pubblicato da D Editore
Alle donne e agli uomini
che per terra e per mare vanno
incontro al proprio destino
Quando Emmanuele Pilia, editore già noto a questo blog, mi ha telefonato, per propormi la lettura dell’ultimo romanzo ancora caldo di pressa, non ho avuto indugi.
Il libro è piccolo, maneggevole, la carta spessa come la carne, sulla copertina si staglia immensa una sagoma nera di donna, dove linee rosse come sangue, rimarcano il cuore e il volto sfigurato, su uno sfondo aranciato di un tramonto africano, nel quale le trivelle dei pozzi petroliferi, impietose sventrano il manto verde del suolo.
Sono i colori e i dolori dell’Africa che ci colpiscono, il titolo è quasi nascosto: Akuaba, un amuleto africano di legno, simbolo di fertilità e salute per il nascituro.
La copertina è un‘opera d’arte grafica dell’art director: Alessio “Blue Magic“ Villotti, che collabora con la casa editrice.
Il libro è dedicato, come scrive l’autore, a tutte le donne e gli uomini del mondo, che sopportano fatiche e avversità andando incontro al proprio destino, non sempre felice e fortunato.
L’accenno agli sbarchi d’immigrati, africani per lo più, che fuggono dalla loro terra, dalle loro case pur di riuscire a fare una vita dignitosa, rimane tale, perché Francesco Staffa non ha scritto un libro d’inchiesta o di denuncia, perché chiunque nella sua vita va incontro al proprio destino o per mare o per terra.
È fluido e accattivante, dalla scrittura chiara, i periodi sintattici brevi, con quel brivido di noir, che non guasta, calamitano l’attenzione e la curiosità del lettore, che sarà magicamente coinvolto dall’ordito costruito dall’autore.
Molte compagnie straniere in Africa
Portano via tutto il nostro denaro
Scrivono paroloni in inglese sui giornali
Sfruttano noi Africani
Ho letto di una di queste in un libro
La chiamano Itt.International Thief Thief 1979 Fela kuti
Dopo la dedica a coloro che vanno incontro al proprio destino, Francesco Staffa ricorda Fela Kuti ( 1938/1997) cantante e attivista Nigeriano, con i versi tratti da una sua canzone del 1979, che ci chiariscono subito da quale punto di vista è partito l’autore, quando ha creato i personaggi: simboli d’un’epoca non ancora finita.
La storia è ambientata tra la Nigeria e il litorale di Roma. Da Fiumicino partiranno per una vacanza Guido e Ada, invitati da Franco, amico d’infanzia di Guido, che vive a Lagos con la moglie Fabienne.
Franco, petroliere, cinico, pusillanime e bugiardo, è il tipico uomo in carriera degli anni ’80/’90 del secolo scorso. Non è l’uomo che si è costruito da solo per valore e merito; fa parte di quella schiera di faccendieri che in quegli anni proliferarono, resistendo a tutt’oggi purtroppo, con la compiacenza di Stati deboli e corrotti, nonostante le evidenti tragedie ambientali e sociali che hanno procurato all’intero pianeta.
Guido è lo studioso, l’occidentale eticamente giusto e colto, che guarda l’Africa con rispetto, conosce gli usi, i costumi, le religioni politeiste e animiste, è un estimatore molto autorevole di opere d’arte. Viene tirato dentro a una storia assurda da sua moglie, che macchierà indelebilmente la sua serietà morale, la stessa che aveva coltivato da sempre, con studio e dedizione.
Paradossalmente Guido rappresenta la degenerazione dei grandi ideali, cui abbiamo assistito come protagonisti e spettatori al tempo stesso, in questi ultimi trent’anni. È tutta la società occidentale a essere scesa a compromessi, per assecondare bisogni indotti, mascherando la colpa dietro un silenzio, giustificato da pietose bugie.
Ada è la moglie di Guido, con Franco, rappresenta l’insensato cinismo occidentale, che si tura naso e occhi pur di raggiungere quanto desidera.
È l’archetipo del desiderio inappagato di questa società che procura solo infelicità e nevrosi. È il bisogno di possesso che genera regresso della morale e della giustizia, e rende il soggetto, facile preda di superstizioni pericolose e fuorvianti.
Fabiénne è la moglie di Franco, rappresenta l’evoluzione della frivolezza alto borghese. Una vera figlia dei fiori, un’eterna bambina curiosa, alla ricerca di emozioni sempre più forti, al limite del distruttivo, destinata a fallire, come fallì il movimento hippy.
Amma è il corpo dell’Africa, un continente denudato, brutalmente seviziato, drogato, annientato.
Amma è la storia di molte donne ghanesi che, insieme ai loro mariti e familiari, si trasferirono in Nigeria nel periodo del boom del petrolio per lavorare, e che furono costretti a fuggire, a causa della perdita del lavoro e della conseguente crisi economica.
Stupri, violenze, prostituzione per le donne; sevizie e torture per gli uomini; traffico clandestino di neonati e di organi; rifiuti tossici, tutto in Africa sembra diventare un business, in cui a perdere è il popolo africano e tutti noi.
Adibisi è l’immigrato che dopo tante sofferenze può guardare i suoi figli crescere in un ambiente confortevole, al riparo dei pericoli. Nonostante tutto, il passato non può dimenticarlo, l’uomo nuovo di successo è segnato da una volontà di riscatto d’un torto antico.
Sonia è figlia di Guido e Ada, la conosceremo solo nell’ultimo capitolo, una splendida ragazza dai capelli ricci e neri, il corpo sinuoso, fasciato da un vestito rosso, spigliata e avviata a una promettente carriera.
Da quel momento ogni donna Ashanti e dei popoli vicini prese
ad indossare una bambolina di legno simile per propiziare
fertilità e il futuro benessere dei nascituri.
Questo talismano fu chiamato Akuaba,
figlia o figlio di Akua.
Francesco Staffa è un antropologo, collabora da diversi anni con musei etnografici ed è stato consulente per le trasmissioni Rai Geo e Geo, ha scritto e scrive per varie riviste. Nelle culture africane gli amuleti hanno un valore spirituale molto forte, ha scelto Akuaba dove la fertilità e il bene dei bambini, si trasforma in un’avvincente storia dai tratti crudi ma senza spettacolarizzazioni riempitive di un vuoto di significati.
È un libro appassionante, che coinvolge il lettore, che paradossalmente diventa protagonista di un finale che non finisce.
Incontriamo Francesco Staffa, che gentilmente ha concesso un’intervista per il nostro blog.
Ti ringrazio per aver accettato di parlare del tuo libro d’esordio con il blog de La Sepoltura della Letteratura, libro che simbolicamente chiama in causa tutta la nostra società. Com’è nata l’idea di questo libro?
Cercavo una narrazione differente, che desse conto della complessità di alcuni temi e che non si risolvesse nella dicotomia che da tempo anima il dibattito pubblico sul fenomeno migratorio: da un lato razzismo e sovranismo e dall’altro pietismo e paternalismo. Questi atteggiamenti, infatti, dal mio punto di vista sono facce di una stessa medaglia che riconduce a un senso di superiorità dettato dalla Storia. I popoli occidentali, loro malgrado, fanno parte di una porzione di umanità che ha “vinto”. Poi sul cosa avrebbe vinto se ne può discutere ampliamente in un’altra occasione.
Quello che mi premeva era mettere in discussione questa presunta superiorità e ricordarci che, nonostante gli slogan di una o dell’altra parte, le vite hanno tutte uno stesso peso, o almeno così dovrebbe essere. Così, a partire da una lente che distanziasse nel tempo e nello spazio, ho voluto raccontare di noi, esseri umani privilegiati per il semplice fatto di essere nati al di qua di un confine immaginario che vuole separare l’umanità in categorie. Il periodo storico e il luogo scelti, ben rappresentano uno specchio da cui riflettere la nostra natura in rapporto a l’altro. Questo desiderio, questa intenzione, mi ha spinto a narrare le vicende delle tre coppie protagoniste del romanzo.
Perché tra i tanti amuleti che esistono, hai scelto Akuaba?
Sicuramente perché era funzionale alle esigenze narrative. Tra i vari temi trattati nel romanzo, infatti, vi è quello della maternità e ancora di più quello dell’impossibilità di raggiungere tale condizione. Visti i luoghi in cui i personaggi recitano i propri ruoli, ho restituito, credo, il giusto valore a quello che questo amuleto rappresenta per le genti che abitano quei luoghi. Devo ammettere, inoltre, di aver subito una certa fascinazione da questo oggetto carico di leggenda e storia, considerando, poi, che le sue fattezze ricordano e richiamano un simbolo per noi molto familiare. Un simbolo che, non importa se si è credenti o meno, rimanda a determinati valori anche contraddittori: se da un lato è un simbolo di vita, dall’altro rappresenta il suo opposto.
Il Cristo in Croce, cos’è se non la negazione della maternità? Non è, forse, l’emblema di una rinuncia estrema da parte di una madre che accetta la morte del proprio figlio nel nome di una divinizzazione e di una resurrezione in un al di là distante dal reale? Ecco, in un certo senso, mi piaceva l’idea di ribaltare questo simbolo e, insieme ai popoli che credono nel suo potere, valorizzarlo e dare risalto a ciò che esprime: la vita.
Quanto i tuoi studi di antropologo hanno influenzato questa storia e che rapporto hai con l’Africa e più specificatamente con la Nigeria?
Posso dire che da quando mi sono approcciato al metodo di indagine etnografico, non l’ho mai più abbandonato. Il mio modo di pensare è strettamente legato agli studi che ho avuto la fortuna di esperire e la complessità, a cui ho accennato prima, è un tema ricorrente nella letteratura antropologica. Da lì prendono avvio tutte le riflessioni su chi siamo e perché siamo così. La storia che ho narrato, dunque, è figlia del mio bagaglio culturale, senza dubbio. E non solo per le tematiche inerenti ai rituali yoruba o all’amuleto ashanti, ma forse – e azzarderei, soprattutto – per la narrazione scelta. Raccontando, ho voluto descrivere donne e uomini, i loro desideri e le pulsioni che animano le loro azioni. Descrivere, ripeto, senza giudicare, ma restituendo quello che il mio osservare ha notato. Credo che il compito della scrittura, infatti, così come quello dell’antropologia e delle scienze umane tout court, sia quello di porre l’attenzione su temi e fenomeni, suscitando reazioni, anche stranianti e disturbanti.
Tratti molti temi spinosi e dolorosi, di cui sono vittime le donne, gli uomini e i bambini africani, ma Akuaba non è un libro di denuncia o sbaglio?
Decisamente no, non lo è. Non nel senso comune del termine, almeno. Racconto fatti inventati anche se incorniciati in una storia reale. Racconto vicende verosimili, senza denunciare nulla che non sia già evidente sfiorando le maglie della Storia. Non è una denuncia, no. È una riflessione sul come dovremmo percepirci in relazione a l’altro e su come spesso, troppo spesso, anteponiamo i nostri desiderata prevaricando anche in modo violento chi sembra possa intralciare il nostro cammino.
Come ho accennato prima, non mi sono calato nel ruolo di giudice, non era mio compito assolvere o condannare né tanto meno denunciare. Ho scelto quello – forse più scomodo, ma sicuramente più stimolante – di narratore, con tutto ciò che ne consegue.
Mi sembra doveroso chiederti una riflessione su questi strani tempi di pandemia e quali progetti letterari hai in mente.
Ancora una volta, la mia attenzione si pone sulla narrazione scelta per descrivere questi tempi. A partire dalle metafore belliche, fino alla scelta di parlare prevalentemente di noi potenze mondiali. Giornali, radio e mezzi di informazioni tutti, affrontano la pandemia come un flagello capitato all’improvviso. Pochi, troppo pochi, analizzano questo evento in correlazione ai cambiamenti climatici e all’intervento antropico sull’ambiente. Ma ancora di più, ciò che mi atterrisce è lo scarso interesse mostrato nei confronti di tutta una parte del globo e dei suoi abitanti. Ogni giorno ascoltiamo i numeri, le cifre, la conta delle persone contagiate in modo più o meno catastrofico dal virus. Si parte, di solito, dagli Stati Uniti per poi giungere all’Europa e via via ai singoli Stati dell’Unione. Ma cosa e quanto sappiamo dell’Africa e delle sue genti? Quanto delle megalopoli Asiatiche e quanto dei molteplici campi profughi dentro e fuori i nostri confini?
La pandemia, come tutte le crisi, avremmo dovuto affrontarla utilizzandola. Una leva per cambiare e migliorare. Non voglio minimamente sminuire la sua portata tragica, ma l’idea di tornare a una normalità mi spaventa. È da quella normalità che il virus si è propagato, forse dovremmo pensare a una nuova via da percorrere, una via comune, dove ogni vita abbia lo stesso peso e lo stesso valore e dove la solidarietà prevalga sugli interessi comuni. Mi auguro in questo senso, che anche la corsa ai vaccini non segua le vie percorse fino ad ora, deviando nettamente verso un nuovo percorso che preveda un’attenzione verso il futuro e le future generazioni.
Quest’ultimo tema è tangenziale al progetto letterario a cui sto lavorando. Un romanzo in cui si ritrovano alcuni dei personaggi già presenti in Akuaba: Ada, Guido e il misterioso collezionista, ancora una volta legati a vicende che radicano la loro origine nella notte dei tempi.
Tra Rituali fenici, oggetti sacri di un tempio dedicato alla dea del parto Eileithyia, miti e novelle Moire che tessono i destini dell’umanità (anime pure mai nate, cadute nell’oblio della morte prenatale), il protagonista si muoverà alla ricerca della trama che tesse tutti questi elementi in una metafora che vede patriarcato e matriarcato in lotta e che vede queste due essenze indicare due strade differenti. Una delle due la viviamo quotidianamente e ci induce a cibarci dei nostri figli, del nostro futuro. L’altra l’abbiamo sperimentata nella storia per troppo poco tempo e, forse, sarebbe opportuno riappropriacene.
Ringraziamo e salutiamo Francesco Staffa e lo lasciamo lavorare al suo nuovo libro.
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