The Revenant

The Revenant: un po’ di cinema crudo, grazie

Premetto subito una cosa: considero Alejandro González Iñárritu uno dei registri più talentuosi, equilibrati ed influenti degli ultimi quindici anni e lo reputo uno dei miei preferiti in assoluto;  negli ultimi anni mi ha fatto divertire parecchio, arrivando a toccare, con Birdman (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), uno dei punti più alti della cinematografia moderna.

Dico questo perché giustifica, in parte, tutto quello che segue. Era infatti più di un anno che aspettavo di poter vedere su grande schermo The Revenant (Redivivo), basato sull’omonimo romanzo (pubblicato da Einaudi) di Michael Punke del 2003 e parzialmente ispirato alla vita del cacciatore di pelli Hugh Glass, interpretato da Leonardo DiCaprio.

Questa volta non mi dilungherò molto in trama e affini. L’ambientazione è suggestiva: siamo nell’America della frontiera, trascinati lungo il Missouri fra il Dakota e il Montana (le scene sono state girate in luoghi incontaminati tra il Canada e la Terra del Fuoco), con alcuni cacciatori di pellicce.

The Revenant

Siamo nel 1823, e Hugh Glass (vissuto realmente, 1780-1833) è l’unico, nella compagnia, ad essere esperto dei luoghi limitrofi e dei costumi indiani in quanto in passato aveva sposato una pawnee; dalla relazione era nato anche un figlio, Hawk. La compagnia di cacciatori è in fuga a causa di uno scontro durissimo con gli Arikara, ed è proprio durante una sosta del gruppo che Glass, spostatosi in un luogo isolato, viene attaccato da un grizzly. Dopo essere riuscito a sopravvivere- a costo di condizioni fisiche davvero precarie- viene abbandonato nella foresta da alcuni compagni che, in cambio di una paga extra, avevano accettato di restare ad assisterlo. E, non soddisfatto, il perfido John Fitzgerald- per filarsela- uccide pure Hawk. Sostenuto quindi da una rabbiosa sete di vendetta, Glass riuscirà a dispetto di ferite, stenti e gelo, a percorrere le 200 miglia che lo separano dalla salvezza per ottenere la sua vendetta.

Due sono le domande che, in questi giorni tutti si stanno ponendo: The Revenant merita di vincere l’Oscar come miglior film? E DiCaprio riuscirà finalmente a vincere l’Oscar come miglior attore protagonista?

Quello che deciderà l’Academy non posso ovviamente prevederlo ora, posso però provare a comunicarvi le mie impressioni e le risposte che darei io a queste domande. The Revenant è un film intenso, capace di immergere lo spettatore in una fitta bufera di dolore e vendetta. Ti prende le viscere e te le rivolta; poi, mentre sei a terra che ti contorci, incomincia pure a prenderti a calci, giusto per essere sicuro che la prossima volta farai fatica ad alzarti. E, chiariamoci, è esattamente quello che volevo: qualcosa di terrigno, dal forte sapore di sangue e fango. Del cinema crudo e primordiale, insomma, come non se ne fa più, quasi.

The Revenant

I dialoghi sono erosi dal vento e dalla fatica, la fotografia- curata da un Emmanuel Lubezki in evidente stato di grazia- è pura, arcigna e maestosa, la regia è ancora una volta ponderata e dà l’impressione di sorgere spontaneamente… tutto questo, di per sé, potrebbe bastare. Anzi, basta eccome. Siamo tutti bravi con una penna in mano o dietro ad una tastiera, ma prendere una videocamera e creare un prodotto artisticamente eccelso è un altro paio di maniche. Però, per fortuna, esiste la libertà d’espressione e quindi mi sento di dire che The Revenant non è un film da premiare con l’Oscar.

Prima di chiarire quest’affermazione voglio decantare apertamente il vero, monumentale, capolavoro di questo film: Leonardo DiCaprio. Vi prego, vi prego, vi prego: fate vincere un dannato Oscar a quest’uomo. Non che serva un Oscar per certificare la bravura di un attore o per consacrarlo, ma dati gli sforzi estremi e la dedizione sopraffina con cui ha dimostrato di saper interpretare il dolore sincero e profondo di uomo a cui hanno strappato la vita del figlio, merita quantomeno un ulteriore riconoscimento oltre il recente Golden Globe. DiCaprio sembra incanalare tutta sua forza espressiva in un ruolo che innalza sin oltre le vette di ogni prova attoriale che abbia mai visto. Davvero: potreste andare al cinema anche solamente per lui.

La scena (già diventata cult) dell’attacco del grizzly è il paradigma perfetto su cui declinare il miglior pregio del film e successivamente il grande limite che impedisce a The Revenant di toccare realmente la perfezione. La ferocia con cui, in un silenzio rotto solo dall’ansimare terrorizzato di Glass e dai rugli terrorizzanti dell’orso, il film ci lascia assistere ad una disperata lotta per la sopravvivenza, è incredibile. Di Caprio si lascia pervadere dal terrore: lo si riesce a vedere dagli occhi, lo si sente dal respiro enfatizzato dal silenzio. La scena dura qualche minuto, ma sembra occupare un lasso di tempo molto più lungo, dilatato dalla bravura con cui l’attore riesce a rendere un passaggio cruciale della trama.

The Revenant

Il “problema” del film è racchiuso nella perdita progressiva della tensione. Non farò spoiler, ma Glass ne passerà di cotte e di crude (soprattutto di crude!) prima di riuscire ad adempiere alla sua missione, ossia uccidere Fitzgerald (interpretato da un grandissimo Tom Hardy, candidato anche lui agli Oscar come miglior attore non protagonista). In tutto questo non c’è un vero momento in cui lo spettatore riesca a temere realmente che qualcosa possa andare storto: tutto si avvia verso la più naturale e inevitabile conclusione, come un corpo morto lasciato portare via dalla corrente di un fiume.

E perché questo dovrebbe essere un problema? Beh, mancando un vero e sincero coinvolgimento con quanto sta accadendo in scena, l’emotività si perde e il godimento artistico viene assorbito esclusivamente dalla maestria di regia e fotografia di cui si è parlato prima. E il fatto che aggrava il tutto è proprio la prova attoriale di DiCaprio: il fatto che emerga così tanto è sintomo di un generale appiattimento del resto. Il deserto di neve e desolazione che circonda tutto il paesaggio sembra aver isolato anche il vero carattere mordace di un film che aveva le carte in regola per colpire lo spettatore su tutti i livelli possibili. Invece, senza DiCaprio questo film sarebbe un film mediocre, limitato ai meri pregi che la materia trattata permette. Un po’ di film crudo, ogni tanto, non guasta, ma se fosse stato cotto lasciandolo leggermente al sangue, forse, l’avrei apprezzato di più.

(Così, a margine: chi merita l’Oscar, secondo me? Mad Max Fury Road di George Miller. E, se sarà, ne parlerò compiutamente in un prossimo articolo.)

Leggi di più
John Biggers copertina
Non solo poesia: la Negritudine di Senghor, Damas e Césaire