Siamo nel 1942, la Seconda Guerra Mondiale infuria, il tallone di ferro nazista piega tutta l’Europa, la Francia è occupata. Marc Bloch, storico di lungo corso, fondatore con Lucien Febvre della rivista Annales d’histoire èconomique et sociale, è escluso, in quanto ebreo (anzi: di origini ebraiche), da ogni funzione pubblica.
In questi anni drammatici, prima di imbracciare le armi come partigiano antinazista, egli «cerc[a] di organizzare la [propria] attività intellettuale[1]». L’esito è una serie di appunti, sistematizzati e pubblicati soltanto nel dopoguerra da Lucien Febvre, in grado di condensare tutti i problemi che avevano attraversato la discussione epistemologica dalla metà dell’Ottocento in poi. Stiamo parlando del celeberrimo Apologia della storia o Mestiere di storico.
L’Apologia della storia è stato spesso definito un testo di metodologia dell’indagine storica. È una definizione riduttiva. Bloch non è mai un pensatore astratto che tratti la materia della sua indagine prescindendo dall’oggetto dell’indagine stessa. E “l’oggetto“ dell’indagine storica non sono dei concetti come gli “eventi” o i “fatti”. Ma non è nemmeno – come vuole una concezione molto diffusa – il “passato”. Scrive Bloch: «l’idea stessa che il passato in quanto tale possa essere oggetto di scienza è assurda[2]».
L’oggetto dell’indagine storica è l’uomo. Anzi gli uomini, come precisa nel corso del testo: uomini in carne e ossa, che provano dolore e gioia, che agiscono, modificano il mondo, si organizzano collettivamente… L’oggetto della storia sono gli uomini nel tempo. Anzi, per meglio dire, la storia è la «scienza degli uomini nel tempo[3]».
Una scienza però strana, il cui statuto sembra irriducibile a quello delle “scienze dure”, “naturali” (fisica, chimica, ecc.). Anzi, a tal punto se ne distanzia tanto che pare persino impossibile definirla una scienza. Eppure…
Eppure, ad una più attenta considerazione, ci si rende conto del carattere puramente pregiudizievole di questo genere di affermazioni. Facciamo un esempio. La geologia studia la storia della Terra. È una scienza naturale o umana? Tutti risponderanno prontamente che è una scienza naturale. Ma ipotizziamo che si debba studiare l’insabbiamento di un golfo, insabbiamento frutto della costruzione di alcune dighe. Sarà ancora compito della geologia?
Qualcuno dirà di sì, poiché un golfo è parte della crosta terrestre. Avrebbe perfettamente ragione. In questo caso però, poiché il fenomeno che stiamo studiando è stato prodotto dall’azione umana, non dovrà il geologo dotarsi degli strumenti dello storico per comprendere cos’è accaduto? E allora la geologia potrà essere ancora considerata una scienza naturale oppure dovremo qualificarla come una scienza umana?
E se invece, forti appunto della considerazione che il golfo si è insabbiato per colpa dell’azione dell’uomo, rispondessimo che dovrebbe essere un’altra disciplina e non la geologia ad occuparsene, la domanda sorgerebbe spontanea: con quali strumenti dovrebbe farlo, se non appunto anche con quelli della geologia?
Quest’esempio appare peregrino. In realtà lo abbiamo desunto da Bloch stesso, il quale cita il caso storicamente avvenuto del golfo dello Zwin, insabbiatosi nel medioevo a causa delle dighe costruite lungo il fiume, e la cui scomparsa ha segnato il destino della città di Bruges, un tempo al centro di una fitta rete di commerci internazionali.
Cos’è che rende però questo esempio particolarmente efficace nel dimostrare la sostanziale unità dei diversi saperi? Il fatto che fulcro è l’essere umano, l’essere umano in società. E attenzione: non solo il fulcro è l’essere umano perché nell’esempio che abbiamo fatto è per la sua azione che il golfo dello Zwin si è insabbiato, ma anche perché siamo noi esseri umani che ce ne preoccupiamo, che lo studiamo, che ci interroghiamo sulle ragioni e le conseguenze di questo avvenimento. Siamo noi esseri umani che tendiamo verso il sapere, sia che ci occupiamo di come funziona il nostro cervello, sia che ci occupiamo delle galassie.
Senza estendere qui il discorso a tutti gli ambiti del sapere ma restando alla storia, essere storici significa fare una professione di fede nei confronti dell’umanità. Significa affermare che l’essere umano ha la dignità di venir studiato, di venir compreso, di non venir dimenticato.
Già Erodoto l’aveva detto. Se prendiamo l’incipit della prima opera storica dell’Occidente vi troviamo la stessa preoccupazione:
Espone qui Erodoto di Alicarnasso le sue ricerche, perché delle cose avvenute da parte degli uomini non svanisca col tempo il ricordo; né, di opere grandi e meravigliose, compiute sia da Elleni sia da Barbari, si oscuri la gloria; e narrerà fra l’altro per quale causa si siano combattuti fra loro[4].
«Perché delle cose avvenute da parte degli uomini non svanisca col tempo il ricordo». Ecco il nucleo dell’impresa storica: sottrarre all’oblio il passato, affermare il presente.
I due aspetti sono complementari. E non solo perché, come affermano Bloch, Croce, Carr, e tanti altri prima e dopo di loro, il passato si indaga sempre per rispondere a domande nel presente, e quindi a esigenze presenti. Sono complementari in quanto l’atto del ricordo è sempre un atto selettivo, è sempre un processo in cui si trattiene qualcosa e si lascia cadere qualcos’altro. E questo permette di costruire un’identità, un’identità tanto individuale (un essere umano senza passato è un essere umano senza biografia, senza la possibilità di affermarsi come un Io; non è insomma un essere umano in senso pieno) quanto collettiva.
Non a caso i colonialisti negavano lo statuto di essere umani ai popoli colonizzati anche definendoli «popoli senza storia». Non a caso tutti i regimi autoritari hanno bisogno di creare una storia.
Indagare il passato permette di de-finire il presente, di dargli dei confini, dei limiti e un’identità. In altre parole, permette di far emergere il presente come tempo della vita, l’unico tempo in cui propriamente ci è concesso vivere.
Il grande scandalo, il paradosso dell’attività storica sta in fondo proprio qui. Che il presente, ciò che è, ciò che esiste e che determina lo studio del passato, è un attimo inafferrabile, un «Ora» che appena pronunciato scivola come sabbia tra le dita. In realtà non esiste, almeno non fintanto che non viene separato dal passato, ciò che non è più, e dal futuro, ciò che non è ancora. Il compito dello storico è operare questa separazione nei confronti del passato.
En passant notiamo che il compito del politico sia invece operare la separazione nei confronti del futuro. Separazione che porta con sé la possibilità della riunificazione e quindi della realizzazione di ciò che non è ancora. Il progetto, il programma, la strategia politica sono funzionali precisamente a costruire questa unità.
Dicevamo che l’oggetto della storia sono gli uomini. L’Apologia della storia è allora un libro sugli uomini. Su tutti gli uomini, non solo sugli storici. Poiché «tutti gli uomini per natura tendono al sapere[5]» e devono aver accesso agli strumenti critici necessari alla conoscenza di sé e del mondo in cui sono immersi.
Coerentemente con la propria «fede nell’umanità», Bloch decise di combattere contro chi l’umanità aveva stabilito di calpestarla. Il 10 novembre del 1942 i tedeschi diedero inizio all’operazione Anton, con cui si annetterono la Francia di Vichy. Bloch sarebbe stato sicuramente deportato e decise quindi di entrare nella Resistenza. L’8 marzo 1944, dopo un anno e mezzo di latitanza, fu arrestato a Lione dalla milizia che collaborava con i nazisti.
Venne fucilato il 16 giugno insieme ad altre 14mila persone. Fu una della tante vittime del comandante della Gestapo Klaus Barbie, il “Boia di Lione”.
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