Affreschi Pompei Satyricon

Viaggio senza fine: i mille volti del Satyricon

«Insieme a Gitone, riposi le nostre poche cose in una sacca e dopo aver rivolto una preghiera alle stelle salii sulla nave[1]».

Encolpio, giovane di buona cultura, è in viaggio con i suoi amanti, il giovinetto Gitone e il più maturo Ascilto, senza una meta ben definita, sullo sfondo di una città della Magna Grecia dai tratti labirintici e piuttosto sommari. Siamo nel Satyricon di Petronio, o meglio, in ciò che ci è rimasto di quest’opera, e i suoi protagonisti sono coinvolti in una serie rocambolesca di eventi, episodi più o meno erotici, più o meno avventurosi.

Il Satyricon è l’unica opera pervenutaci di Petronio, probabilmente uno dei consiglieri più intimi di Nerone, famoso per la sua raffinatezza e il buon gusto, al punto che lo storico Tacito lo definirà “elegantiae arbiter”, arbitro d’eleganza. Probabilmente in quanto non abbiamo una documentazione sicura che il Gaio Petronio della corte neroniana sia proprio il Petronio che scrisse il Satyricon; tuttavia alcuni elementi interni all’opera hanno consentito di collocare la sua stesura proprio durante l’epoca neroniana, tra il 54 e il 68 d.C.

Il testo ci è giunto in frammenti: purtroppo non abbiamo idea di come fosse il progetto originario, in quanto oggi possiamo leggere soltanto quelli che erano i libri  XIV, XV e XVI, peraltro spezzettati e ulteriormente ridotti da diverse lacune. Nonostante ciò la quantità di materiale che ci è pervenuto è abbastanza ampia da farci intuire quanto grande e mastodontica dovesse essere l’opera, e abbastanza ampia da renderla una delle opere più affascinanti e magnetiche della letteratura latina.

Anzi, proprio per il suo essere incompleto, il racconto ci appare come una sarabanda di avventure indiavolate, totalmente parossistiche e ai limiti dell’assurdo. All’inizio dell’opera il trio sfugge alle basse voglie della matrona Quartilla, finendo con il partecipare alla cena dell’opulento liberto Trimalcione e, dopo un turbolento viaggio in mare conclusosi con un naufragio, giungere a Crotone, una città dal grande e glorioso passato ormai ridotta ad un tetro covo di briganti e ladri di dote.

Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.
Il dio Priapo, persecutore di Encolpio. Affresco, Casa dei Vettii, Pompei.

Encolpio incontra tantissimi personaggi, di varia e molto spesso bassa umanità, soggetti che di volta in volta gli rubano la scena, creando dei quadri isolati e indipendenti tenuti insieme solo dalla narrazione in prima persona del protagonista.

Per l’autore il nostro eroe diviene un novello Ulisse: è infatti un pellegrino errante, sbalzato in ogni dove, e costretto continuamente a fuggire; la sua costante ricerca di un lieto fine è sempre frustrata da circostanze avverse. Un Ulisse, però, ben particolare.

Innanzitutto non fugge l’ira degli dei olimpici, ma più banalmente creditori, nemici, vecchie conoscenze e forse vecchi amanti. Infatti Encolpio e Gitone salgono come clandestini sulla nave che li porterà a Crotone e, per non farsi riconoscere, si radono e si tatuano come schiavi. Peccato, però, che la nave appartenga a Lica e Trifena, due personaggi che probabilemente hanno avuto un ruolo centrale nella parte del romanzo a noi perduta, e che non hanno buoni rapporti con i nostri amici. Questi hanno il presentimento di trovarsi davanti proprio a Encolpio e Gitone, ma non li riconoscono subito. Li riconosceranno solo attraverso un espediente:

Trifena, già intimamente convinta che si trattasse di Gitone, accorse rapidamente. Anche Lica, al quale io ero più che noto, accorse. Non mi guardò né le mani né la faccia, ma subito abbassò gli occhi verso il mio affare e palpandolo con mano esperta, disse: “Salve Encolpio[2]“.

Il commento di Encolpio non si fa attendere: «E poi ci si meraviglia che alla balia di Ulisse dopo vent’anni sia bastata una cicatrice per identificare l’ospite![3]». Ulisse viene dunque citato in uno dei momenti di maggiore tensione, ma nello stesso tempo ne risulta ridicolizzato, come del resto il povero Encolpio. E, insieme ad Ulisse, è ridicolizzato tutta la letteratura greca del passato: Encolpio, infatti, è un’anima mitomane, che si esalta e si immedesima negli eroi mitici, un po’ come farà, molto tempo più tardi, il Don Chisciotte di Cervantes.

Affresco Pompei

L’opera presenta quindi una duplice atmosfera: da un lato le avventure, il viaggio senza fine, le peripezie incessanti da romanzo picaresco. Dall’altro, il viaggio si veste di una carica simbolica inespressa e angosciante.

I personaggi del Satyricon, infatti, viaggiano non solo senza alcuna meta ma anche con discontinuità. Il paesaggio nel quale si muovono è evanescente come le quinte di un teatro: i personaggi si incontrano per caso, fuggono perché assediati da problemi imminenti, vanno e vengono negli stessi luoghi, in circolo. Il viaggio quindi diviene simbolo della vita: una realtà imprevedibile e senza alcuna certezza, un crogiolo di volti e sensazioni che non concede pace ai suoi attori.

Sintesi di questo fluire magmatico, di questa fuga da se stessi, è costituita proprio dalla cena di Trimalcione, dove tra le innumerevoli portate e i discorsi faceti si insinua la paura della morte. Il viaggio dei protagonisti, la loro vita, come i piatti che si susseguono sulla tavola del ricco liberto, è satura di inganni volti a nascondere la terribilità dell’incognito, dell’Ade, al quale è destinato pure Encolpio che non conosce il perché del suo viaggiare, sommerso dai suoi timori e dalle sue passioni.

L’imprevedibilità del viaggio, la sua urgenza, consentono di portare con sé solo poche cose, il minimo per sopravvivere. Perseguitato, Encolpio fugge senza fine, scivola da una realtà rocambolesca all’altra, sempre spaventato eppure cupido delle novità che il suo viaggio gli presenta.

 

Leggi anche: Il Satyricon: un labirinto dal doppio volto


Per approfondire:

Petronio, Satiricon, traduzione di Piero Chiara, introduzione di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1969.
G. B. Conte, Letteratura latina – L’età imperiale, Milano, Le Monnier, 2012.
Questo articolo è comparso sul numero 2/2015 della rivista DeSidera
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