Tonari no Totoro (il mio vicino Totoro), questo il titolo originale del film con al centro il gigantesco animale divenuto così famoso in Giappone da essere usato come simbolo dello Studio Ghibli. Il film non ha riscosso subito grande successo al botteghino, per questo motivo sono serviti diversi anni affinché la fama di Totoro si diffondesse al punto da renderlo un’icona del cinema d’animazione orientale.
Mei e Satsuki sono le due bimbe protagoniste della storia. Si trasferiscono insieme al padre in una casa in campagna, sul limitare di una foresta, per stare più vicini alla madre ricoverata in ospedale. Le due bambine sono entusiaste e corrono in esplorazione della casa e della foresta. Incontrano fantastici animali che le accompagnano per tutta la vicenda: i nerini del buio, il gattobus e soprattutto i Totoro. Tutti questi animali si rendono visibili solo ad anime innocenti come quelle dei bambini, infatti accorrono in loro aiuto ogni volta che ne hanno bisogno.
È in loro che si concretizza visivamente il motivo principale del lungometraggio: l’immaginazione dei bambini, così potente che si mescola con la magia. Non solo, soprattutto i Totoro hanno un legame speciale con la natura, al punto che si può pensare a loro come spiriti custodi della foresta, che fanno capo al Totoro più gigantesco, il quale con la sua grande mole fisica sprigiona un enorme senso di protezione e tranquillità.
Per capire l’importanza e la diffusione di questa figura nell’immaginario orientale, si può pensare agli occidentali Winnie The Pooh e Topolino. Ma cosa rappresenta Totoro? Si potrebbe pensare che esso derivi dalla tradizione giapponese, quando in realtà è frutto della mitologia personale del suo autore, Hayao Miyazaki, cofondatore dello Studio e premio Oscar.
Il Maestro ha preso ispirazione da diversi animali per le caratteristiche fisiche di Totoro: il gatto, il procione e il gufo, mentre per il suo carattere ha fatto riferimento al racconto Donguri to Yamaneko (t.l. le ghiande e il gatto selvatico) del più grande narratore giapponese per bambini, Miyazawa Kenji. Quest’ultimo viene probabilmente citato nel film quando Mei incontra i Totoro per la prima volta e li chiama in questo modo per spiegare alla sorella cosa ha visto. Satsuki infatti le risponde: «come il troll che c’era sul libro illustrato?». Inoltre questi animali sono golosi di ghiande, elemento che riprende il titolo del racconto.
La maggiore ispirazione per la pellicola deriva invece dalla vita personale di Miyazaki: la vicenda infatti è una sorta di trasposizione della sua infanzia, della sua percezione della storia del Giappone di quegli anni e soprattutto di come egli ricorda che appaia il mondo attraverso gli occhi dei bambini. I rimandi all’infanzia dell’autore sono molteplici e cominciano proprio con i nomi: Totoro deriva dal nome della città Tokorozawa, dove l’autore ha vissuto da bambino. Inoltre le bambine sono due facce dello stesso Miyazaki, perché rappresentano lui da bambino. Egli stesso riferisce di aver scelto due femmine perché sarebbe stato troppo difficile, troppo intimo per lui, raccontare questa vicenda da un punto di vista maschile.
La complementarità dei due personaggi è data, infatti, dai nomi: entrambi si riferiscono al mese di maggio e sono state inizialmente concepite come personaggio unico, successivamente separate, ma lasciando una traccia della loro unione nei nomi. Altri elementi si ritrovano nell’albero di canfora, che si trova anche vicino alla casa d’infanzia di Miyazaki e nella malattia della madre.
La storia e la figura di Totoro sono nella mente di Miyazaki sin dagli albori della sua collaborazione con Isao Takahata, anche lui fondatore dello Studio: nel 1972 realizzano Panda Kopanda (Panda e pandino), in occasione della normalizzazione dei rapporti tra Cina e Giappone e la favola risulta essere una prova generale di Totoro. I temi principali sono quelli tipici della filmografia del regista: infanzia, immaginazione, rispetto per la natura, ma in Totoro assumono un tono differente, intimo, proprio grazie a quelle caratteristiche personali che l’autore riesce ad inserire nella narrazione.
L’opera in realtà nasce come cortometraggio in appoggio al film di Takahata, dal titolo Hotaru no Haka (Una tomba per le lucciole). Il tema di quest’ultimo è molto difficile poiché racconta gli effetti della guerra sui bambini, per questo deve essere appoggiato da Il mio vicino Totoro. Sin dall’inizio, è parso chiaro che entrambi sarebbero divenuti due lungometraggi, complementari e antitetici, ed è per questo motivo che vengono proiettati insieme nel 1988.
Totoro è uno dei pochi film dell’autore in cui non c’è una contrapposizione tra la generazione dei padri e quella dei figli, ma un rispetto reciproco. Quando Mei afferma di aver visto un Totoro, non viene derisa dai genitori e dalla sorella, anzi viene compresa al punto che si reca nella foresta con il padre e Satsuki a rendere grazie al grande albero di canfora, casa del gigantesco animale.
Questa comprensione del mondo dei bambini non appartiene alla cultura né orientale né occidentale, ma è un modo di rapportarsi alla realtà che andrebbe preso ad esempio per poter portare un po’ di sana “magia” nel mondo troppo adulto in cui ci si trova a vivere. La magia-fantasia non si esaurisce in un solo personaggio, ma si ritrova anche nel gattobus e nei nerini del buio.
Il primo è un gatto a forma di autobus, con gli occhi che illuminano la strada come fari, il quale accorre in aiuto delle bambine, ma deve sempre essere chiamato da Totoro. Inoltre può mutare la sua forma, caratteristica che il regista riprende da un’antica leggenda giapponese secondo la quale i gatti molto anziani possono cambiare la loro forma a piacimento. I secondi sono delle piccole palline nere con due occhi bianchi, tanto cari a Miyazaki, da portarli in altri film. In questo caso essi sono piccoli spiriti che vivono nelle case abbandonate, ma che lasciano subito il posto a chi poi viene a viverci e che possono essere visti solo dai bambini, come spiega l’anziana nonnina del villaggio a Satsuki e Mei.
Questi elementi sono assolutamente irreali, ma guardando il film diventano concreti quanto gli alberi, le case e i personaggi stessi. Miyazaki porta lo spettatore in un mondo in cui tutto è vivo, anche e soprattutto la natura, per la quale, in tutto il film, vi è una certa reverenza, tipica dell’autore. Nei successivi film del regista, vi è sempre una rivolta della natura contro l’uomo che non la rispetta. Qui invece il rispetto delle bambine non è mai messo in dubbio ed è tale che l’anima della natura prende vita negli animali, intrecciando indissolubilmente la fantasia allo spirito della natura, creando un effetto magico. Questo perché le bambine sono anche la rappresentazione del Giappone rurale, precedente la modernizzazione, la cui cultura ruota tutta attorno alla natura. La purezza delle bambine equivale a quella dei giapponesi fino agli anni Cinquanta.
Dal canto suo la Natura mostra la sua gratitudine in un pacchetto di foglie di bambù legate da un filo di mughetto rosa e in una pannocchia. Entrambi gli oggetti sono ciò che di più semplice e umile c’è nella natura, ma per le bambine non hanno prezzo, ed è in questi piccoli oggetti, non in grandi azioni o eventi della storia, che il Maestro lancia il messaggio principale, riassumibile in una frase di De Andrè che probabilmente Miyazaki apprezzerebbe molto: «dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior».
Sarebbe dunque un’ambientazione idilliaca e privo del classico “momento di svolta” che porta al cambiamento, se non fosse per la magica pannocchia e per quel clima di dolore che rimane nel sottofondo.
Esso si lega prevalentemente alla malattia della madre, ma anche alle difficoltà del Giappone nel secondo dopoguerra. Il dolore e la paura, però, rimangono sempre latenti, perché la magia-fantasia corre in aiuto delle giovani protagoniste. Questo è un altro dei messaggi che Miyazaki vuole comunicare: i bambini sentono il dolore, avvertono la paura, ma vi rifuggono tramite l’immaginazione. Quale bambino non ha anche solo un minimo momento di paura nella propria vita? È in quel preciso momento che egli ricorre alla fantasia, quella che l’adulto ha dimenticato.
Questi significati si nascondono in tanti e diversi momenti del film, così semplici che possono quasi sfuggire all’attenzione dello spettatore, ma se si osserva con attenzione, Miyazaki riesce a far tornare chiunque bambino e a far guardare alla vita in maniera diversa, non dando più per scontato nulla, nemmeno l’erba che bisogna estirpare per tenere pulito e sano un giardino. Per capire fino in fondo cosa si intende, non c’è articolo o analisi sufficiente, bisogna guardare il film con occhi innocenti e lasciarsi trasportare.