Possiamo però evidenziare alcuni caratteri mantenutisi costanti tra le varie narrazioni, e dunque caricatisi di significati simbolici fino a divenire parte costitutiva della leggenda.
Il ciclo arturiano in effetti è tanto vasto che i suoi stessi narratori raramente si sono cimentati nell’impresa di raccontarlo tutto. Molto poche sono le cronache che descrivono l’epopea di Camelot dall’inizio alla fine, e la maggior parte delle storie si concentra invece su una parte specifica della leggenda. Di conseguenza, il regno di Artù ha ricevuto caratterizzazioni assai divergenti a seconda di quale momento viene raffigurato, al punto che ogni parte presenta una tematica e un tono di fondo particolarmente indicativi, mantenuti costanti nelle varie storie. Indicativamente, possiamo delineare tre momenti in cui la storia è articolata, tre connotazioni tematiche ben riconoscibili a scandire il regno di Artù.
Il primo gruppo di storie ha come ambientazione propria gli inizi della leggenda: l’arco temporale narrato si estende dall’epoca di tumulti e disordini che precede l’ascesa del vero re fino a quando il giovane Artù riesce a reclamare il trono e a pacificare il reame sconvolto. I momenti più significativi e ripresi di questa fase sono la giovinezza di Artù, il suo apprendistato sotto il mago Merlino e sir Ector, l’estrazione della Spada dalla Roccia e il dono di Excalibur[2], le prime guerre contro i baroni ribelli e la fondazione della corte di Camelot e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Le opere ambientate in questa fase hanno tendenzialmente un’impostazione solare e ottimistica, e descrivono un’Inghilterra – per quanto cupa, tormentata e lacerata dalle guerre, dalla violenza e dall’oscurantismo – destinata ad un futuro radioso e prospero. Il regno di Artù viene visto come un’occasione per porre fine all’arbitrio della forza e incanalare la potenza militare al servizio dei più deboli; le numerose peripezie che precedono la fondazione di Camelot vengono poi ripagate dalla pace e dalla giustizia.
La seconda parte del ciclo arturiano ha luogo nella parte centrale del regno, quando Artù governa saldamente e i suoi nobili cavalieri compiono meravigliose ed eroiche imprese. È la fase più fiabesca dell’epopea, dove prevalgono i toni della meraviglia e dello splendore, ed è quella che con più facilità viene alla mente quando si menziona il ciclo bretone: Artù è un re nobile e giusto, il suo governo saggio e indiscusso e il reame prospero e pacifico. Non mancano le minacce a questo idillio, ma gli elementi perturbatori vengono affrontati e risolti con facilità dai prodi campioni di Camelot. È peraltro raro che qualcuno si opponga a questo ordine: la maggior parte degli avversari sono potenze inumane, come giganti o signori fatati, e assai sparuti sono i cavalieri umani che operano fuori dalla legge del re.
Curiosamente, in questo momento di maggior gloria Artù sembra quasi fare un passo indietro: il suo impegno si riduce, e nella maggior parte dei casi lo vediamo unicamente all’inizio del racconto, quando un indifeso bisognoso d’aiuto (sovente una nobildonna di grande bellezza) si reca a Camelot a invocare soccorso o riparazione ad un torto subito, e ad Artù non resta che designare quale campione si farà carico dell’impresa, oppure per dare il benvenuto ad un nuovo valoroso guerriero che chiede di essere ammesso alla Tavola Rotonda. In questo contesto si dispiegano le avventure dei cavalieri, i cui nomi diventano rinomati e famosi quasi più del loro sovrano: Lancillotto, Galvano, Ivano, Lionel, Sagramor, Bedivere, Kay il siniscalco e molti altri ancora, le cui imprese sono raccontate in mille romances, comtes e ballate.
Ciò è presto spiegato: poiché il dominio di Artù è indiscusso, il re non ha necessità di difenderlo sul campo e di persona, e può agilmente restare sul suo trono e delegare ai suoi compagni di intervenire. Del resto, la fiaba non richiede un finale più dettagliato del “regnò lungamente e con giustizia” e il lieto fine promesso in precedenza, che qui sta prendendo corpo, può ben dirsi soddisfatto della promessa di Artù in trono, giusto e maestoso.
Anche per questo, la fine del ciclo è raccontata rigorosamente coi toni della tragedia: la conclusione del racconto vede la Tavola Rotonda dilaniata dagli scontri e dagli asti dei cavalieri, dove torti e incidenti innescano odii imperdonabili e pretese di vendetta, e irrimediabilmente lacerata dall’adulterio di Ginevra e Lancillotto. L’esito tanto luttuoso quanto inevitabile è la battaglia di Camlann, dove le opposte fazioni si annientano in uno scontro fratricida, Artù ferito a morte viene condotto ad Avalon per guarire e fare ritorno, i pochi sopravvissuti si ritirano dal mondo per ritrovare la pace, e il glorioso regno di Camelot tramonta per sempre. Il tono è crepuscolare e drammatico, e il tema prevalente è il declino e la fine di un’età dorata, una parentesi irripetibile nella malvagità del mondo, e solo la promessa di un ritorno del re può lenire il dolore della perdita.
Escludendo pochissime eccezioni, più uniche che rare, Artù viene sempre identificato come il più nobile e il più giusto dei re, un sovrano illuminato e misericordioso tanto valoroso sul campo di battaglia quanto saggio nel dispensare giustizia. Allo stesso modo, i suoi cavalieri non sono semplici soldati montati, ma i migliori e più fulgidi campioni della loro epoca, e incarnano tutte le migliori qualità che un guerriero cristiano e cortese dovrebbe avere: coraggio, ardimento, altruismo, onestà e compassione sono le loro armi quanto e più della lancia e della spada. Insieme, il loro impegno porterà sull’Inghilterra una straordinaria età dell’oro, dove i deboli e gli indifesi vivranno in pace e sicurezza, protetti dalla legge di Camelot. Eppure, nulla riuscirà ad impedire che la Tavola Rotonda venga spezzata, la fraternità dei cavalieri dimenticata e il reame sprofondato nuovamente nel gorgo di violenza cui Artù lo aveva sottratto.
Questa fine già scritta, tanto contrastante con il sogno di pace che la precede, rinforza indubbiamente l’amaro gusto della tragedia: nonostante la sua gloria, anche Camelot è destinata al fallimento, come ogni impresa umana. Tuttavia, questa conclusione apparentemente consequenziale tradisce una non piccola incongruenza: come è possibile che Artù e i suoi cavalieri, gli eroi più nobili e generosi che mai hanno calcato questa terra, possano venir meno al loro impegno e alla loro alleanza? Quale malvagità ha potuto rivolgere l’uno contro l’altro questi guerrieri che si erano giurati eterna amicizia e fratellanza, questi campioni dei più puri sentimenti e dei più luminosi ideali?
Molti si accontentano di individuare una singola figura da caricare di un afflato diabolico cui affidare la propagazione di discordia e rovina nella Tavola Rotonda: nonostante il più complesso ruolo originario, e certe rivisitazioni contemporanee, usualmente tocca alla Fata Morgana di rivestire questa parte di supremo antagonista e malvagio senza riscatto, e così la vediamo causare la rovina di Artù e del suo reame solo per meschina malizia. Tuttavia, per quanto affascinante, questo ritratto di un singolo grande avversario come causa di tutti i mali rischia di farci ignorare quello che è il monito più importante che il ciclo arturiano ci ha consegnato.
Benché la narrazione ci spinga a crederlo, e gli stessi autori sovente se ne illudano, i protagonisti del ciclo arturiano non sono che uomini, chiamati ad un compito tanto sublime quanto arduo: essere migliori di sé stessi. Il motivo per cui identifichiamo Artù e i suoi cavalieri come i più nobili paladini è che essi stessi hanno giurato di essere i più giusti e puri campioni che siano mai esistiti, per portare ad una terra martoriata la pace tanto a lungo aspettata. La collocazione temporale – spesso ignorata sprezzantemente a favore di un’iconografia più ammaliante – del regno di Artù nella Britannia post-romana la rende a tutti gli effetti una storia post-apocalittica: la società è al collasso, i barbari irrompono, e solo il sacrificio di un grande eroe può salvare i resti di un mondo prossimo alla sparizione. Artù e i suoi cavalieri intraprendono un’impresa disperata, che va ben oltre la semplice difesa di un reame: loro compito è portare il dominio della Legge in un mondo che ha conosciuto unicamente la forza, preservare un Ordine dagli assalti del Caos montante, e legare ad un destino comune i migliori campioni che il Secolo ha da offrire.
La stessa idea della Tavola Rotonda è essenziale, e non a caso è uno degli ultimi suggerimenti che Merlino riesce a dare al suo pupillo prima di congedarsi dal racconto[3]: al suo cospetto, tutti i grandi campioni lì radunati sono eguali, e ugualmente chiamati a dare il loro contributo al sogno di Camelot; che lo stesso Artù sieda come pari in mezzo ai suoi fedeli è un ulteriore suggello del fatto che i cavalieri lì presenti sono invitati a lasciar da parte qualunque gravame del mondo di fuori, per sedersi fraternamente e condividere lo stesso pane coi propri commilitoni, superando qualsiasi astio potessero nutrire. Disgraziatamente, non è così. Nelle loro varie avventure i cavalieri si dimostrano fallibili, commettono errori in buona fede o si ostinano in vizi che avevano giurato di abbandonare, cadono preda all’ira e all’impulsività e compiono atti di cui si pentono subito dopo, si fanno torti l’un l’altro che nessun ammontare di buona fede riesce a perdonare, e che lentamente mettono radici e avvelenano i cuori.
L’introduzione del Santo Graal nell’epopea arturiana è una delle ultime aggiunte, e molti autori la espungono giudicandola incongrua con il resto della vicenda. Pure, a parere di chi scrive, la cerca del Graal è fondamentale, perché è il momento in cui si rivela con infallibile chiarezza il divario tra la natura dei cavalieri e la loro aspirazione: come è noto, tutta la Tavola Rotonda viene mobilitata nell’impresa, eppure solo pochissimi – a seconda delle fonti, non più di tre: Bors, Perceval e Galahad – riescono a completarla. Tutti gli altri, anche eroi protagonisti di splendide imprese come Lancillotto e Galvano, falliscono, sono sviati dalla ricerca o si dimostrano inferiori al compito: il Graal li ha messi alla prova, e ne sono stati giudicati mancanti. Se fino a quel momento loro stessi avevano potuto coltivare l’illusione di essere davvero una compagnia di eroi, capaci di elevarsi sopra i loro difetti nel nome di un ideale più alto, il Graal li mette di fronte a tutte le loro mancanze, e frantuma questa parvenza di eccezionalità. Fintanto che le loro imprese erano state terrene, tutti loro avevano dato prova del loro valore; ma l’orizzonte metafisico e l’introspezione con cui devono confrontarsi nella cerca del Graal si rivelano fuori dalla portata dei più.
Con questa consapevolezza, la tragedia della Tavola Rotonda assume ulteriore spessore, e si carica di un nuovo aspetto: non è soltanto il declino di un regno e il ritorno ai tempi oscuri per breve tempo messi al bando, ma è anche il fallimento di un sogno, e la riconferma che ogni buona intenzione sarà infine inevitabilmente sconfitta. Artù era il più grande dei re, e si era circondato dei migliori eroi; insieme avevano creato la più insigne adunanza di guerrieri mai vista, e avevano acceso una luce nel buio della disperazione e della violenza.
Ma alla fine, tutto questo risulta vano: alcuni dei cavalieri non sono in grado di mantenere le proprie azioni all’altezza dei propri propositi, altri scelgono scientemente di rinnegare gli ideali giurati per il proprio tornaconto. L’età gloriosa e prospera delle imprese e dei tornei lascia il posto ad un crepuscolo di ferro e sangue, e solo i corvi alla fine emergono vittoriosi sulle rovine di Camelot.
D’altronde, non poteva andare altrimenti: nonostante la sua natura oggi sia largamente percepita come leggendaria, l’epopea di Artù nasce come un fatto storico, e nessun tentativo di trasporlo nell’ambito del fiabesco è riuscito a stornarla da una collocazione nel mondo reale, per quanto leggendaria – benché nessuno sappia con certezza dove siano Camelot o Tintagel, li concepiamo come luoghi di questo mondo, non certo terre separate come Narnia o l’Isola-che-non-c’è. Per quanto illustre e vittorioso sia stato Artù, per quanto idilliaco il suo governo, il mondo in cui viviamo è pervaso di dolore e sconfitta, e se quel mitico re è vissuto nel nostro passato, allora anche lui deve essere caduto. Per quanto prospera e tranquilla la fase centrale del suo mito, la sua conclusione è votata al fallimento.
Il ciclo arturiano assume così un carattere tanto fondamentale quanto sotterraneo, e spesso sottaciuto: diventa l’epica di imprese gloriose, tanto più radiose quanto si piange l’esito finale; è la cronaca di grandi fatti, così grandi da sovrastare la loro effimera durata. I suoi protagonisti sono i più grandi tra gli eroi, eppure nemmeno loro possono evitare la sconfitta; ma, alla fine, essi sono i più grandi nonostante quella sconfitta. E ogni lacrima versata è confortata da questo monito:
Mai sia dimenticato:
vi fu un luogo beato,
per un sublime istante,
Camelot chiamato.
In copertina: N. C. Wyeth, Duello tra Re Artù e Mordred, illustrazione per The Boy’s King Arthur, riduzione dell’opera di Thomas Malory La morte di Artù, a cura di Sidney Lanier, 1922, acquerello su carta.
Per approfondire:
Marc Rolland, Le roi Arthur, ed. italiana Re Artù.
Questo piccolo saggio ricostruisce l’evoluzione storica del ciclo arturiano, evidenziando i vari passaggi che hanno formato la leggenda, descrivendo i personaggi che vi hanno preso parte e compendiando le opere di cui si compone il vasto mosaico. Ciò ne fa un ottimo punto di partenza ed un’eccellente guida per orientarsi in una mitologia tanto vasta e stratificata.
Thomas Malory, Le Mort Darthur, ed. italiana La morte di Artù.
Il romanzo di Malory è spesso considerato la raccolta definitiva dell’epopea arturiana, come evidenziato dal suo titolo originale Storia di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Scritto sul finire del Medioevo, propone una sintesi personale dei romances che l’hanno preceduto, riuscendo nell’impresa sia di codificare l’immagine diffusa del mito, sia di illustrare un’immagine a tratti ancora inedita dei suoi protagonisti.
J.R.R. Tolkien, The Fall of Arthur, ed. italiana La caduta di Artù.
Questo poema, purtroppo incompiuto, fa parte delle numerose riscritture che il professor Tolkien ha dedicato ai miti del mondo sassone e nordico. Al di là delle sorprendenti risonanze con i testi più noti del Legendarium, il racconto ha il pregio di eliminare alcune delle sovrascritture cortesi e cristiane più tardive per ritornare al cuore originale dell’epopea. Ne emerge un ritratto vibrante di un mondo prossimo al crollo, e di un eroe che lotta contro il destino ineluttabile per opporsi alla marea del tempo.