Edipo e Antigone
Antoni Brodowski, Edipo e Antigone, 1828 (particolare)

Hegel lettore di Antigone: la contraddizione tra pubblico e privato

Antigone. Figura complessa, contraddittoria, inesplicabile. La sua storia da sempre suscita interrogativi, instilla il dubbio.

Cos’è il Giusto? Possiamo agire secondo giustizia? Oppure siamo condannati a prender partito, ma senza poter mai davvero dare conto delle nostre scelte?

Non smette di porre domande Antigone, di richiedere attenzione. Ne era consapevole Hegel, alla cui interpretazione, non a caso, dedica una lunga riflessione.

Siamo nella Fenomenologia dello Spirito, la «storia romanzata della coscienza». Un lungo viaggio fatto di dubbio e disperazione, di messa in discussione delle certezze e del proprio sapere. Una via faticosa, ma tesa al superamento di ogni parzialità, alla comprensione di ogni punto di vista, alla Totalità.

E in questo percorso emerge Antigone: figura dello strappo, della scissione tra pubblico e privato, tra legge umana e divina, tra famiglia e città. Espressione per eccellenza del rapporto tra due potenze etiche, parimenti giuste perché etiche, ma tra loro inconciliabili.

Camille Felix Bellanger, Edipo e Antigone
Camille Felix Bellanger, Edipo e Antigone

Da una parte Creonte, re della città, che in forza della legge mette al bando Polinice, nemico della comunità. Dall’altra Antigone, la donna che, in quanto rappresentante della femminilità, lotta intransigentemente per affermare la necessità della cura familiare. Il terreno dello scontro è la morte nella sua incarnazione concreta: il cadavere.

La figura della morte non è casuale. Motore del percorso che la coscienza intraprende nella Fenomenologia, la domanda «perché la morte?» è centrale in ogni “filosofia del senso”, in ogni concezione del mondo che pretenda di comprendere la realtà[1].

Perché la morte? È possibile darle un senso?

Sì – risponde Hegel – la morte acquista senso nell’atto della sepoltura. Solo così si può sottrarre l’evento luttuoso alla sua immediata datità, alla sua insensatezza. Solo la sepoltura, con i suoi rituali, spiritualizza il mero dato di fatto della non esistenza. Ma non tanto sancendo il passaggio nell’al-di-là (non è necessario ipotizzare una vita post mortem alla maniera cristiana). No, è proprio nel significato terreno, umano, di chi invece resta nell’al-di-qua, che l’atto di seppellire rende comprensibile e perciò significativo quest’evento in sé assolutamente insensato.

Per l’animale la morte non ha senso. Capita. È accidentale.

Benjamin Constant, Antigone davanti al corpo di Polinice, 1868
Benjamin Constant, Antigone davanti al corpo di Polinice, 1868

Per l’uomo invece essa ne acquista uno. Perché l’uomo è spirito, perché concettualizza, comprende. Negare la sepoltura, come fa Creonte, allora, non vuol dire solo affermare una legittima potestà (quella delle leggi umane, dello Stato). Significa soprattutto negare un senso al nemico, non riconoscerne la spiritualità intrinseca, l’essere innanzitutto un essere umano.

Ma non solo. La sepoltura definisce la sfera della partecipazione dell’individuo alla comunità. Per Hegel (ma non è una sua invenzione, si pensi a Schiller…), la Grecia antica è caratterizzata da una sostanziale identità tra il singolo (la famiglia) e la comunità (polis). È la «bella eticità» antica, in cui i due momenti della famiglia e della Città si completano e il Sé non è ancora sorto nel suo diritto come individualitàsingola[2]. Nietzschianamente l’uomo non è ancora diventato un «animale interessante[3]», cioè non ha ancora uno spessore psicologico, un’interiorità. Solo Socrate prima (che verrà infatti messo a morte), e soprattutto il cristianesimo, poi, riusciranno, a prezzo del definitivo tracollo della polis, ad affermare il principio di validità dell’interiorità individuale.

La contraddizione tra individuo e collettività inizia però a lavorare già in Sofocle, che ha il merito di farla emergere in tutta la sua potenza proprio con l’Antigone.

Stretti dalla visione unilaterale di cui sono portatori, Antigone e Creonte si pongono su un piano di incomunicabilità assoluta. Da una parte la legge degli dei, dall’altra la legge degli uomini: assolutamente vere e assolutamente valide dai rispettivi punti di vista, ma assolutamente false e invalide dal punto di vista dell’altro.

Per Gabriel Wickenberg, Edipo e Antigone
Per Gabriel Wickenberg, Edipo e Antigone

La tragedia scaturisce dall’impossibilità oggettiva di un superamento conciliatorio delle due posizioni. Anche il perdono di Creonte, necessariamente tardivo, non è una soluzione. E qualora “fosse arrivato prima” avrebbe semplicemente affermato l’arrendevolezza della legge statuale in nome dei vincoli familiari. Sarebbe stata perciò una vittoria unilaterale (della sfera individuale), che ben lungi dal risolvere la contraddizione, ne avrebbe rinviata l’esplosione.

La cosa interessante è che le categorie messe al lavoro da Hegel nel commento dell’Antigone, ritorneranno anche in una fase successiva. L’affermazione del principio della soggettività, che trova il proprio trionfo con i Diritti dell’uomo e del cittadino e la separazione tutta moderna tra citoyen e bourgeois, sembra entrare in contraddizione con il tessuto collettivo della società civile. Ma a differenza che nell’epoca sofoclea, questo non significa il collasso di un mondo, quello della polis.

Le condizioni spirituali di una ricomposizione infatti, ci dice Hegel, sono poste: privato e collettivo si riconoscono entrambi nella statualità, loro «suprema potenza etica». La separazione tra sfera economica e sfera politica, possono trovare un senso più alto della mera affermazione tautologica che l’individuo ha un valore in quanto individuo. E questo senso è lo Stato moderno. Ultimo ponte sulla strada che conduce alla totalità dello Spirito assoluto.

Una prospettiva non priva di tensioni, giustamente rilevate e messe in evidenza dai pensatori successivi. Ma non è questo il tempo e il luogo per addentrarvisi, sarà tema invece della prossima puntata.

 


Leggi anche: Il primo stasimo dell’Antigone: Sofocle e l’ambiguità

Leggi di più
Blame! copertina
Blame! di Tsutomu Nihei: l’imitazione non ha colpa