C’era una volta Walt Disney, e il vecchio Walt detestava profondamente i sequel.
Per tutta la vita Disney cercò di dare dignità al cartone animato, provando ad elevarlo rispetto al semplice intrattenimento per bambini: il suo intento era creare opere che potessero essere studiate nelle università, apprezzate come una sorta di arte totale, che metteva insieme cinema e disegno, teatro e musica: è quello che farà con Biancaneve, “una follia”, come veniva descritta dai giornali; è quello che tenterà di nuovo con Cenerentola, alzando ancora il livello e provando a imitare il cinema con vere e proprie inquadrature, come se avesse una macchina da presa.
Il sequel, dunque, gli sembrava una via troppo facile, troppo scontata: riciclare le idee facendo leva sul successo del film precedente. No: bisognava creare ogni volta un capolavoro diverso, un’idea diversa; ricostruire sempre il proprio successo su nuove basi. E le cose andarono così per diverso tempo, anche dopo la morte del vecchio: solo negli anni Novanta le esigenze di cassa si fecero sentire, e iniziarono a produrre sequel, anche di discreta fama, come Bianca e Bernie nella terra dei canguri o Il ritorno di Jafar[1].
La Pixar, invece, è sempre stata più spregiudicata, in questo senso. Nata da un gruppo di artisti ribelli che avevano trovato in Steve Jobs il loro mecenate, negli anni Novanta rappresentava la sperimentazione, la novità: niente animazione tradizionale, solo CGI; niente più fiabe, ma ambientazioni contemporanee. Dato che la computer grafica era agli inizi ed era un grosso problema animare le figure umane, pensarono a un film completamente incentrato su degli esseri inanimati: i giocattoli. Fu così che nacque Toy Story: un progetto troppo ampio per essere raccolto in un solo film, e così ne fecero ben quattro. Anche se i fan preferiscono ricordare solo i primi tre.
In effetti, anche gli alti enfants terribles della nuova animazione in CGI, la Dreamworks, non avevano affatto ribrezzo per i sequel: quando finalmente riuscirono a realizzare Shrek, lavorarono contemporaneamente al primo e al secondo. Era già il 2001 e il mondo dell’animazione non era proprio più quello del vecchio Walt: i film non erano più delle follie in solitaria per le quali i produttori dovevano ipotecare la casa, rischiando tutto, ma delle imprese colossali con alle spalle altrettanto colossali aziende, che guadagnano non tanto dal film in sé, ma dal merchandising derivato, da tutti i pupazzi, i gadget, i giocattoli che si possono realizzare con i personaggi o le situazioni del film.
Questo ha lentamente, ma inesorabilmente, cambiato il modo di scrivere i film, e, più che la Disney in sé, lo mostrano la Pixar e la Dreamworks: serie come Toy Story, Cars, Kung Fu Panda, Dragon Trainer, Shrek hanno permesso la realizzazione di sequel e spin-off multipli (anche oltre la ragionevolezza), con l’idea che un buon film è come una vena d’oro, da sfruttare fino a quando non si esaurisce.
Tutto ciò, anche senza fare facili moralismi e trasformare questo articolo in una lamentazione ciceroniana, è evidentemente un problema. Già ai tempi di Michael Eisner, controverso CEO della Disney negli anni Novanta (e che probabilmente è l’ispirazione per il cattivo di Shrek) la tendenza a far cassa con sequel e progetti a basso costo era stata stigmatizzata: negli ultimi anni, però, stiamo assistendo a un proliferare inarrestabile di sequel, dovuto anche alla necessità di produrre sempre di più.
Tralasciando cose come i film dei Minions, Trolls e queste cose qui, e parlando di produzioni di altro tipo, il quinto film di Toy Story è molto azzardata, per esempio: quanto si può stiracchiare ancora la stessa storia? Lo stiamo vedendo anche al di fuori del cinema di animazione, con i continui spin-off di Star Wars: per quanto alcune serie, come The Mandalorian, siano forse anche migliori dei film classici, altre, come Obi-Wan Kenobi, sono semplicemente superflue, mal pensate e peggio realizzate.
Gran parte della responsabilità, però, io credo che vada al battage mediatico che sta dietro questi film, compreso quello che rimane della critica e del giornalismo culturale. Spesso, infatti, i successi sono delle profezie autoavveranti, come è accaduto con Inside Out 2. Il clamore che ha suscitato alla sua uscita è stato preceduto da un’ottima campagna mediatica, che ha creato il giusto hype e ha permesso alla Pixar di risollevarsi dai recenti film, Elemental e Lightyear, che non erano andati troppo bene.
La storia è celebre, quindi non mi soffermerò più di troppo: basti dire che Inside Out 2 è il seguito della storia di Riley, una ragazzina di cui seguiamo i pensieri attraverso dei piccoli personaggi dentro la sua testa che rappresentano le emozioni, e questo costituisce l’idea base e la trovata più famosa del film.
Il sequel ha avuto un enorme successo, più ancora del primo. Ed è sorprendente, se lo si analizza più da vicino. Non c’è spazio per soffermarci, ma alcuni difetti sono macroscopici e palesi, primo fra tutti il ripetere quasi pedissequamente la storia del primo film.Inoltre, la struttura è molto prevedibile e basata sul vecchio schema dell’antagonista che conquista il potere ma non sa gestirlo; infine abbiamo l’inserzione, per ben due volte, di un deus ex machina che salva la situazione senza motivo. Eppure stiamo parlando di uno dei maggiori successi di sempre: sembra assurdo, dato che di ottimi film quest’epoca non manca. Ne prendo uno fra tutti ad esempio: Orion e il buio, della Dreamworks, passato totalmente sotto silenzio.
Mi riserverò di scriverne bene in futuro, ma Orion e il buio, che porta la firma di uno sceneggiatore del calibro di Charlie Kaufman (quello di Anomalisa, del Ladro di Orchidee e di Eternal Sunshine of The Spotless Mind, solo per fare alcuni esempi) è un film che compie una delle operazioni più belle e difficili dell’arte: esplorare in modo nuovo le cose banali. Come la paura del buio di un bambino.
La storia racconta di Orion, un bambino molto ansioso, che incontra nientemeno che il Buio, l’incarnazione di tutte le paure, forse la paura stessa, per un bambino. E il buio lo porta con sé, in un lungo viaggio nella notte. La storia è semplice ma non ci sono cliché, né scene trite e ritrite: c’è invece la malinconia dei personaggi che Orion incontra; la malinconia di chi vive nella notte e per la notte, lontano dalla luce, come dei demoni buoni. C’è il vecchio tema del mostro che non è un mostro, ma in realtà ha qualcosa dentro: ma questa volta il mostro non ha una rivalsa, se non accettando semplicemente di essere ciò che è.
Mi è sembrato profetico che un film sul buio sia finito così distante dai riflettori. Non so perché abbia avuto così poco successo rispetto soprattutto ad Inside Out 2. Non so neanche perché li sto confrontando. Forse perché questo presenta un personaggio pressoché identico a quello di Orion e il buio, solo caratterizzato con tratti cattivi e stupidi (provate a capire a chi mi riferisco); forse perché è inevitabile fare paragoni tra due film usciti nello stesso periodo.
Però penso che ci sia anche altro. Forse c’entra il modo con cui guardiamo i film. O il perché li guardiamo. Inside Out 2, infatti, ha dalla sua almeno tre elementi: 1) un film precedente ottimo, basato su un’idea forte e di indiscussa qualità e successo di pubblico 2) dei personaggi assolutamente iconici, cute, perfetti, le cui forme si ricordano a lungo e che sono perfetti non solo per il merchandise, ma per qualisasi cosa, e lo dimostra la valanga di post di instagram da cui siamo inondati 3) la possibilità per tutti di identificarsi con i personaggi e di seguire una storia molto semplice, ma visivamente intensa.
La fruizione di film come Orion e il buio, invece, è molto meno immediata. Nessun adulto, e nemmeno nessun ragazzino, ha più paura del buio; non ci sono colpi di scena (per quanto prevedibili); non c’è della tensione. C’è più la volontà di dipingere un paesaggio. Ed è quel tipo di arte che più facilmente consideriamo noioso, o banale. È difficile vedere un film che non cerca di stupirti in ogni momento, che non ti abbaglia con i suoi colori, che non cerca a tutti i costi di sedurti.
Non so cosa sia meglio. Forse non c’è nemmeno un meglio e un peggio. Non è un match. Però, nel dubbio, io continuo a pensarla come il vecchio Walt: l’animazione dovrebbe portare il livello sempre un po’ più in alto, e non adagiarsi sull’usato sicuro, sul sequel, sulla ripetizione della ripetizione. Dovrebbe dirci proprio ciò che non ci vogliamo sentir dire; dovrebbe toccare quelle corde che ci infastidiscono, o ci turbano. O, magari, in quest’epoca di sovraeccitazione continua, che ci annoiano. Insomma, si può fare di meglio che blandire costantemente il pubblico dandogli esattamente ciò che desidera.
Qual è la caratteristica della nostra società? L’ansia. Qual è il sentimento più diffuso? La paura di non farcela. Ecco, il film è già fatto. È molto più difficile parlare di qualcosa che crediamo non ci riguardi, non ci interessi. È difficile fare un film con sensazioni impalpabili. Forse, in fondo, la differenza è questa: per Kaufman è troppo facile parlare delle emozioni che si possono nominare. Finge di parlarci solo di una, la paura, ma in realtà ci parla di quelle che non ci sono, che si nascondono, che si mescolano. Come il buio, che non è nulla, e può essere qualunque cosa.
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