Per quest’articolo la rana permane arroccata sul pastrano, gracidando lentamente senza produrre suoni mentre le nutrie, stizzite, la guardano in cagnesco da discreta distanza[1].
Comincio con una domanda a bruciapelo: quali sono gli strumenti del letterato?
Cazzuola e cemento? No, direi proprio di no.
Carta e colla vinilica? No, signor Muciaccia. Senta, ne abbiamo già parlato…
Una bottiglia di vetro, del combustibile liquido e uno straccio? No, ancora non ci siamo. Però sai che divertimento se li combini come si deve?[2]
Foglio e penna, o una qualsiasi variante meccanica/elettronica degli stessi? NO, NO, NO E POI N… No, aspetta, ferma tutto. È questa.
Bingo.
All’apparenza, il lavoro dello scrittore si discosta notevolmente da quello degli altri “produttori di contenuto” (si definisca tale quella vasta gamma di individui che va dagli artisti agli artigiani di qualsiasi tipo) nel suo essere carente di utensili specifici. Il musicista necessita del suo strumento, il pittore di tutta una serie di pennelli, colori e superfici sulle quali dare vita alle proprie opere. Il bancone del calzolaio è ingombro di marchingegni dal nome e dalla natura indefiniti atti a riportare alla gloria di un tempo calzature che probabilmente hanno sulle spalle più anni dei loro proprietari. Se tutti i mastri creatori, oltre al proprio personalissimo genio, necessitano di un caleidoscopio di oggetti pensati appositamente, lo scrittore pare davvero basarsi esclusivamente su ciò che va girando e rigirando nella sua testa.
Veniamo ora alla seconda domanda: cosa va girando e rigirando nella testa dello scrittore?
La scrittura viene spesso considerata alla stregua di un’arte puramente bohemienne, una pratica slegata da qualsivoglia fondamento “scientifico” in cui sono creatività e libertà espressiva a dominare. Ed è indubbio che questa “corrente” ci abbia regalato capolavori incommensurabili, per non dire di come, nel corso della storia, abbia mutato i canoni vigenti in favore di una sempre maggiore (e sempre più proficua) sperimentazione.
Hai talento, iniziativa e creatività? Procurati l’indispensabile e comincia a buttare giù righe. Non ti servono fondamenti teorici degni di questo nome, non hai bisogno di regole fondamentali che arginino il fiume della tua capacità di produrre. Non hai, soprattutto, bisogno di strumenti, di un tavolo ingombro di oggetti che possa competere/fare invidia a quello dei colleghi più “meccanici”.
Ecco giungere la terza domanda: esiste un’alternativa?
In questo numero e forse in altri a venire, sempre slegati da un fil rouge unitario e da una coerenza temporale, esaminerò i frutti sparsi[3] di un lavorio scritturale che vada a servirsi di particolari strumenti, che si imponga muri che non sarebbe necessario imporsi. I pezzi trattati, lo dico subito, saranno mie personalissime creazioni, e in quanto tali necessiteranno di alcune premesse.
- Non sono uno scrittore. Non vogliatemene se i prodotti del mio lavoro risulteranno goffi o scarsamente intriganti.
- Non pretendo che i miei “esperimenti” raggiungano l’universalità o un’originalità senza pari, anzi.
Con questi miei modesti tentativi, vorrei creare una sorta di amatoriale “banco da lavoro” paragonabile a quello degli artigiani d’altri campi; un banco di lavoro che, nel ruolo di “cianfrusaglie ammucchiate in attesa di un uso futuro” (le viti, i bulloni e le rondelle del titolo, componenti minimi eppure irrinunciabili di qualcosa di più grande), presenti degli spezzoni sperimentali di prosa. Penso possiate vedere la cosa come un rudimentale, rudimentalissimo Zibaldone, per rifarci a repertori simili, stavolta prerogativa di eminenti letterati della storia.
Esperimento prosastico – Descrizione tramite verbi statici.
Gli occhi azzurro spento, stagnanti sotto il pesante profilo delle sopracciglia, fissavano qualcosa al di fuori della comprensione dell’uomo.
Robusto nel bene e nel male, il suo fisico pareva scolpito dalle mani troppo grosse d’un qualche scultore di bassa lega; il doppiopetto bicolore lo circondava stancamente, come uno strato di pittura steso di fretta.
La sciabola, assicurata a una tracolla che una volta doveva essere scarlatta, e il tricorno usurato, quasi cucito sotto al braccio lievemente piegato, condividevano la fissità del proprietario. I larghi calzoni erano decorati da una fitta quantomai impercettibile trama di rammendi, corrispondenti forse a ferite cicatrizzate da tempo.
Ritto sul lieve tacco dei suoi stivali da cavalleggero, dominava l’ambiente circostante come una torre diroccata nel mezzo d’una palude.
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