Chi non conosce l’amore? Chi ignora le gioie di Venere?
Chi non ama scaldarsi le membra in un tiepido letto?
Il dotto Epicuro padre del vero lo insegna
e afferma che questo è il solo fine di vivere[1].
Encolpio, protagonista dell’unica opera pervenutaci del misterioso Petronio, maestro del buon gusto alla corte dell’imperatore Nerone, si è appena sfogato con il suo membro (sic) additandolo a causa di tutte le sue disgrazie. L’impotenza, l’incapacità di godere il fiore della giovinezza, inabissano Encolpio in una condizione drammatica: la vita non presenta più alcun piacere da cogliere, nessuna bellezza da godere.
È un peccato che sia arrivato così poco del Satyricon: era probabilmente un romanzo picaresco, un labirinto di scene e di personaggi che possiamo leggere solo in parte, a frammenti. Ciò che ci è giunto, infatti, è costituito dai soli libri XIV, XV e XVI, che raccontano le avventure erotiche di questo Encolpio, con scene a sfondo sessuale (davvero molte e molto divertenti), che si susseguono in modo vorticoso: all’inzio la scena si apre con Encolpio che critica la retorica del suo tempo, nella scuola in cui segue le lezioni del suo maestro; subito dopo ci spostiamo in un mercato, in cui troviamo Ascilto, compagno di avventure e malefatte, che rischi a di essere violentato da un padre di famiglia; poi la scena si sposta ancora, e vediamo Encolpio amoreggiare in un lupanare con un tale Gitone, per venir sorpeso dall’amico Ascilto, gelosissimo. E così via.
Anche a causa delle molte lacune, il Satyricon ci appare come una girandola, un fiume di discorsi, il più delle volte inutili, quasi da overlap comedy[2]). Encolpio e i suoi compari sono come pellegrini erranti in un universo soffocante e indefinito, dove la componente goliardica e lo sberleffo la fanno da padroni. Trascinati in una sarabanda di avventure ai limiti dell’assurdo e del parossistico, vittime e complici delle loro stesse disgrazie, cadono sempre negli stessi errori, in un buco nero che li trascina verso il basso e li inghiotte.
Se da una parte il Satyricon ci diverte, ci racconta tutta una serie di gioie della vita, la possibilità di viaggiare, o l’amore, l’altro volto, l’altra faccia, è riempire la vita con tutti questi fatti per soffocare l’angoscia che abbiamo dell’esistenza. Non è un caso che Seneca, negli stessi anni, parlasse del tempo, dell’importanza di viverlo in modo pieno, e di non finire come quelli che chiama “occupati”; come chi, cioè, riempie la propria vita di cose per fuggire la noia, il non-senso.
Lo spazio labirintico del romanzo diviene simbolo dell’esistenza umana, di cui non si conosce l’obiettivo finale, il punto di attracco. Un caleidoscopio di personaggi e situazioni ci riempie le giornate, come quelle dei protagonisti, ma l’orizzonte è lontano, confuso nella nebbia. Riempiamo il vuoto con futili argomenti, con azioni che non portano su un nuovo sentiero, stabile e sicuro, di cui possiamo scorgere la fine.
Il Satyricon possiede così due volti: per Petronio non bisogna sopprimere i nostri desideri (anche carnali), perché sono base fondante. fulcro delle nostre azioni: non è sempre la ragione a guidarci; anzi, il più delle volte è il cuore (o altre parti del corpo meno nobili) che impera. Se l’eros è tangibile nel romanzo, possiamo toccarlo e viverlo, così la morte è costantemente dietro le nostre spalle, ci pone un velo davanti gli occhi, una realtà non evidente ma sempre presente.
Esempio principe di questa condizione, simbolo dell’opera petroniana, è l’episodio della Cena Trimalchionis, l’unica pervenutaci integra. Trimalcione (altro personaggio che sembra comparso dal nulla) è un liberto arricchitosi con i suoi traffici mercantili, chiacchiera con i suoi convitati, tra cui compaiono anche i nostri eroi, in un’ipocrita rincorsa alla meraviglia che sfocia nel ridicolo, in facezie e futilità.
Allora, contrariamente a quanto dice il suo stesso autore, il Satyricon non è un libro leggero e candido, ma un romanzo nero, pessimista, colmo di critiche velate agli esseri umani, emblema della sua doppia esistenza.
In questo il Satyricon è sì un classico della letteratura latina, ma anche un’opera incontrovertibilmente moderna. È un romanzo da leggere e rileggere, perché, anche a distanza di migliaia di anni, esprime la nostra vita. Nel Satyricon non c’è speranza nel futuro: tutto l’universo che esprime è senza obiettivo, e i suoi personaggi cercano di fare di tutto per dimenticarselo. Encolpio, a un certo punto, è il suo pene. Per Encolpio il suo pene è l’unica certezza, e alla fine perde pure quella.
Tutto ciò è tragicamente simile alla nostra condizione. Anche noi riempiamo l’agenda di impegni, ci circondiamo di oggetti, eventi, piccole esperienze per non ricordare i grandi problemi di oggi, come, per esempio, il riscaldamento globale. Un problema così grande che ha tolto alle nuove generazioni la possibilità stessa di immaginare il futuro. Non è, come potrebbe sembrare, retorica: oggi sempre più giovani soffrono di problemi psicologici legati alle conseguenze dei cambiamenti climatici, che vanno sotto la definizione di eco-ansia. Come dice una frase famosa di Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo, che non la fine di quel sistema sociale che lo sta minacciando.
Allo stesso modo di Encolpio, ci facciamo scivolare addosso tutte le esperienze che facciamo, ma non ci diamo la possibilità di costruire una realtà differente. Sicuramente Petronio non voleva cambiare la propria realtà, probabilmente non voleva nemmeno alludere a questioni politiche e sociali nel suo romanzo, ma l’universo asfittico che crea ci riguarda molto da vicino.
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