Antoine de Saint-Exupéry, pilota prima ancora che scrittore, nasce a Lione nel 1900, esattamente tre anni prima delle imprese dei fratelli Wright. È quello un punto di svolta, poiché sino ad allora la maggior parte delle macchine impiegate per volare – dalla mongolfiera al dirigibile ai primi modelli di aeroplano – non erano direttamente governabili, o lo erano solo parzialmente, lasciando il velivolo in balia dei venti. I primi cambiamenti di rotta in tal senso si verificano infatti con l’invenzione del motore a scoppio, verso la fine del XIX secolo.
Il piccolo Antoine, la cui storia e la cui penna s’intrecciano con quella dell’aviazione, è immediatamente affascinato dal volo, che inseguirà a dispetto dei divieti della madre. Compirà infatti il battesimo dell’aria a soli dodici anni, quando, per una fatalità esemplare, verrà iscritto in un collegio il cui cortile dà su di un campo di aviazione.
L’aviazione è in quel momento svago e interesse di qualche curioso e appassionato, e molta è la reticenza della gente comune; è infatti solo col primo conflitto mondiale che essa osserva un’impennata di progressi e migliorie, che, dal versante militare, confluiscono poi nell’impiego civile: è in questo periodo che nascono infatti le prime linee postali internazionali, che accorciano le distanze sul piano temporale, oltre che spaziale, ridimensionando la percezione del mondo e ottimizzando la comunicazione.
Saint-Exupéry ottiene il brevetto di pilota, dapprima civile, poi militare, entro la fine del 1921 e cinque anni dopo, nel 1926, è assunto come pilota di linea commerciale per trasportare la posta da Tolosa a Dakar.
A ben guardare, percorrendola a ritroso, la sua vita sembra essere effettivamente orientata dalla stella del volo, che egli accoglie in tutte le sue manifestazioni: dalla meccanica, per cui si prodigherà prima di divenire ufficialmente pilota, quando le contingenze e le competenze l’obbligheranno ancora a terra, a quella più eterea dell’aria, che non a caso alimenterà poi quella che sarà una vocazione collaterale, secondaria, ma ugualmente ispirata: la scrittura.
Hanno così inizio le prime vere prove letterarie, tutte inerenti al volo: un racconto, L’aviatore, e un romanzo breve, Corriere del Sud (1929), entrambi dedicati al pilota Jacques Bernis. La sua penna è largamente apprezzata, tanto che dieci anni dopo, con Volo di notte, vincitore del Prix Femina, egli sarà definitivamente introdotto nella società letteraria.
È il 1931, e Saint-Exupéry è pilota della compagnia aeropostale Argentina-Francia, l’Aéropostale: vive gli albori dei collegamenti aerei internazionali e delle trasvolate atlantiche; non solo, partecipa al dibattito sul volo notturno, perno centripeto dell’intera vicenda di quest’ultimo breve romanzo.
La storia, presto detta e il cui finale è prospettato sin dalle prime righe, racconta un volo consumatosi in circostanze estremamente ostili: un uragano che solca il cielo notturno, la visuale totalmente offuscata, il carburante insufficiente. È il profilo di un destino segnato, che tuttavia il libro dice e non dice, lasciando Fabien, l’aviatore, sospeso in una coltre di stelle – esito poi profeticamente condiviso dallo stesso Antoine.
Nel frattempo, altre voci si affastellano: quella di Rivière, l’indefesso responsabile della Compagnia, quella di Robineau, il tormentato ispettore, e quella di Simona, la moglie del pilota, precipitatasi a chiedere di lui.
In quegli anni Saint-Ex, com’è affettuosamente chiamato, non è solo pilota, ma è anche direttore della Compagnia, posizione che avrebbe potuto sollevarlo dall’incombenza di volare. Chiaramente non è il suo destino: egli incarna in sé ciò che in Volo di notte è invece scisso nelle figure di Fabien e Rivière, che rappresentano entrambi il suo alterego. In Saint-Ex un ruolo non esclude l’altro, così come il bisogno di volare non esclude la terra, o quantomeno non la dimentica, complici gli amori, gli affetti e le responsabilità – non bastasse, qualche anno più tardi, il secondo conflitto mondiale, che non lo vedrà tornare.
Il pionierismo è lastricato di buone intenzioni – ma anche di tentativi, azzardi ed errori: il volo notturno è nella prima metà del XX secolo un atto d’avanguardia, dotato di esigue misure di sicurezza e perciò esposto a variabili in larga parte al di fuori del controllo umano. Sull’arrivo a destinazione la prudenza e l’abilità del pilota non possono nulla contro l’inesorabile fenomeno atmosferico, tanto più di notte, quando un coagulo di nebbie può arrivare a celare la geografia sottostante.
La tecnologia è relativamente avanzata, ma la leva resta ancora l’orgoglio, la curiosità umana, e quella secolare predisposizione al superamento del limite, perché la causa si consolidi.
Sullo sfondo, solo sullo sfondo, il paesaggio e l’agente atmosferico, sommo protagonista, si direbbe, o quantomeno elemento dal ruolo decisivo, che Saint-Exupéry coglie a pennellate generose, che vibranti trasmettono tuttavia la discrezione aggraziata dell’acquerello, come a deviare l’attenzione su ben altre intensità, quale il volo stesso e i microcosmi dei singoli personaggi, satelliti di una stessa dinamica, la tragedia annunciata.
La vicenda del pilota assume allora una veste anche strumentale e diviene il presupposto perché il romanzo possa aprirsi, in prospettiva grandangolare, sulle vicende collaterali di chi sta a terra, nel quartier generale. La sospensione di Fabien sembra essere così il pretesto per approfondire l’intorno del volo.
Fabien è lasciato al cielo, il suo elemento, la sua scena: l’immagine del pilota quale agnello sacrificato si assolutizza in quella dell’agnello sacrificale, in cui la morte, disconosciuta o meno che sia, non è rappresentata, ma sublimata da una scelta stilistica, o da un decoro fittizio, perché il lettore abbassi gli occhi sugli altri soggetti. Ben rappresentato è infatti il grumo degli affari umani, viscerali e mentali, rappresi tra le scartoffie, mentre i telegrafisti sono tesi a cogliere eventuali messaggi dal pilota disperso.
Il romanzo si apre allora su di un microcosmo psichico fortemente rappresentativo: le figure di Robineau, Rivière e Simona danno modo all’autore di scandagliare l’animo umano con pietosa delicatezza, senza tuttavia abbonare alcun dissidio, pur basso, indicibile e tremendamente conflittuale. E tale conflitto, spirituale e materiale insieme, li staglia, monolitici, gli uni di fronte agli altri, ognuno arroccato in se stesso, legato alle proprie ragioni o dalle proprie pretese, tutte ugualmente legittime.
Esemplare a tal proposito il confronto tra Rivière e la moglie di Fabien:
In faccia a Rivière s’alzava non la moglie di Fabien, ma un altro senso della vita. Rivière non poteva che ascoltare e compiangere quella piccola voce, quel canto così triste, ma nemico.
[…]
Anche quella donna parlava in nome d’un mondo assoluto e dei suoi doveri e dei suoi diritti. Il mondo d’una luce di lampada sulla tavola serale, d’una carne che reclama la sua carne, d’una patria di speranza e tenerezza, di ricordi. Essa esigeva la sua ricchezza e aveva ragione. E anch’egli, Rivière, aveva ragione, ma non poteva opporre nulla alla volontà di quella donna. Egli scopriva, alla luce d’un’umile lampada domestica, che la sua verità era inesprimibile e inumana[1]
Ciascuno dei personaggi supporta una causa che ha la propria ragion d’essere, abbracciando un destino cui non può sottrarsi, ma al quale partecipa attivamente.
Sono infatti drammi e dolori diversi: v’è lo strazio di Simona, che suscita un’immediata partecipazione; il dramma del visionario, Rivière, carico di responsabilità, interessato all’intero genere umano e al suo folgorante destino; in mezzo, con un’inequivocabile effetto accentratore, la chiamata, e la risposta, di Fabien, più forte della gravità, più forte dell’amore.
Solo il caso di Robineau, l’inquieto e grottesco funzionario, deraglia dalla sacralità che accomuna lo stato, le condizioni e la dimensione degli altri personaggi. Il suo dramma, privo di qualsiasi punta lirica, ha una deriva psicosomatica, manifestandosi con un eczema. È lui l’unica comparsa, l’uomo medio della vicenda, incapace di sublimare un dolore parlante, tutto teso alla rivendicazione di una flebile posizione che nulla ha che a vedere con un progetto che possa riguardarlo dal di dentro.
Se Rivière, pur avvolto nell’egoica retorica della predestinazione, s’immola per una causa dalla portata umanitaria, mettendo se stesso al servizio del progresso, e risplendendo così di luce propria, guidato, al pari di Fabien, dalla propria stella, per contro Robineau, interamente dominato dall’ego, collassa sotto un bisogno di riconoscimento che rivela tutta la cecità di un occhio stordito da una luce immaginaria, artificiosa e indotta, nonché l’esigua gittata di un cuore secco, come secca è la sua pelle.
Fabien, Rivière, Simona sono tutti parimenti barricati in se stessi, sotto l’egida del proprio destino, guidati da un bisogno di significato che ha risoluzioni diverse. Essi comunicano infatti gli uni con gli altri solo per alimentare l’inesorabile: ciascuna causa è ugualmente giusta, ma nessuna prevarica l’altra, né potrebbe mai farlo. Persino la posizione di Robineau ha il suo ruolo, pur essendo egli privo di qualsivoglia moto e interrogativo spirituale.
Entro i confini di una trama assai esile, i personaggi di Rivière e Simona sembrano originare i ritmi scenici della tragedia, tra dialoghi, monologhi e qualche soliloquio; di contro, Fabien, punto focale complessivamente muto, senza voce, isolato e senza linea, incarna una figura quasi archetipica, e pur sempre umana: l’eroe che più di ogni altro non può sottrarsi all’azione, colui che, fuso con la chiamata, non può indulgere nelle più basse dolcezze del mondo. Non è un caso allora se il personaggio si assottiglia con garbo e discrezione di pagina in pagina, senza che se ne menzioni effettivamente la fine, cristallizzandosi così nel proprio mito.
Ora, a differenza di Jacques Bernis, protagonista dei precedenti successi, Fabien sembra raggiungere l’ascesi. Se Bernis, pur fuso con l’aeroplano, torna definitivamente al volo per un amore ritrovato ma ben presto naufragato, Fabien, da poco sposato, stabile, si direbbe, resta tuttavia solidamente fedele all’aria, ebbro, felice. E questa euforia trasla in uno stato di grazia quando egli si decide a superare il banco dell’uragano, dove realizza tutta l’irrimediabilità della sua posizione, nel mezzo di una luce radiosa e lattiginosa, materica.
Fabien s’immaginava di avere raggiunto uno strano limbo, perché tutto si faceva luminoso; le sue mani, le sue vesti, le sue ali. La luce non scendeva dagli astri, ma si sprigionava, sotto di lui, intorno a lui, in quei depositi bianchi.
«Sono assolutamente pazzo», pensava Fabien; «Sorrido mentre siamo perduti»[2].
Il pilota sorride perché, rappreso nell’estasi, intercetta il sentiero dell’anima. Non dissimile, in tal senso, Rivière, che, pur soffrendo per il sacrificio del compagno, e attraversato al contempo dal dolore della di lui moglie, vede una causa dalla caratura universale trionfare sulla morte. Ed ecco che il dramma si risolleva in lui per diventare il canto compiaciuto, per quanto rotto e opaco, del condottiero. Così egli torna alle scartoffie, sulla terra, tra i segretari della Compagnia, mentre un altro aeroplano si alza in volo, e gravita ora sopra la sua testa, in quella notte lunga.
Riecheggia infine nell’aria funerea l’eco d’un già accennato lamento funebre. Simona, portatrice dell’istanza dell’amore domestico, raccolto, incurante, forsanche inconsapevole dei grandi destini, che nel marito e nella vita coniugale esaudiva se stessa, resta inconsolata, priva dell’oggetto del suo amore, come spoglia è la sua casa.
Il sipario non chiuso sulle sorti di Fabien è un atto interdetto, senza finale esplicito su cui è tuttavia inutile speculare; ma se di Fabien resterà l’alone di un mistero irrisolto, per quanto largamente intuibile, recentemente è stato possibile ricostruire le circostanze della morte di Saint-Ex.
Scomparso durante un volo di ricognizione tra Sardegna e Corsica, verso la fine degli anni Novanta si verificano i primi significativi ritrovamenti.
Il 7 settembre 1998 un braccialetto d’argento con inciso il nome del pilota si riaffaccia alla luce tra le reti di un pescatore, Jean-Claude Bianco, presso l’isola di Riou, a sud di Marsiglia, mentre due anni dopo, nel 2000, Luc Vanrell, sommozzatore professionista, esploratore e fotografo, dichiara la scoperta del relitto di un aereo P38, rinvenuto a 60 m di profondità a est dell’isola. Nel 2004 il relitto è identificato quale il velivolo pilotato da Antoine de Saint-Exupéry, ma il mistero continua ad aleggiare sulla morte del pilota, essendo ancora contemplata l’ipotesi del suicidio.
È allora grazie alla tenacia dello stesso Vanrell che è stato possibile arrivare a una conclusione definitiva: dall’inchiesta, poi pubblicata nel 2008, emerge che l’aereo su cui viaggiava il celebre autore fu abbattuto da un pilota tedesco della Luftwaffe, Horst Rippert. È la notte del 31 luglio 1944, e Rippert, giovane promessa dell’aviazione tedesca, avvistato un Lightning P-38 volare a bassa quota sul mare, verso Marsiglia, lo colpisce mirando alle ali; l’aereo precipita e nessuno emerge col paracadute, o tra le onde.
Il giorno dopo, dalla base corsa da cui Saint-Exupéry era decollato, un ufficiale del comando, alle 14.30, dopo diverse ore di attesa, lo dichiara disperso.
Ripper e i suoi compagni, all’ascolto delle frequenze francesi, intuendo che l’aereo abbattuto fosse quello del celebre autore, decidono di mantenere il segreto, concorrendo ad alimentare il mistero e la speculazione. Solo sessantaquattro anni dopo, Rippert confessa: «Se avessi saputo che in quella carlinga c’era lui, giuro, non avrei sparato. Su tutti, ma non su di lui!»
Sono parole amare, in verità, poiché rivelano l’arbitraria gerarchia d’importanza della vita umana; ma sono anche la conferma di come, in un contesto di guerra, essa arrivi tuttavia ad annullarsi, e non a difesa di sé, quanto perché la morte non conosce distinzione, ed è anzi necessaria alla nomina del vincitore.
Così fu per Saint-Ex, vate di se stesso in Volo di notte come anche in Corriere del Sud, i cui piloti protagonisti non vengono tuttavia uccisi dall’autore, condividendo, sino alla recente risoluzione del caso, le sue stesse sorti: la sospensione su tutte. Pilota prima ancora che scrittore, si diceva, e in effetti la scrittura per Saint-Exupéry sembra servire all’aviazione per maneggiare una vocazione che è così possibile apprezzare in presa diretta. L’eredità è l’esempio, non necessariamente intenzionale, di chi ha abbracciato e vissuto realmente se stesso, accogliendo qualsiasi strumento e talento lo potesse realizzare, giungendo quasi al vaticinio nel progressivo e naturale allineamento della vita con l’anima.
Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche: Il Piccolo Principe e la fiaba: uno specchio magico