Roman Polanski

Quello che non so di lei

Dopo un’assenza di qualche anno ritorna al cinema monsieur Roman Polanski, uno dei più grandi autori della storia della Settima Arte. Un quinquennio dopo il magnifico Venere in pelliccia, il celebre regista polacco ritorna al cinema portando nuovamente sullo schermo l’adattamento di un romanzo: Quello che non so di lei.

L’opera di riferimento del film è Da una storia vera, scritto dall’autrice Delphine de Vigan. Un testo molto particolare che sembra essere perfetto per il talento visionario del regista, da sempre signore assoluto dell’inquietudine che si cela dietro l’apparenza borghese e rassicurante del ceto medio.

Alla sceneggiatura però non c’è la mano di Polanski, bensì quella del collega transalpino Olivier Assayas, colui che ha firmato la regia di due film come Sils Maria e Personal Shopper, in pratica due delle migliori pellicole che il cinema francese ha sfornato nel nuovo millennio.

Guardando Quello che so di lei balza subito all’occhio come Polanski sia, nonostante l’età, sempre pronto a rappresentare al meglio quel tocco sinistro che a volte macchia di rosso la realtà. Il regista dirige con la consueta maestria le due muse Emmanuelle Seigner ed Eva Green, due straordinarie attrici dalla bellezza mai rassicurante. Questa dualità si percepisce in tutto l’arco del film. La storia risulta essere sempre ambigua, mai rassicurante, priva di ogni possibile appiglio logico.

Quello che non so di lei

Nonostante il soggetto sia estremamente striminzito in termini di azione, Polanski riesce col suo talento a far emergere tutto quell’insieme di pulsioni autodistruttive di una scrittrice famosa (la Seigner) in preda a una crisi dovuta al classico blocco dello scrittore. Un momento di carenza assoluta di ispirazione che verrà risollevato, almeno in parte, dall’apparizione di una fan della scrittrice, una donna dal passato oscuro e dal comportamento difficile da inquadrare (ruolo calzato su misura per Eva Green).

Sostanzialmente il film è tutto qui, nel senso che si incentra totalmente sul rapporto tra le due donne. Il regista gira con la consueta eleganza riuscendo ad accompagnare lo spettatore con un crescendo a tratti lento ma inesorabile, che ci porta dritti verso un finale delirante in cui emerge il fattore grottesco tipico della filmografia polanskiana. Se dal principio il film ricalca al meglio il classico aspetto del cinema francese, nella seconda parte (in cui il fattore thriller prende il sopravvento) si notano delle influenze diverse e prese dal cinema statunitense, pensiamo per esempio a pellicole come Misery non deve morire.

I tormenti di una scrittrice in preda con un’ispirazione perduta, il rapporto equivoco con una fan che (in qualità di ghost writer) sembra poter essere quell’aiuto necessario per ricominciare a produrre letteratura di alto livello. Ma come spesso accade nel cinema di Polanski, quella che sembra una situazione normale e tranquilla rappresenta solo il telone dietro cui si nasconde un’opera teatrale fatta di ossessione, follia, insicurezza, violenza, istinti suicidi e tutto ciò che porta l’essere umano a deviare dai comportamenti socialmente accettabili. Ma attenzione, dietro l’apparenza si nasconde un insidioso inganno

Quello che non so di lei Roman Polanski

Possiamo dunque giudicare Quello che non so di lei come un capolavoro, alla pari dell’incredibile Venere in pelliccia in cui sempre la Seigner aveva un ruolo di primo piano? Il mio parere è che questo film ha un qualcosina in meno, nonostante l’eccezionalità della tecnica registica e la capacità di Polanski e di Assayas di mettere in scena un rapporto che dovrebbe essere mostrato in qualche corso di psicologia per far comprendere al meglio la tossicità di certi rapporti.

Cosa c’è allora in meno rispetto ai film del passato, come L’inquilino del terzo piano e Luna di fiele? Secondo il mio modesto parere, quello che funziona meno è proprio la scrittura di Assayas che si muove su territori per lui sicuri e conosciuti ma che, nella visione estetica di Polanski, fatica a far emergere il lato sinistro della vicenda. Per una sceneggiatura quindi a tratti zoppicante, dall’altra ci troviamo di fronte all’ennesima prova di maestria da parte di un regista che merita di stare nell’olimpo dei grandissimi.

Quello che non so di lei non è un capolavoro, proprio perché nel suo essere film d’autore diventa a tratti fin troppo cervellotico e complesso, quando invece sarebbe stato forse più opportuno dare una spinta un po’ più commerciale e dinamica. A parte questo aspetto, però, il film funziona alla perfezione.

 


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