Ma per sopravvivere, cercavo di non fare rumore, di non fare niente, come se non esistessi. Non avevo altra scelta.
Nella storia insegnata nelle nostre scuole, l’approccio storicistico, con l’attenzione per il tempo lineare e cumulativo, ha lasciato strascichi visibili, a partire dalla “selezione delle rilevanze”, che privilegia alcuni ambiti tematici, in particolare quello nazionale, politico e sociale. In particolare, l’accento è posto sulla nazione e le sue guerre, le crisi sociali e le rivoluzioni. Essa dunque “non persegue la comprensione dell’alterità di ciò che è lontano nel tempo e nello spazio[1]”, né tantomeno si occupa delle vittime della Storia, che finiscono irrimediabilmente relegate in un paragrafetto a fine pagina, sommerse da date, battaglie e casus belli.
Le “donne di conforto” sono un significativo esempio di una pagina della storia tragicamente occultata, dimenticata non solo qui, nel lontano occidente, ma anche nei luoghi stessi in cui sono state compiute le atrocità nei loro confronti.
Ma partiamo dall’inizio.
Nel periodo tra il 1932 e il 1945, circa duecentomila giovani provenienti da Cina, Indonesia, Taiwan, Singapore, Corea e Filippine furono rapite e rinchiuse in lager-bordelli, dove erano costrette a sollevare il morale dei soldati giapponesi, ossia a subire le loro violenze. Tre quarti di loro non sarebbero sopravvissute. Le altre soffrirono per tutta la vita, sterili e psicologicamente fragili, spesso rifiutate dalle loro famiglie e comunità.
Quest’ultimo fu il destino della protagonista di Storia della nostra scomparsa di Lee Jing-Jing, di nome Wang Di, che a soli sedici anni venne rapita dai soldati giapponesi e rinchiusa in una casa di conforto, costretta a subire da mattino a sera, ogni giorno, le violenze di decine di soldati, ricevendo in cambio mezza ciotola di riso. L’occupazione giapponese di Singapore è raccontata da un’angolazione inedita, da chi ne subì la ferocia e le atrocità sulla propria pelle, pagandone le conseguenze per tutta la vita.
Wang Di, come le altre donne, nella maggior parte dei casi poco più che bambine, venne spogliata della propria dignità e del proprio nome, costretta a scontrarsi con la brutalità umana, senza poter opporre resistenza, fino a soccombere, a scomparire tra le mura di una cella impregnata di sudore e odore di disinfettante.
La storia delle donne di conforto ha assunto una rilevanza mediatica solo all’inizio degli anni Novanta, quando un gruppo di sopravvissute si è mossa con un’azione di classe contro il governo giapponese, per richiedere un risarcimento, ma soprattutto un’ammissione di colpa e un riconoscimento nei manuali di storia. Fu una battaglia contro un governo che si rifiutava di ammettere quanto accaduto, che si concluse con una mera ammissione dell’esistenza delle case di conforto, ben lontana dall’apologia auspicata.
Ad oggi rimane ancora un tema caldo in Giappone, dove una certa ala politica rifiuta di riconoscere il fatto che le donne fossero costrette e tenute prigioniere dei lager-bordello, sostenendo che fosse una scelta consapevole, e che non fossero private della loro libertà.
La storia di Wang Di è raccontata intrecciando abilmente episodi del suo passato come donna di conforto e del suo presente di anzianità nella miseria di una vita fatta di silenzi, per la mancanza della forza necessaria per raccontarsi e liberarsi dei propri fantasmi.
Le cose che avrei voluto dirle mi salivano in gola e ci restavano incastrate, e non potevo far altro che inghiottire, fissandola in silenzio, per evitare di restare soffocata da tutto quello che non riuscivo a esprimere a parole.
Verso la fine della sua esistenza si imbatte però in una possibilità di riscatto, regalatagli da Kevin, un ragazzino alle prese con i più classici drammi dell’adolescenza che, grazie ad alcune lettere lasciate da sua nonna, inizia a ricostruire gli eventi del passato, a sbrogliare un enigma la cui soluzione è proprio Wang Di. Il loro incontro è senza dubbio l’apice emotivo del romanzo, un racconto disarmante, dicotomico intreccio di forza e delicatezza, che non può che commuovere e rimanere impresso.
Storia della nostra scomparsa è un romanzo di straordinaria potenza, mescolanza di passato e presente, incontro commovente tra due generazioni… in sostanza, un’altra lettura imperdibile da aggiungere subito all’elenco dei desideri.
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Jing-Jing Lee è nata e cresciuta a Singapore. Ha studiato a Oxford e ha pubblicato per Marshall Cavendish il suo racconto lungo If I Could Tell You nel 2013, e nel 2015 è stata pubblicata la sua prima raccolta di poesie intitolata And Other Rivers, con Math Paper Press. Attualmente vive ad Amsterdam. Storia della nostra scomparsa è il suo primo romanzo, pubblicato in Italia da Fazi Editore.