René Magritte, La memoria

Du côté de chez Proust

 Una riflessione sull’attività della Recherche du temps perdu

 

È incredibile quanto tempo sprechi Marcel. Sembra che la sua attività principale sia perdere tempo.

(Adrien Proust)

Una volta Jacob Taubes disse che la Fenomenologia di Hegel è un’opera complessa, ma che tutto il suo significato filosofico è nel titolo, basta saperlo leggere. Con la Recherche di Proust vale la stessa considerazione.

La Recherche è un’opera letteraria straordinariamente complessa, con descrizioni interstiziali e innumerevoli dettagli. Comunica la narrazione di una scoperta, complicata da capire in tutta la sua portata, soprattutto perché muove da qualcosa di apparentemente semplice, e al contempo intimamente umano. Dedotto questo, un commento esplicativo della Recherche corre sempre il rischio di diventare banale o incomprensibile: parlare di Proust senza riuscire a farlo capire fino in fondo è facilissimo. Inoltre, come è stato detto, si è scritto più su Proust che su Napoleone.

Lo scopo perseguito in questo articolo produce la violazione del “divieto” indicato da Theodor Adorno (Noten zur Literatur, 1974) rispetto alla lettura della Recherche. La riflessione che segue si propone, infatti, di osservare la “cattedrale medievale” (la Recherche) oltre il “concreto” (la maestosità del romanzo autobiografico) per farne rilevare immediatamente – ed ex abrupto – “le sue ricche decorazioni nascoste” (la sua filosofia).

Ammettendo che si possano mettere tra parentesi: la sopraffina, e brutalmente veritiera, analisi sociale, l’enciclopedismo, l’estetismo, il prospettivismo che rende poliedrico il carattere dei personaggi, e il contenuto narrativo della storia autobiografica. Concentrandosi esclusivamente sulla emersione del tema oggetto del romanzo e dell’attività filosofica con cui è trattato, che è sfondo e scopo di quella letteraria nella Recherche, si può dire che alla fine della sua opera monumentale, diventa comprensibile il senso del lavorio anamnestico di Proust. Un tentativo che appare folle già nelle sue premesse ideali, quello di ritrovare nei meandri della propria mente le tracce esistenziali di una intera vita, al fine di infilarsi nel meccanismo del Tempo per comprenderlo dall’interno a partire dagli effetti che produce sulla memoria organica dell’esistere umano. Alla fine del romanzo che chiude la Recherche, Le temps retrouvé, Proust rincontra, ad una festa, persone che conobbe in momenti diversi della sua esistenza, e ne parla come di “bambole immerse nei colori del tempo”. Oltre alle tre dimensioni dello spazio, ogni uomo, è occupato dall’immensa dimensione di quel tempo che si porta dietro ovunque va, in cui si trovano tutte le trasformazioni, i pensieri e i desideri, che hanno costituito la sua presenza nel mondo della vita.

Marcel Proust
Marcel Proust

Nel monologo interiore che conclude la Recherche, in cui la labile distinzione tra l’io drammatico e l’io dell’autore decade completamente, Proust scrive:

D’altronde che noi occupiamo un posto continuamente accresciuto nel Tempo lo sanno tutti, e questa universalità poteva solo rallegrarmi, perché è la verità, la verità sospettata da ognuno, che io dovevo cercare di delucidare […] Provavo un senso di stanchezza e di sgomento nel sentire che tutto quel tempo, così lungo, non solo era stato interrottamente vissuto, pensato, secreto da me, che era la mia vita, che era me stesso, ma che inoltre dovevo tenerlo ogni momento attaccato a me, appollaiato com’ero alla sua cima vertiginosa [..] quella dimensione enorme che non sapevo di avere.

(Il tempo ritrovato, Newton Compton, 1990, p. 287)

Questa è la scoperta che fa Proust: la totalità del nostro tempo vissuto è, in ogni attimo, la cima da cui continuiamo a vivere, nel fluire del tempo, fatta di pensieri e desideri rammemorati insieme all’interiorizzazione delle esperienze vissute che, tutte, sono noi stessi e da cui siamo inseparabili. Il tempo è “secreto” dalle persone, cioè esso esiste in virtù della presenza della vita individuale, come la propagazione che essa produce e di cui è al contempo il prodotto esistenziale. Il Tempo è quella dimensione che è prodotto e scrigno dell’esistenza personale di un essere umano. Proust scopre che la vera vita di un uomo è quella interiore, in cui, come diceva Agostino, scandiamo il tempo vissuto che siamo noi stessi. La realtà esteriore in cui mangiamo, guardiamo, parliamo, etc. è un agglomerato insensato e privo di valore, senza i nostri pensieri e i nostri desideri che riemergono ciclicamente nell’arco della nostra vita nell’immemorarne il ricordo. Quell’attività con cui cerchiamo il senso della nostra vita, ci dice Proust, non è il ragionamento, ma l’immemorare le tracce esistenziali interiori dei pensieri e dei desideri che colorano dei “colori del tempo” le nostre esperienze vissute prodotte e contenute nel nostro tempo. Proust è convinto che il passato non è quello del tempo cronologico “della natura e del mondo”, ma che esso esiste solo nel ricordo, come tempo della memoria.

Questa visione interiore del tempo porta con sé il discrimine tra il tempo della Fisica aristotelica e quello agostiniano. Ma il più essenziale insegnamento che Proust ci ha donato è un monito che coincide con la sua più grande scoperta. Dobbiamo stare attenti a come usiamo il nostro tempo, perché è lì che ci capitano le cose, è in esso che agiamo, e tutto ciò che compone la nostra vita nel tempo, sono tracce che non ci abbandoneranno mai e ritorneranno sempre nella nostra interiorità. Questa esortazione alla prudenza, alla circospezione, all’astensione, ma anche al coraggio di agire, non ha soltanto una valore universale come regola morale per la nostra condotta, ma anche il ruolo salvifico dal rimpianto, dal senso di colpa. In questo senso, la Recherche è un formidabile esercizio di cura contro la depressione e la tristezza interiore, che ci sopraggiunge dalla voce della coscienza nell’immemorare. Essa prevede la coscienza morale dell’integrità nell’agire, ma anche la regolamenta in vista della prosperità interiore, se capiamo la potenza benefica e distruttrice a un tempo che l’immemorare esercita nella nostra vita.

Proust ci dice che quando guardiamo un uomo o una donna dobbiamo essere capaci di vedere nei loro pensieri che ci si mostrano con i loro sguardi, un cumulo di molteplici pensieri e desideri antichi che essi rimandano alla mente costantemente mentre parliamo con loro, ispirati da un luogo, da un dettaglio sensibile, o dalle nostre stesse parole. La dimensione del tempo si rende visibile in questo modo. Solo cosi abbiamo un reale accesso alla temporalità dell’esistenza umana, e la osserviamo davvero.

Giovanni Boldini, La divina in blu, 1905
Giovanni Boldini, La divina in blu, 1905

La matinée Guermantes, il campanile di Combray, il cicaleccio lezioso, le incomprensioni snob, e le pose educate degli aristocratici Verdurin e dei loro “fedeli” nei salotti mondani, il sentiero dei biancospini, è tutto guscio, tutta superficie, ma sono soprattutto la temperie socio-culturale e l’ambiente geografico in cui i pensieri e i desideri di Proust sono esistiti, e i luoghi spazio-temporali che rievocano il loro ricordo, facilitando l’attività dell’immemorare pensieri e desideri ingenerati nelle vicende custodite nel tempo di una vita. Che i luoghi vissuti facilitano l’immemorare è un fatto di cui facciamo esperienza continuamente, ed è detto bene da Quintiliano:

È un aiuto per la memoria se i luoghi sono bene impressi nella mente, e questo ognuno può crederlo sulla base dell’esperienza. Infatti, quando facciamo ritorno in un luogo dopo qualche tempo, non solo ravvisiamo il luogo stesso ma anche ricordiamo ciò che vi si fece, e tornano alla mente anche le persone e i pensieri inespressi.

(Institutio oratoria, XI, 17-19)

È chiaro che bisogna vivere un po’ prima di poter immemorare, dare il tempo ai pensieri e ai desideri vissuti di manifestarsi più volte. Cosi come è altrettanto lampante che il segno del proprio vissuto è anche quello lasciato dalle azioni compiute, dalle opere fatte, dalla posizione professionale raggiunta, etc. Ma, per Proust, la vera vita individuale e personale è quella dei pensieri e dei desideri, ovvero quella interiore, che può essere raccolta e ricostruita solo nel lavorio faticoso dell’attività dell’immemorare nell’introspezione, e che, quindi, solo questa attività è funzionale, per ciascuno, alla euristica del senso della propria vita personale.

Proust è incredibilmente consapevole del fatto che non è il tempo che si muove, ma siamo noi a muoverci, la singola esistenza personale di ciascuno, la crescita che distacca il vissuto, l’incedere dell’esistenza umana. Come dice A. J. Ayer:

Gli eventi non sono in se stessi né passati, né presenti, né futuri. In se stessi stanno in rapporti di precedenza temporale che non cambiano con il tempo. […]. Ciò che varia è solo il punto di riferimento che viene assunto come costituente il presente. Ogni evento passato è stato in tempi diversi sia presente sia futuro; ogni evento futuro sarà presente e poi passato. Ma questi fatti non danno luogo […] ad alcuna contraddizione, né costituiscono una scusa per fare discorsi insensati su di una molteplicità di dimensioni temporali. La spiegazione di essi sta solo nel fatto che il punto di riferimento che viene presupposto dall’uso dei tempi dei verbi si sposta continuamente. Il passare del tempo è costituito proprio da questo spostamento del punto di riferimento in direzione dal prima al poi, e non da qualche cambiamento della relazione temporale degli eventi. Dire le temps ne s’en va pas, mais nous nous en allons non costituisce solo un buon epigramma, ma è un’analisi accurata dei fatti.

(A. J. Ayer, Il problema della conoscenza, pp. 160-161).

Ciò spiega temporalmente la ragione per cui il ricordo è vivido e per cui la memoria involontaria attraversa una miriade di anni facendo riaffiorare un singolo evento in modo nitido, come se lo stessimo riassaporando: il tempo è li, fermo, non è il fluire che ci appare dalla cronologia degli eventi. Ma ciò che lo rende fermo è il vissuto finito, passato, di un pensiero fatto, di un desiderio provato, e di una esperienza vissuta.

René Magritte, I riflessi del tempo, 1928
René Magritte, I riflessi del tempo, 1928

Questo aspetto, essenziale per comprendere Proust, è illustrato in modo efficace da Edmund Husserl:

Ogni «ora» attuale produce un nuovo punto d’oggetto che, nel flusso della modificazione viene mantenuto come quel medesimo ed unico punto individuale dell’oggetto. E la continuità nella quale il nuovo «ora» si costituisce sempre di nuovo, ci mostra che non si tratta in generale di una “novità”, ma di un momento continuo di individuazione nel quale il flusso ha la sua origine. È nell’essenza del flusso modificatore che tale flusso sussista identico, e necessariamente identico. L’«ora», come «ora» attuale, è la datità del posto temporale nella presenza. Quando il fenomeno si sposta nel passato, l’«ora» acquista il carattere di «ora» trascorso, ma resta lo stesso «ora» anche se, in relazione a quello che è via via attuale e temporalmente nuovo, risulta passato.

(E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di A. Marini, Angeli, 1981, pp. 94-95).

Come sanno tutti, nel tempo che scorre, a esseri intelligenti, consapevoli e ricettivi come noi capitano una miriade di cose e viviamo un numero incalcolabile di esperienze coscienti e non coscienti. Siccome il ricordo si distingue dalla percezione immediata, ricordarsi tutto a comando non risulta possibile. Per dirla con Piana:

Una decisione rievocatrice sta ancora del tutto al di qua della rievocazione ed essa non è affatto in grado, di per se stessa, di spalancare la porta che chiude l’aula della memoria.

(G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, p. 88).

Lavorare sulla memoria è già per questo un lavoro estenuante pieno di buchi nell’acqua. In più la psicologia ci dice che esiste il “falso ricordo”, che la nostra mente manipola, ritocca ed elabora la registrazione del vissuto interiore cosciente, alterandolo. Così ogni autobiografia non può che essere un racconto romanzato, se la si pretende, per autenticità, una autorità documentale, come sottolinea accuratamente Maurizio Ferraris.

L’idea dell’autobiografia come ricreazione della vita e come redenzione del passato non si fonda sulla mimetica della realtà storica, del tempo perduto, ma viceversa su un’alleanza tra la finzione romanzesca e l’autobiografia come ricreazione della vita. La vita realmente vissuta, la realtà fenomenica è, non meno che la scienza, un semplice inganno. […] per trovare l’autentica realtà, si tratta di tentare le nozze tra la realtà dell’arte e la vita ricreata artisticamente in una autobiografia ‘romanzesca’

(M. Ferraris, Ermeneutica di Proust, 1987, p. 93)

René Magritte, Memoria
René Magritte, La memoria, 1948

«La vita realmente vissuta, la realtà fenomenica, è un semplice inganno», pensa Proust, perché la verità non va ricercata nelle azioni e nei pensieri, negli eventi e nei desideri per loro stessi nel momento che avvengono. In essi non c’è niente da capire, sebbene siano veri, dotati di senso e pieni di emozione, magari. La verità si trova al di là del semplice “vissuto” come vissuto del tempo perduto (ciò come singoli pensieri, desideri, eventi) ma nelle azioni e nei pensieri, negli eventi e nei desideri considerati nella loro temporalità in quanto sempre riaffioranti nell’immemorare di chi li ha vissuti. Questo immemorare è quello del nunc stans dell’attimo vissuto eternizzato che viene riscoperto come ciò che si é conservato nel tempo immutato e sempre li presente. È li che si può rintracciare la verità del proprio vivere, e quella che si rivela nell’immemorare é la vita vera di una persona. In ciò che Plotino chiamava “aion en stasei” l’eternità dell’attimo che é sempre in quiete, cioè, che, rimanendo cicatrizzato con i pensieri e i desideri che gli appartengono non si modifica, e che quindi é ciclicamente disponibile all’attività dell’immemorare.

È per questo che nella recherhe du temps perdu non c’è traccia di nostalgia, perché il ricordo è sempre attingibile, è lì per noi, per ognuno che immemora il proprio vissuto con la dolcezza, il rimpianto, la tristezza legati ai pensieri e ai desideri che ha provato in quell’attimo immobile ed inesausto al pensiero che continuamente rammemora nella sua quotidianità. La nostalgia è un’aggiunta sentimentale del pensiero che valuta il ricordo a partire dalla mancata realizzazione dei pensieri e desideri a cui essi appartengono nell’ora dell’immorare, aleatorio e insensato come un lancio di dadi nel destino di una vita che non è ancora finita.

Sebbene la natura intelligibile dell’attività dell’immemorare e dei suoi oggetti (i ricordi) possa mostrare della affinità con la reminiscenza di Platone, le due cose si distinguono. l’immemorare è differente dalla reminiscenza platonica perché essa è un attività che ha come oggetto il vissuto immanente all’esistenza empirica, che quindi non prevede una anamnesi di oggetti metafisici. Di metafisico nell’immemorare vi è solo l’estasi della visione in cui ci appare il ricordo insieme ai pensieri e ai desideri legati al periodo della nostra vita da cui il ricordo si riattualizza nell’ora.

Ciò resta complicatissimo da capire solamente fintanto che si ragiona nei termini psicologistici per cui la possibilità di disporre completamente e sempre di ricordi autentici del proprio vissuto è negata all’essere umano, proprio a causa del funzionamento naturale della propria mente. Fintanto che si pensa, biologisticamente, che la funzione della memoria sembra avere scopi evolutivi e non psicologici individuali o coscienziali. Se si ritiene corretto pensare che emozioni legate ai ricordi di esperienze vissute, al pari dei desideri e dei pensieri che li abitano, non hanno a che fare con lo stato d’animo individuale, ma con l’autoconservazione della persona, e quindi trovare un senso nei ricordi è un’operazione ermeneutica che non solo non è richiesta dalla nostra natura, ma che va contro di essa. Pensando cosi il tempo e la memoria, a rigore, l’attività della recherche du temps perdu farebbe di Proust un uomo in lotta contro la proprio psiche e contro la natura umana biologica. È vero che Il passato vissuto, per la maggior parte, è qualcosa che ci lasciamo alle spalle e che rivive in noi come l’affiorare di sé stesso nel presente attraverso il ricordo. Ci è utile per rammentarci come fin ora abbiamo vissuto, per evitare gli stessi errori. Come la saggezza della lingua tedesca sa bene, però, il passato può essere considerato sia come “ciò che è andato”, sia come “ciò che é stato”. Proust rende conto di questa distinzione con l’attività della recherche du temps perdu.

Proust ambiva lasciare una testimonianza fisica con la Recherche dell’idea che la scrittura, o meglio, lo Scritto, diventa la dimora di ciò che é stato e veicolo di una rivoluzione della coscienza individuale del lettore.

Il luogo in cui il contenuto che riempie un certo momento, non si perde ma rimane custodito, immune dallo scorrere del tempo che, altrimenti, lo condanna all’oblio. Un’operazione squisitamente storica, per cui l’intelletto che ha appreso l’attività della recherche, fissa nello Scritto ciò che non è ancora “andato” di ciò che “è” nell’attimo fuggevole, fa sì che “ciò che è stato” si ritrovi tra le parole lette nello Scritto (e quindi nel riaffiorare della memoria).

Marcel Proust
Marcel Proust

Cosi scrive Proust:

Infine, quell’idea di tempo aveva per me un ultimo pregio, era un pungolo, mi diceva che era tempo di cominciare, Se volevo ottenere quel che avevo a volte presentito nel corso della mia vita, in brevi lampi, dalla parte di Guermantes, nelle mie passeggiate in carrozza con la signora di Villeparisis, che mi avevano fatto stimare la vita degna di essere vissuta. Quanto più mi sembrava tale, ora che credevo potesse essere illuminata, la vita che viviamo nelle tenebre, ricondotta alla sua verità, insomma realizzata in un libro!

(Il tempo ritrovato, p. 276)

Proust porta per mano il lettore ricostruendo nella sua biografia romanzata come è insorta il lui la sua scoperta e perfino come ha intenzione di narrarla, quindi dando una struttura circolare al romanzo: le acquisizioni teoriche della fine del testo aprono all’inizio della sua stesura. Il romanzo è la storia di questa scoperta nel suo affermarsi nella storia della sua vita, che vale come exemplum universale della vita di tutti e di ciascuno, in cui Proust vuole sollecitare tale scoperta. La matinée Guermantes, il campanile di Combray, etc. sono sostituibili con altri luoghi ed altri eventi: quelli personali della vita di ciascuno. Il lettore deve sostituire i luoghi e gli eventi narrati da Proust con quelli che hanno segnato la sua vita. Qui sta la grandezza. Nel fatto di aver scritto un romanzo che racconta il comporsi di una visione dell’esistenza umana generatasi in modo talmente realistico da essere la scoperta fatta nella sua stessa vita, che è al contempo scopribile universalmente da ciascuno immemorando la propria. Proust è consapevole di parlare di tutti e per tutti, mentre parla di sé. È consapevole dell’intento del suo romanzo: quello di far scoprire a ciascuno la medesima verità, al contempo particolare e universale.

In questo senso è fecondo per la comprensione dell’attività delle recherche du temps perdu, il giudizio di Adorno secondo cui nella Recherche il particolare (la vita di Proust) è l’universale (la vita di tutti). Ciò implica anche che la struttura e il contenuto della Recherche investano anche la relazione dell’uno (la vita particolare di Proust) e dei molti (la vita di ciascuna persona). Con una grande differenza, però. Mentre l’intelletto di ciascun uomo per natura rievoca e rammemora senza chiedersi come mai, l’intelletto di Proust ha saputo scoprire la ragione del suo rammemorare: la dimensione Tempo che ci determina.

Analizzando la questione sul piano filosofico, Proust vuole fissare nello Scritto ciò che é già passato, ma non andato, e per farlo deve imparare il pensiero rammemorante, cioè l’operazione dell’“immemorare” che contrasta il tempo come fluire incessante che reca con sé l’oblio di ciò che è andato trasformandolo meccanicamente in temps perdu. Ciò che é stato è ciò che, essendo ora passato, determina la nostra essenza in quell’ora del presente in cui tale passato viene dapprima presentito in momenti fugaci come una visione estatica, e dopo, attraverso l’attività rammemorante della recherche du temps perdu, ricostruito da chi l’ha vissuto come il proprio vissuto, in cui è custodito il senso e il valore della propria vita.

Quindi l’«ora» è il punto in cui si osserva la potenza foggiante dell’io del tempo trascorso nelle sue fasi attraverso l’analisi esistenziale dell’immemorare. Lo scopo della recherche è ritrovare il tempo perduto, proprio in questo modo. Il tempo perduto è quel tempo che non è percepito davvero, che non è considerato nella nostra vita come la quarta dimensione che abitiamo e che ci condiziona e determina attraverso l’immemorare del ricordo del pensiero, del desiderio e dell’esperienza che incessantemente riaffiorano. Capita a tutti, ma non gli si dà molto peso. Proust ha deciso di dargli importanza.

René Magritte, Il tempo passato, 1966
René Magritte, Il tempo passato, 1966

Nella concezione proustiana del tempo e della memoria è rinvenibile la dottrina ciclica dell’eterno ritorno nietzscheana osservata dal versante antropico. Poichè, infatti, il desiderio, i dolori, i piaceri, e il pensiero sono attività illimitate e sincroniche, mentre le cose pensate, sofferte, godute, e desiderate sono limitate e finite dal fatto di essere state già definite nel tempo passato, l’attività rammemorante dell’immemorare fa ricordare i pensieri, i dolori, i piaceri, e i desideri già vissuti, in modo ciclico e ripetitivo in ciascun «ora». Ma anche il fatto che questi stessi pensieri, dolori, piaceri e desideri sono il nostro tempo interiore che dà vero senso alla esperienze vissute nella realtà esteriore fenomenica, nel tempo fisico della natura e del mondo, che di per sé scorre vuoto e insensato, e reso esistente, come ci insegna la relatività di Einstein, solo negli eventi che le innumerevoli interazioni con persone e cose producono con sé. Esse acquistano il loro senso nell’attività dell’immemorare. Questa scoperta Proust la fa attraverso la meditazione sulle sue impressioni interiori rese note nella scrittura di una autobiografia romanzata, cioè un racconto, della cui natura, già Callimaco, ne evidenziava la potente persistenza nella vita della mente.

E infatti tutti i fulvi lussuosi profumi che allora mi cosparsi
sul capo insieme con le ghirlande odorose
quelli in breve rimasero privi di aroma, e le vivande
che oltrepassarono i denti e discesero fino al basso ventre ingrato,
anche di quelle nulla rimase fino all’indomani: ma le storie
che posi nelle mie orecchie, queste soltanto ancora mi restano

(Callimaco, Aitiai, 43, 12-17)

Come detto, Proust ambiva a perpetrare una rivoluzione della percezione coscienziale della propria vita e di indurla nei lettori rispetto alla loro. La propria vita ricostruita nella “mezza” finzione del romanzo è, al contempo, la sua vita e la vita di tutti quanti. In questo senso la Recherche è un’opera universale. Da questo si capisce che Proust era mosso da quella pulsione che Carlo Bo definì un “bisogno di verità”, che, in effetti, lo ha guidato nella stesura della Recherche come una sorta di demone socratico. Lo scopo del romanzo è, quindi, combinatamente filosofico, veritativo ed universalmente euristico. Proust aveva il proposito di suggellare un cambiamento esistenziale nelle persone: che capissero/scoprissero ciò che è davvero l’esistenza umana.

A spingere Proust in questa impresa titanica, estenuante, e totalizzante è stata la scoperta e la valutazione della memoire involontaire con il celeberrimo episodio della madeleine. Proust cominciò a riflettere sul funzionamento della memoria umana, con l’intento di riuscire a generare il proprio “immemorare” nello Scritto che ritrova il proprio tempo perduto.

In modo molto acuto Walter Benjamin si rese conto che il lavoro svolto da Proust fu una lotta contro la vita quotidiana, che fa i favori dell’oblio quando rimuove i ricordi di tutto ciò che non è utile a un certo fine, ed è per questo che Proust lavorava di notte in una stanza rivestita di sughero isolata dai rumori del frenetico e non percepito scorrere del “tempo perduto” parigino. Scrive Benjamin:

…infatti il giorno scioglie ciò che ha prodotto la notte. Ogni mattina, appena svegli, teniamo in mano perlopiù debolmente solo qualche frange del tappeto della vita vissuta, tessuto in noi dall’oblio. Ogni giorno, con le sue azioni vincolate a scopi e soprattutto con i suoi ricordi assoggettati a dei fini, disfa le decorazioni dell’oblio. Per questa ragione Proust decise infine di trasformare i suoi giorni notti.

(W. Benjamin, Zum Bilde Prousts, 1929)

René Magritte, L'annunciazione, 1930
René Magritte, L’annunciazione, 1930

Lo scopo di Proust, come si potrebbe pensare, non è quello di guadagnare un ricordo infallibile e completo di tutto il proprio vissuto, trasformandosi in un uomo simile al Funes di Borges che racconta per filo e per segno la propria biografia. A Proust interessò lasciare un segno materiale, lo Scritto, per mostrare come funziona la memoria umana quando «getta le reti nel mare del temps perdu» e per far comprendere il senso e il meccanismo del tempo, che tra ricordo e oblio è perduto e ritrovato. Dare spazio al tempo, invece di percepirlo come flusso costante inarrestabile, tentare di catturare una semantica della vita personale nei segni esistenziali che lascia il suo esserci.

Proust ha voluto dare forma a un modo possibile di percepire il tempo, diverso da quello della medietà quotidiana. In questo senso con grande acume Jacques Rivière disse che Proust e Freud inaugurano un “nuovo modo di interrogare la coscienza”. Cioè come il peso dei desideri e dei pensieri si riconfigurano intendendo il tempo come il luogo delle tracce esistenziali di nuovo sempre rammemorate: un pensiero o un desiderio non finisce mai; non esaurisce la sua vitalità nell’attimo in cui è pensato o espresso, ma riaffiora nella mente moltissime volte. La vita è, quindi, fatta di pensieri e desideri che riemergono nello scorrere del tempo attraverso l’immemorare. Il temps perdu non è il tempo perso come lo intendiamo noi nell’accezione del trainspotting. Quello forse è proprio il tempo che consente al tempo di sfuggirci, che ci impedisce di fare sempre di nuovo il punto sui ricordi dei nostri pensieri, desideri e vicende passati. Quando Proust parla di temps perdu, invece, intente proprio il contrario di questo, ovvero il tempo vissuto (agito, esperito) non considerato. Il non dare la debita importanza alle vicende, ai pensieri e ai desideri che hanno costituito il nostro tempo di vita, che quindi, sottovalutandolo, abbiamo perduto. Perdendo noi stessi. La risposta di Proust al problema della perdita di sé è il suo Bildungsroman della memoria, in cui la memoria conta più del protagonista e la sua comprensione filosofica per ciascun lettore, ancor di più di entrambi.

È il comportamento tipico della vita mondana stigmatizzata da Proust, ma anche di quella vita vissuta nell’assorbimento dalle questioni quotidiane orientate a fini precisi calcolati. Quelle questioni che sono il più grande nemico dell’immemorare, che celano l’io dal suo vero sé stesso occultandone i pensieri pensati, i desideri provati, e le vicende vissute. I quali però, zampillano in quei momenti di pausa dal quotidiano, nell’ozio, nelle conversazioni amicali, irrompendo nel flusso continuo e inarrestabile del pensiero. Proust sa che l’immemorare è la conclusione di un lavoro certosino di osservazione minuziosa dei dettagli nei particolari, da questa osservazione mentale ed emotiva si può distillare la legge universale e una “filosofia infinita”, il particolare nella sua totalità coincide con l’universale, è questo che rileva Adorno, e non tanto il rapporto uno-molti che intercorre nella narrazione di una vita universalizzata. La Recherche è, quindi, a suo modo, la narrazione dell’esperienza della coscienza segnata dalla meraviglia e dall’entusiasmo della percezione dell’oltre di ciò che è il mero oggetto dato nel particolare, seguita dallo sforzo della scoperta di questo ‘oltre’ che ama celarsi alla coscienza e per il quale la spiegazione raziocinante e logica risulta inefficace, per questo Proust scrive, ad esempio, questo:

E, vedendo sull’acqua e sul muro un pallido sorriso di risposta al sorriso del cielo, gridai con tutto il mio entusiasmo, brandendo l’ombrello chiuso: “zut, zut, zut, zut” ma nello stesso tempo sentire che sarebbe stato il mio dovere non accontentarmi di quelle espressioni opache e cercare di vedere più chiaro nella mia estasi,

(Recherche, I)

E anche :

Constatando, notando… Lo spostamento delle loro linee, il distribuirsi della luce solare sulla loro superficie, sentivo di non venire a capo della mia impressione, capivo che c’era qualcosa dietro quel movimento, dietro quella luce, qualcosa che essi sembravano contenere, allo stesso tempo, nascondere… Ebbe un pensiero che non esisteva in me l’istante prima, che si formulò in parole nella mia mente, il piacere che poco prima mi aveva causato la loro vista ne fu talmente accresciuto che, preso da una sorta di ebrezza, non poter più pensare ad altro

(Recherche, I)

Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto

Senza però che queste narrazioni ricevano poi una interpretazione teorica o che vengano fatte oggetto di un ragionamento più profondo di tipo filosofico. Si tratta di frammenti osservativi in cui l’autore cerca di rendere conto della propria percezione dell’oltre che si cela al di là dell’esperienza sensibile semplicemente vissuta li per li.

La scrittura è, innanzitutto la narrazione di un presentire, e poi uno dei due mezzi per far insorgere nell’ora il tempo trascorso mediante il ricordo, essa muove da un ricordo, ma non é che Proust pensava a fondo una serie di ricordi e poi li scriveva, questi ricordi affioravano nell’attività della scrittura stessa. Come quando scriviamo il nostro diario di memorie. L’impianto narrativo della Recherche, però, non segue gli stilemi del diario, ma è invece la narrazione sussidiaria di una scoperta della coscienza. Lo Scritto non è quindi una testimonianza storica ai posteri come un documento medievale con la bolla papale. È, soprattutto, il luogo in cui la memoria lascia una traccia tangibile della propria esistenza nel tempo mediante la stesura dei ricordi. La memoria involontaria ha la potenza invece di far riemergere un determinato tempo del passato senza rievocarlo parlando o scrivendo. È la memoria emozionante, per cosi dire, quella memoria che fa tornare alla mente in modo tanto nitido quanto enigmatico un evento passato anche da molti anni, senza uno scopo e senza sollecitazioni intellettuali del ricordo, ma per via sensuale: un odore, un colore, un sapore, un suono.

La memoria involontaria ci fa capire che viviamo come entità temporali immersi in una sensibilità che registriamo nonostante il suo costitutivo fluire trasformativo. La memoria è quindi il luogo dove vanno a finire le impressioni fugaci, i momenti vissuti svaniti nel labirinto del tempo, che l’immemorare fa riemergere come eternati e mai svaniti. L’immemorare è l’attività che scopre il ricordo come antidoto all’oblio dei pensieri, delle sensazioni e dei desideri vissuti nelle esperienze che abbiamo passato, che resiste alla vacuità, essa è l’attività che ci fa comprendere come la vita della coscienza sia immune alla legge di Eraclito, in quanto suo opposto.

Per questo il ricordo ci emoziona, perché ci fa capire che cambiamo vivendo, che abbiamo vissuto, che le tracce esistenziali del nostro vissuto sono sempre li a nostra disposizione nella coscienza, e che non é un eterno presente la nostra vita con cui dobbiamo avere a che fare per crearci un futuro, ma la totalità del nostro tempo vissuto. Oltre alla consapevolezza di essere presenti ora, c’è anche e soprattutto, in ognuno, ciò che siamo stati, qualcosa che nessuno ci può togliere o può stravolgere, la certezza di esserci stati e di aver vissuto qualcosa che ci ha fatto provare quel desiderio o fare quel pensiero, che siamo cambiati, è la certezza del tempo che nell’immemorare sottraiamo all’oblio. Proust vuole invitarci a non perdere di vista questo senso anamnestico del tempo, a coltivare il “martirio dell’immemorare”, come lo chiama Walter Benjamin. Ecco il senso di ciò che intende Proust quando scrive che lo scopo del suo romanzo è di  «fornire un paio di occhiali a lettori futuri – per leggere in se stessi».

Charles Lenoir, Alla ricerca del tempo perduto
Charles Lenoir, Alla ricerca del tempo perduto (dettaglio)

Ma a che pro?

Sembra che considerare cosi il tempo e la memoria sia una perdita di tempo perché non ha di vista fini pratici nel presente. Il tempo é utile se misurato in vista di un fine, altrimenti è velleitario ogni pensiero su di esso; la memoria serve se ci fa ricordare un impegno o le nozioni che abbiamo imparato della professione che svolgiamo. Ma, si potrebbe rispondere, “Perché, tra amici, raccontiamo il ricordo di un nostro vissuto?” Perché siamo naturalmente disposti a ripassare con la mente sulle nostre tracce esistenziali ogni giorno?

Perché l’umano non può non ricordare, rievocare, il tempo in cui egli stesso è stato. Quella del ricordare è una tensione tutta antropologica, un comportamento autotelico che non mira a nessun obiettivo preciso che non sia la profonda consapevolezza dell’esserci e dell’esserci stati che emoziona e meraviglia, intristisce e produce nostalgia, e rende la vita “degna di essere vissuta”. Ogni uomo rammemora, Proust ha deciso di farlo in grande stile, lasciando anche un segno tangibile del funzionamento dell’immemorare, nello Scritto. La Recherche è quindi un manuale del rievocare rammemorante che salva la vita al tempo (e quindi alle donne e agli uomini), rendendolo non-perduto nella sua dimensione umana, quella quarta dimensione “interiore” che é la scoperta vertiginosa di Proust e che può essere pienamente considerata la scoperta salvifica che ciascuna persona deve fare, per esistere davvero.

È proprio della anamnesis rievocare il ricordo che fu, il ricordo passato di un vissuto non mai dimenticato e sempre lì pronto a riemergere nel presente della vita della persona, qualcosa che non si cancella, che non viene meno, ma che perdura a lungo, tanto quanto è lunga l’esistenza della persona che ha vissuto questo tempo passato, che è il proprio, e che quindi può rammentare e immemore all’improvviso.

In un contesto iper-infomatizzato come quello attuale, e a causa degli enormi problemi del mondo contemporaneo, la quiete cerebrale necessaria per il raccoglimento introspettivo è diventata breve e rara, e perciò si depotenzia notevolmente la capacità dell’attività dell’immemorare, perché viene meno anche la custodia dei propri ricordi, l’interloquire con essi, e l’interrogazione di essi. La nostra vita interiore viene riempita da una sfumata gamma di emozioni e sentimenti, nel peggiore dei casi dal dolore psicologico della disperazione depressiva, ma è rarissimo che l’io contemporaneo in essa ospiti, e protragga a sufficienza, il raccoglimento della meditazione sui ricordi. Sebbene la nostra psiche non sia cambiata rispetto al rammemorare, i ricordi o vengono fatti defluire o svolgono la funzione di venirci in soccorso momentaneamente, per poi essere ricacciati nel vortice di oblio della nostra memoria, da cui spontaneamente continuano imperterriti a fare sparute e potenti irruzioni à la amarcord.

Non trovando il tempo per rimuginare e meditare su di essi, per i contemporanei i ricordi svolgono un intervento tecnico sul comportamento e sulla decisione. Troppo impegnati, troppo occupati dalla frenesia delle vicende presenti che informano la nostra esistenza quotidiana, da essere costretti dalle circostanze a fare valutazioni sommarie, in quanto tempestive, del nostro vissuto rammemorato, e quindi ad essere piuttosto in balia delle reazioni inconsce istantanee nel comportarci con noi stessi e con gli altri, a sfruttare solo la sedimentazione non-conscia delle nostre esperienze vissute. Proust ci ingiunge di comportarci altrimenti con il nostro tempo e con la nostra memoria.

 

In copertina: René Magritte, La memoria, 1928


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