Il Benito Cereno di Melville: cecità dinanzi allo straniero

Howard Pyle, Attacco al galeone, 1905

Quando Herman Melville pubblicò Benito Cereno, nel 1855, l’America era agitata dal dibattito sulle recenti rivolte schiaviste sulle navi negriere e negli Stati del Sud. La ribellione a bordo dell’Amistad (nel 1841, da cui verrà tratto l’omonimo film di Steven Spielberg) e quella sulla nave Creole, nel 1842, le sollevazioni dei negri delle piantagioni negli stati schiavisti, si inserivano in un controverso discorso politico-culturale sulla legittimità della schiavitù e sulla necessità della sua abolizione.

Un animo ricettivo e sensibile come quello di Melville, che in quegli anni aveva fatto esperienza di profonda alterità viaggiando per i Mari del Sud, intercettò la temperie dell’epoca e la sua emergente paura: la psicosi del negro in rivolta.

Melville, riprendendo un reale resoconto di viaggio apparso a Boston nel 1817[1], cominciò a pubblicare a puntate, nel 1855, il suo Benito Cereno sul «Putnam’s Monthly Magazine», prima rivista ad esprimersi esplicitamente a favore dell’abolizionismo, di cui uno degli editori, Frederick Law Olmsted, non a caso affemerà: «The nigger is no joke, and no baboon»[2].

Sul valore di questo “baboon” torneremo.

La vicenda

Michael Zeno Diemer, L'olandese volante, olio su tela
Michael Zeno Diemer, L’olandese volante, olio su tela

Il capitano Amasa Delano, prototipo dell’americano fiero di sé, vessillo della razionalità illuminista, si imbatte in una nave in panne nelle vicinanze del porto di Santa Maria, sulla costa meridionale cilena, e decide di prestare soccorso: per Delano l’approccio al San Dominick, sin da subito, ha l’effetto di un miraggio, di una straniante illusione.

Salito a bordo, Delano incontra il capitano spagnolo Benito Cereno seguito dal suo fido servo Babo, nome che richiama quel “baboon” (il babbuino) cui facevamo riferimento all’inizio.

Delano, tuttavia, non riesce a carpire l’enigma che aleggia intorno a Don Benito: lontano dall’essere un capo solido e rigoroso, lo spagnolo appare costitutivamente incapace al comando, preda di un umore atrabiliare, sempre sorretto dal soffocante abbraccio di Babo, che fuorché essere il docile e umile schiavo ne è in realtà il carceriere.

Se Don Benito prova con le sue frasi mozze e gli sguardi disperati a far intuire la verità a Delano, Babo è sempre pronto a intervenire con velate minacce: «don’t speak of me. Babo is nothing[3]».

Babo è l’odissiaco Nessuno, pronto ad aguzzare il palo di legno con cui infilzare definitivamente il già velato occhio di Delano-Polifemo, incapace di andare oltre le parvenze di fronte ad una verità che non riesce a concepire.

Nel corso della narrazione, Delano subisce un progressivo processo di straniamento: se prima era il corpo di Don Benito ad essere preda di tremori e afasie, adesso è lui a sobbalzare di fronte alle contraddizioni che gli si parano davanti; adesso è lui ad essere lo straniero sulla nave, un «white stranger»[4]: dal contatto con l’Altro si incontra lo straniero che è in noi.

E. McKnight Kauffer, Illustrazione per il Benito Cereno
E. McKnight Kauffer, Illustrazione per il Benito Cereno, 1926, Stampa su carta, (fonte: Smitsonian)

Per non perdere il senso di sé, Delano è costretto a imporsi un contegno, a somministrarsi una cura di «pensieri tranquillanti»[5], ripristinando l’ordine nella sua mente fatta di giudizi cristallizzati e stereotipi che stimano i bianchi, «Per natura una razza più scaltra»[6], i neri «troppo sciocchi[7]» e le schiave donne «primitive come leopardesse, amorose come colombe[8]».

L’ottusità di Delano raggiunge il suo climax durante lo “shaving time”, il momento della rasatura di Don Benito, in cui Babo, eseguendo il suo show privato, rivela tutta la limitatezza del discorso razzista del dominatore bianco:

Nei negri c’è qualcosa che, in certo modo, li rende atti alle mansioni di pulizia personale. […] a ciò si aggiungano la docilità che proviene dal placido contento di una mente limitata e la capacità di cieco attaccamento propria a volte di esseri incontestabilmente inferiori […][9].

Per Delano, i negri sono nient’altro che saltimbanchi, baboons, satiri danzanti inerentemente predisposti «al lavoro o al gioco[10]», ad uso e divertimento dei padroni bianchi.

Ma dietro lo schiavo docile e premuroso, può insidiarsi il «satiro nero e mascherato[11]», effigiato sulla polena del San Dominick nell’atto di schiacciare il proprio piede in rivolta, sul collo del padrone. Può nascondersi Babo, che su quel collo annoda, quasi a strangolarlo, una singolare salvietta per la rasatura: la bandiera di Spagna; si nasconde Babo che affila il rasoio e lo leva in alto, pronto a calarlo come una scure sulla testa del padrone.

Marcel Verdier, Punizione su quattro paletti, nelle Colonie. 1943
Marcel Verdier, Punizione su quattro paletti, nelle Colonie. 1943

Se l’americano pare scorgere dietro quella cerimoniosità la dissimulazione di una pantomima[12], i coup de théâtre orchestrati da Babo confondono la mente di Delano che reagisce attingendo al suo dizionario di definizioni tassonomiche dell’Altro: la vera limited mind è proprio quella di Delano.

La vicenda si risolverà con un apparente happy ending: Cereno riesce a salvarsi lanciandosi sulla scialuppa venuta a riprendere il capitano americano; la rivolta verrà sgominata e sarà il piede del dominatore, il piede di Delano, a calcare, a differenza dell’immagine effigiata sulla polena, la testa dello schiavo Babo: la sua testa machiavellica, «nido di malizia»[13],finirà impalata in pubblica piazza, come quella di uno dei più famosi rivoltosi vissuti all’epoca di Melville: Nat Turner.

L’ordine sembra essere stato ricomposto. Tuttavia, se Delano è portatore sano di quella amnesia americana che lo porta a rimuovere ogni spiacevole verità, se Delano è il Polifemo che trangugia e poi rigurgita una realtà troppo difficile da digerire, Cereno non può più opporre la stessa pervicace cecità dell’americano:

 «Voi siete salvo,» esclamò capitan Delano […] «che cosa ha gettato su di voi quest’ombra?»

«Il negro.»[14]

Un dibattito controverso

Rivolta su una nave negriera in una stampa di metà ottocento
Rivolta su una nave negriera in una stampa di metà ottocento

Intorno a Benito Cereno si è agitato un dibattito critico controverso, figlio dell’ ambiguità e dell’inquietudine ingenerata dal testo. Alcuni tra i primi commentatori lo interpretarono come un esempio di insensibilità di fronte alla tematica razziale (tra gli altri, F.O. Matthiessen., L. Fiedler) e di connivenza ai proclami di superiorità bianca.

Il modo melvilliano di condurre la narrazione dal punto di vista di Delano, intriso di tutti i suoi giudizi stereotipi dell’Altro, sarebbe, per chi taccia di razzismo il testo, chiara espressione di un endorsment alla schiavitù e alla teoria della differenza razziale. La fine di Babo, giustiziato ed esibito al pubblico ludibrio, condannato al silenzio narrativo, implicherebbe una delegittimazione della sua fiera ed eroica rivolta.

L’ingenuità, a mio avviso, dei primi critici è quella di identificare il punto di vista dell’autore con quello del narratore, sovrapponendoli e supponendo una perfetta corrispondenza. Sappiamo infatti che un autore può calarsi nei panni del narratore per decostruire il suo punto di vista dal di dentro. È ciò che fa, a mio avviso, Melville con Amasa Delano, restituendoci con una sottile ma palpabile ironia, tutte le idiosincrasie e la limitatezza del discorso del suo narratore.

A sostegno di ciò, ci vengono incontro le successive interpretazioni del testo, più attente ad ancorarlo al suo contesto storico-culturale.

La scelta di pubblicare Benito Cereno sul «Putnam’s Magazine», è un dettaglio che non può essere sottostimato: la rivista americana, sin dalla sua nascita, si pone come baluardo dell’abolizionismo e dell’anticolonialismo. Gli articoli, i reportage di viaggio nei paesi in cui l’espansionismo americano è più evidente (Cuba, Hawaii), contribuiscono a problematizzare la concezione del Manifest Destiny americano, la credenza di essere investiti di una missione civilizzatrice di diffusione degli ideali di democrazia e libertà.

Di questa cultura è espressione anche il perentorio giudizio sul nero: considerato un essere dal pensiero diminuito, un infante, costitutivamente votato all’obbedienza e al servizio ai propri padroni[15].

Melville, sensibile alle controversie e ai mutamenti del suo tempo, sposò le cause del «Putnam’s» e scelse scientemente di sottoporre i suoi testi alla rivista. Allo stesso modo, gli editori decisero di pubblicare un testo che al loro giudizio aveva una posizione chiara e coerente con la linea politico-editoriale della rivista.

January Suchodolski, Battle at San Domingo, 1845
January Suchodolski, Battle at San Domingo, 1845

Anche le scelte narrative, ad un’attenta rilettura possono contribuire a disambiguare le posizioni autoriali riguardo ai temi: tra le altre, la decisione dell’autore di cambiare il nome della nave del resoconto originale da Trial in Saint Dominick, sembra suggerire una implicita solidarietà con la fortunata rivolta avvenuta a Santo Domingo (1844).

È una scelta più che consapevole quella del titolo dedicato al capitano spagnolo: sebbene per tutta la narrazione siamo condotti dal punto di vista di Amasa Delano, è il dramma di Benito Cereno su cui Melville vuole insistere: l’autore vuole mettere in luce l’ultima tragica consepevolezza della barbarie della schiavitù, l’aberrazione di considerare l’Altro come un essere consustanzialmente inferiore e, per ciò, privo di ogni diritto alla libertà.

È questa drammatica presa di coscienza che viene esplicitata nella risposta finale di Don Benito, laconica, elusiva ma al tempo stesso rivelatrice: «The negro» è l’ombra che si è abbattuta su di lui, l’umana dignità dell’Altro che non può più essere negletta.

Lo stesso presagio si abbatte su Mr. Kurtz del conradiano Heart of Darknsess, nel suo ultimo rantolo: «The horror! The horror!»[16]. L’orrore della rivelazione di essere penetrati in un “cuore di tenebra” troppo profondo, un orrore difficile da verbalizzare, fatto di una bramosia implacabile che porta al totale annichilimento dell’Altro, riducendolo al silenzio.

È proprio il silenzio del negro a risuonare forte in Benito Cereno: la privazione del punto di vista degli schiavi africani, l’ostinato rifiuto alla parola esibito da Babo alla cattura e di fronte al tribunale, non sono una soppressione narrativa complice dell’ideologia bianca; al contrario, sono una contrubante assenza che incombe a ricordarci della disumanità del razzismo, che priva l’Altro di ogni possibilità espressiva: il silenzio di Babo diventa grido muto e fiero contro ogni forma di domesticazione fisica e linguistica.

A distanza di quasi centosettant’anni dalla sua pubblicazione siamo ancora testimoni di novelli capitan Delano, in rinnovate uniformi, che imprimono tutta la pesantezza del loro aberrante razzismo sul collo della comunità nera, innestando un nuovo corso di rabbiosi tumulti. È per questo che il Benito Cereno rivela ancor oggi tutta la sua densità semantica, la sua attualità e rilevanza.

 

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Per approfondire:

Herman Melville, Benito Cereno, Rizzoli, 2011.
Beniamino Placido, Benito Cereno, in Benito Cereno, Herman Melville, Rizzoli, 2011.
Joseph Conrad, Heart of Darkness, Harper UK, 2010.
Remo Ceserani, Lo straniero, Laterza, 1998.
Sheila Post-Lauria, Editorial Politics in Herman Melville’s “Benito Cereno”, American Periodicals, Vol. 5 (1995), pp. 1-13 (13 pages).
John Haegert, Voicing Slavery Through Silence: Narrative Mutiny in Melville’s “Benito Cereno”, Mosaic: An Interdisciplinary Critical Journal, Vol. 26, No. 2 (SPRING 1993), pp. 21-38 (18 pages).

In copertina: Howard Pyle, Attacco al galeone, 1905. olio su tela

Emanuele Lattuca
Emanuele Lattuca

Emanuele Lattuca, nato a Catania, ho da poco varcato «la fine dei vent'anni». Laureato in Lingue e Letterature Comparate, il mio feticcio narrativo è Cesare Pavese, a cui ho dedicato due tesi di laurea. Sogno di rinascere per avere il vanto di (non) contraddirmi.