I Giochi della XXXIII Olimpiade, ospitati a Parigi nell’anno 2024, probabilmente si ritaglieranno un primato poco invidiabile: essi hanno infatti collezionato un numero spropositato di polemiche, per la maggior parte sterili e infondate, su qualunque aspetto della competizione, quasi sempre esulando dallo sport o cogliendone singoli episodi per imbastire narrative spropositatamente rumorose. In particolare, tra le tante cose citate a sproposito, si è spesso tirato in ballo un carattere peculiare delle Olimpiadi antiche, la cosiddetta tregua olimpica (in greco ἐκεχερία, ekechería): come è noto, in occasione dei Giochi olimpici le póleis sospendevano le ostilità e non combattevano per tutta la durata delle gare, garantendo il passaggio e un alloggio sicuro anche agli atleti provenienti da città in lotta.
Tali sono il fascino e la speranza di questa istituzione che, a partire dal 1992, all’inizio di ogni Olimpiade il Comitato Olimpico Internazionale con il supporto dell’ONU ha chiesto agli Stati della comunità internazionale di osservare la tregua olimpica – non sempre riuscendo nell’intento. Ma l’appello alla tregua olimpica si basa su una concezione sbagliata – piena di proiezioni e opinioni personali – tanto di cosa fossero i Giochi dell’età antica quanto di cosa sono diventati i giochi dell’età moderna. I primi occupavano un posto ben più significativo nella cultura dell’antica Grecia, all’interno del quale la tregua olimpica assolveva ad uno scopo ben preciso; i secondi si collocano invece in un quadro valoriale totalmente diverso, che richiederebbe ben altro spirito. Qui cercheremo, con i nostri semplici mezzi, di far luce sul significato delle Olimpiadi, nella speranza di dare uno spunto di riflessione valido per l’oggi.
Pur essendo i più famosi, i giochi olimpici erano ben lungi dall’essere i soli Giochi panellenici: altre celebri gare si tenevano a Nemea, a Delfi e a Corinto, uno per ogni anno in un ciclo di quattro anni che prende appunto il nome di Olimpiade[1], impiegato per scandire il calendario di tutto il mondo ellenico. Tutti i giochi erano posti sotto l’egida della divinità protettrice della città organizzatrice – Zeus per Olimpia e Nemea, Apollo per Delfi e Poseidone per Corinto – e come tali pervasi di un valore sacro e sacri essi stessi; difatti, i Giochi olimpici dell’età antica avranno fine nel 393 d.C., soppressi dall’imperatore Teodosio in quanto irrimediabilmente connotati di valori pagani. Il primato di Olimpia risiede sia nell’antichità – i primi giochi di cui abbiamo notizia furono disputati nel 776 a.C., anticipando di quasi due secoli le altre póleis – sia nella grandezza e nella rilevanza: i giochi erano dedicati a Zeus Olimpio, padre degli dèi e signore del cosmo, e comprendevano tanto gare sfarzose quanto sacrifici ingenti.
Per gli antichi Greci, i giochi sportivi non erano un fatto meramente atletico, quanto più propriamente identitario. Il mondo ellenico aveva una concezione quanto mai stratificata dell’identità, che si esprimeva tanto su scala locale quanto su scala “nazionale”, una parola che uso qui con molta cautela. Mentre tutto attorno a loro si costituivano grandi imperi, dove numerosi popoli e lingue diverse convivevano sotto un solo sovrano, i Greci come è noto rimasero sempre devoti alle loro città, orgogliosamente convinti della particolarità di ogni singola pólis e gelosamente attaccati alla propria autonomia ed indipendenza; bastava muoversi di pochi chilometri, quelli che separano Sparta da Argo, Megara da Atene, che subito ci si sentiva arrivati in una terra straniera, abitata da uomini diversi, con proprie leggi ed usanze, con un senso della propria identità cittadina che non ha nulla da invidiare ai campanilismi dei nostri comuni.
Al contempo, nonostante un’identità così parcellizzata, dove la prima dimensione del sé era quella della città – e addirittura, all’interno della città, del quartiere o del villaggio – i Greci conservavano un’altrettanto profonda concezione di un’identità più estesa: erano sì primariamente Tespiesi o Focesi, Corinzi o Tebani, ma erano altrettanto e non meno Elleni, una comunità (in greco antico κοινή, koiné) non meno unita di quanto fossero altri popoli. La peculiarità dei Greci era che tale unità aveva basi non politiche – che anzi rigettavano con sdegno – ma esplicitamente culturali: erano Greci tutti coloro che parlavano la lingua greca, in qualunque dei suoi numerosi dialetti, in contrapposizione ai barbari[2]; erano Greci tutti coloro che adoravano gli dèi dell’Olimpo, anche se ogni città aveva la sua divinità d’elezione e il culto di un proprio eroe; erano Greci tutti coloro che avevano partecipato alla grande spedizione contro Troia al comando del re Agamennone[3]; infine, erano Greci tutti coloro che partecipavano ai giochi panellenici.
Tutti gli Elleni, tanto della madrepatria quanto delle colonie in Ionia e Magna Grecia, erano invitati a partecipare ai giochi, a Olimpia come a Delfi, a Nemea come a Corinto; al contempo, agli stranieri era vietata la partecipazione, e tale diniego poteva mettere in questione la grecità dell’escluso: capitò più volte ai re di Macedonia di venire respinti perché considerati mezzi barbari, e non a caso quando Filippo II vinse nei giochi del 356 a.C. impose a sua moglie il nome di Olimpiade, per presentarsi come un sovrano pienamente greco e dunque degno di unificare la Grecia. Col declino delle póleis, in epoca romana tali vincoli si allentarono, e Nerone poté concorrere e vincere a tavolino in tutte le gare. Nondimeno, per tutta l’età arcaica e classica e buona parte di quella ellenistica, fino almeno alla conquista romana, i giochi olimpici mantennero tanto il loro prestigio quanto la loro funzione di evento aggregatore del mondo greco, specchio in cui la società greca si autorappresentava; infatti ai giochi erano ammessi, tanto come atleti quanto come spettatori, soltanto uomini liberi e che parlavano greco, mentre rimanevano esclusi coloro che erano forzati ai margini della società: le donne, gli stranieri, gli schiavi, i sacrileghi e gli assassini.
La tregua olimpica è uno degli aspetti per noi più affascinanti di questa istituzione. Tuttavia, contrariamente a quanto farebbe pensare il nome, non era una caratteristica dei soli giochi di Olimpia, ma era parte integrante di tutti i giochi panellenici[4]. La ragione di questa peculiare tradizione va ricercata nella concezione che i greci tanto dello sport quanto della guerra. I giochi, come abbiamo detto, erano consacrati alle divinità dell’Olimpo (con buona pace di certe polemiche contemporanee); in quanto occasione in cui dar mostra del proprio valore, chi gareggiava compiva non soltanto un gesto fisico, ma un vero atto di esibizione di forza e grazia, segno del benvolere degli dèi e della superiorità morale dell’atleta[5]. Le gare erano dunque più di una semplice competizione, ma un’occasione di venerazione per gli dèi, onorati tanto con sacrifici e cerimonie quanto con lo sfoggio di talento, forza e abilità; una ricorrenza sacra nella propria essenza profonda, e come tale da onorarsi rifuggendo dalla guerra.
Quando Omero descrive lo scudo di Achille[6], e su di esso illustra un microcosmo, descrive tanto una città in pace – che prospera nell’agricoltura e nel commercio – quanto una città in guerra – con agguati e battaglie, scontri e violenza – perché la guerra non può essere eliminata dalla vita umana. Per i greci la guerra era un’occorrenza relativamente frequente: ogni cittadino prima o poi sarebbe finito a combattere in qualche capacità per la propria pólis, e spesso più di una volta; del pari, le póleis si affrontavano ripetutamente in schermaglie e scaramucce per dare prova di forza, rettificare i confini a proprio favore od influenzare la politica della città rivale. Tuttavia, ciò non degenerava mai in una guerra totale[7]: gli episodi in cui una città rivale viene distrutta sono pochissimi; le campagne militari duravano pochi mesi all’anno, quando la stagione era favorevole e gli uomini non erano necessari per i raccolti; le battaglie avvenivano su un terreno favorevole, spesso scelto di comune accordo, e lo scontro tra falangi assomigliava per certi versi alla mischia del rugby, un cozzare di masse che spingono tentando di far perdere coesione all’avversario. Tutto ciò attribuiva alla guerra e al modo di fare la guerra una certa ritualità, che si estendeva al calendario.
Per molti popoli dell’antichità, esisteva una divisione molto netta tra giornate consacrate alle divinità – tipicamente occupate da feste religiose, cerimonie e sacrifici – e giornate “libere”. I romani, sempre metodici organizzatori, ripartiranno sistematicamente il proprio calendario tra giorni “fasti” e “nefasti”, vale a dire tra giorni “leciti” e “illeciti”: questo perché nei giorni votati alla divinità, o cooptati da scopi religiosi, non era appunto lecito svolgere attività quotidiane, come lavorare o trattare affari; bisognava invece partecipare alla ritualità, purificarsi o sacrificare, dedicarsi al rapporto con il divino, che nel mondo antico aveva sempre una dimensione pubblica e sociale e non fu praticamente mai una semplice questione di interiorità. Questa logica perdurò anche dopo l’avvento del cristianesimo e per buona parte della sua Storia, e solo con l’Illuminismo e la secolarizzazione il tempo è stato sottratto a Dio e concesso integralmente all’uomo.
Il punto cruciale sta proprio in questo: per la maggior parte della Storia umana, la guerra è stata considerata un’attività del tutto comune, odiosa sì ma non estranea all’orizzonte umano, del tutto parte dell’ordine delle cose terrene se non addirittura dell’ordine del cosmo. Questa non era peculiarità dei soli Greci, ma piuttosto un atteggiamento diffuso presso tutti i popoli e le società che hanno preceduto l’età contemporanea, per i quali la guerra era una realtà concreta, presente e prossima. Di questa concezione dell’ordine del cosmo rimane traccia in un celebre passo del sapienziale libro biblico del Qohelet:
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire; […] un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la pace e un tempo per la guerra[8].
In questa visione del mondo, la guerra ha un suo posto, per quanto sgradevole, ma è al contempo inserita in un disegno organico: la guerra nel mondo antico – ma ancora nel Medioevo e per buona parte dell’età moderna – opera a bassa intensità ed è sottoposta ad alcune regole, tanto nel modo in cui la si approccia quanto nella maniera in cui viene condotta. E, tra queste regole, la prima è che non si combatte durante i giorni consacrati e le feste religiose: esattamente come i commerci, anche le guerre si fermano nei giorni che Dio ha reclamato per sé. L’ultimo episodio di questo genere avvenne, come è noto, la notte di Natale del 1914, quando i soldati tedeschi, britannici e francesi sospesero spontaneamente le ostilità per festeggiare insieme, arrivando addirittura a improvvisare una partitella a calcio; inconsapevolmente, quei fanti ripeterono nelle trincee quanto i greci avevano praticato per secoli nelle arene di Olimpia, rinunciando a far scorrere il sangue del nemico in una giornata pervasa dal sacro.
Quando il barone Pierre de Coubertin ebbe l’idea di riportare in vita le Olimpiadi, viveva in un contesto molto differente da quello greco. Alcuni elementi erano rimasti constanti – l’idea che si affrontassero atleti dilettanti, oppure la scelta di discipline di gara che premiassero lo sforzo, l’allenamento e la precisione – ma altri erano radicalmente mutati, a partire dal carattere internazionale. D’altronde, il barone de Coubertin visse negli anni della Belle Epoque: un periodo sorprendentemente cosmopolita, in cui un gentiluomo poteva girare tutto il mondo (non proprio in ottanta giorni, magari qualcuno di più) con non molta fatica e quasi nessun controllo alla frontiera; ancor più rilevante erano gli ultimi anni del lungo Illuminismo, dominati dall’idea che la scienza e la ragione avrebbero presto condotto l’umanità verso magnifiche sorti e progressive, fiduciosi che diplomazia e buon senso avrebbero evitato ogni guerra nonostante il nazionalismo soffiasse sempre più sulle braci.
È in questa temperie che visse de Coubertin, ed è questo contesto ad aver informato le prime Olimpiadi moderne, chiamate ad uno scopo tanto nobile quanto sognatore: fornire una valvola di sfogo pacifica ed istituzionalizzata al nazionalismo, facendo sfidare le varie nazioni sul campo d’atletica piuttosto che sul campo di battaglia, impugnando il giavellotto e il disco invece del fucile e della granata. Come le Esposizioni Universali, altro lascito di quell’epoca, i giochi olimpici avrebbero permesso di far incontrare uomini – anche allora le donne erano escluse, ma si conquistarono l’ammissione nel 1920 – di tutto il mondo; le nazioni avrebbero mantenuto il gusto di prevalere sugli odiati rivali in giochi d’abilità senza bisogno di versare sangue; e se ogni atleta era invitato ad arrivare Citius, Altius, Fortius[9], a tutti il barone de Coubertin ricordava: «L’importante non è vincere, ma partecipare».
Il sogno del barone de Coubertin naufragò miseramente nelle trincee della Grande Guerra, al pari della fiducia nel progresso e nell’idea di un mondo governato da leggi razionali. Quel mondo che aveva danzato sull’orlo del precipizio fu consumato per la prima volta dalla guerra totale, un conflitto i cui orrori si impressero a fuoco sulla pelle e negli occhi di un’intera generazione. Ci si augurò che quella fosse la Guerra per porre fine a tutte le Guerre, e non si riuscì a far niente di più che seminarne una ancora più cruenta e gravosa. È questa la guerra che domina nel nostro immaginario, anche se la maggior parte di noi non l’ha mai vista, o forse proprio perché non l’abbiamo vissuta; è una guerra enormemente insopportabile, tanto più orribile quanto più si è diradata dall’orizzonte della nostra quotidianità.
Nel secolo scorso, la guerra è stata espulsa dall’ordine del cosmo, tramutata in un’aberrazione crudele e mostruosa, inconcepibile ed impresentabile; ben lontana dalla guerra che intendevano i greci, la guerra della contemporaneità è estranea alla giustizia, e dunque priva di ogni ritualità e di ogni regola; è un male assoluto da evitare a tutti i costi, ma poi non si compie nessuna azione per impedirla al momento opportuno; in questa guerra si combatte non un avversario nostro pari, ma un nemico mortale da annientare e non da sconfiggere. In quest’orizzonte, la tregua olimpica non ha più spazio né senso: non solo non esistono più «giorni del sacro», come li definì Franco Cardini, ma la guerra stessa si presenta come una tale violazione dell’ordine del mondo da infrangere ogni regola, anche quella di non combattere durante i giochi olimpici. Adattando von Clausewitz, lo sport da tempo è divenuto una prosecuzione della guerra con altri mezzi[10], ma perdendo la capacità di intercettare la spinta competitiva delle nazioni e incanalarla verso uno sfogo pacifico.
Delle Olimpiadi dell’età moderna non ricordiamo, se non pochi, gesti atletici: Dorando Pietri che crolla poco prima della linea del traguardo alla maratona di Londra 1908 e viene sorretto dai giudici di gara; i quattro ori (100, 200 metri piani, 80 metri a ostacoli e 4×100) di Fanny Elsje Blankers-Koen, trentenne e madre di due figli, a Londra 1948; Abebe Bikila che vince la maratona di Roma 1960 correndo a piedi nudi; Dick Fosbury che inventa una tecnica di salto rovesciata – che da lui prenderà il nome – a Città del Messico 1968. Purtroppo, questi ed altri sono oscurati nelle memoria comune da episodi molto più tetri e tragici, in cui la politica e l’ostilità hanno prevalso sul desiderio di armonia: basti ricordare i giochi di Monaco 1972 – quando un commando terrorista di Settembre Nero sequestrò e uccise undici atleti israeliani – i boicottaggi incrociati di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, il doping di stato delle nuotatrici della Germania Est. Tutti momenti in cui c’è stato ben poco di sport e ancor meno di sportivo, episodi in cui l’atletica è stata piegata agli interessi e alle ambizioni del potere politico.
Due episodi di questa triste rassegna meritano maggior spazio: i giochi di Berlino 1936 e quelli già menzionati di Città del Messico 1968. Quest’ultimo è l’unico a risultare edificante, perché è uno dei pochissimi in cui la politica ha tracimato sullo sport non per volontà di un governo ma per valore di testimonianza: sul podio dei 200 metri piani, gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso nel saluto del Black Power, per manifestare la loro vicinanza al movimento per i diritti civili, con il sostegno e la complicità a lungo taciuti dell’australiano Peter Norman. Del tutto diverso è quanto avvenne a Berlino, giacché la vicenda di Jesse Owens è uno degli episodi più mistificati e strumentalizzati della storia olimpica, pressoché sovrascritto dalla propaganda; il racconto che vuole l’atleta afroamericano designato per vincere sotto gli occhi del Führer è del tutto posticcio e pretestuoso[11]: contrariamente alla narrazione più diffusa, Hitler non mostrò particolare sdegno o frustrazione per la vittoria di Jesse Owens, ed anzi lo salutò dopo la premiazione e si congratulò per il risultato; per contro, Owens si sentì molto più ferito allorché al suo ritorno il presidente Roosevelt non ricevette alla Casa Bianca né lui né gli altri atleti afroamericani; il 1936 era un anno elettorale, e celebrare ufficialmente un atleta nero avrebbe potuto costare i voti degli Stati segregazionisti del Sud.
Come speriamo di aver dato conto con questa carrellata – breve e necessariamente incompleta – di episodi, le Olimpiadi dell’età moderna sono state ridotte loro malgrado a nuova vetrina di esibizionismi muscolari, un palcoscenico di lotta tra le potenze in cui gli sport sono mero pretesto e costume. Riproporre al giorno d’oggi la tregua olimpica sarebbe uno slancio di idealismo, venato di ingenuità; a meno che l’intera comunità internazionale non ripensi radicalmente e sinceramente il modo di fare la guerra e di condurre la politica internazionale, sarebbe una costruzione priva di fondamenta. Nel mondo antico, i giochi olimpici fermavano la guerra perché in essi si vedeva una manifestazione del sacro, e al sacro si riconosceva un valore presente ed imperativo. Ma da tempo la nostra società vive in un mondo che al sacro ha completamente rinunciato e ne ha espunto tanto i valori quanto i moniti, e nell’orizzonte materialista del puro guadagno non c’è spazio per una proibizione fondata su un principio. La torcia dei giochi arde sempre a Olimpia, ma alimenta fiamme ben diverse.
In copertina: Pugile in riposo (dettaglio), scultura bronzea di età ellenistica, attribuita a Lisippo (390-300 a.C.), Roma, Museo Nazionale Romano.