Poesia come smarrimento: Caspar David Friedrich Viandante nel mare di nebbia

La Poesia come smarrimento

(…)
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. (…)

(L’Infinito. Da G. Leopardi, Canti, 1993, Feltrinelli, Milano, vv. 4-8.)

Per questa discussione, in merito allo smarrimento provocato dalla poesia, intendo partire dal grande Giacomo Leopardi, che in quel  verso “il cor non si spaura” mi ha svelato il motivo per il quale per oltre vent’anni ho ignorato il richiamo della poesia. Per tanti anni, la Musa, come una sirena, mi sibilava all’orecchio i suoi versi, che seguivano i miei pensieri, le mie azioni, i miei sempre più forti dolori, provocati da una vita a volte ingiusta.

La pratica poetica implica necessariamente uno scandaglio continuo dell’anima, un’erosione di pensiero che ha come effetto quello sbigottimento, di cui ci parla il nostro amato recanatese.

La Poesia come sirena, il cui canto è talmente forte, talmente suadente, che potrebbe indurre a tuffarsi nel mare di emozioni blu fino a perdersi, fino a smarrire il senno. Naviganti senza meta o «Poeti senza porto» come scrive Giuffrè, un poeta contemporaneo, ci lasciamo guidare dai maestri di un tempo, come divinità del nostro Olimpo lirico.

E come Ulisse è il Poeta e l’arduo suo compito è cantare senza morire, allora consultiamo l’oracolo, nascosto nell’antro di questi polverosi libri, quasi tristemente dimenticati. Riporto qui di seguito, una quartina  della bellissima poesia a forte impatto simbolista del Pascoli, chiamata I due fuchi.

Tu poeta, nel torbido universo
t’affisi, tu per noi lo cogli e chiudi
in lucida parola e dolce verso;

sì ch’opera è di te ciò che l’uom sente
tra l’ombre vane, tra gli spettri nudi.
[…]

(Giovanni Pascoli, Myricae, 2006, Rizzoli, Milano, pp. 180,181, vv. 1-5)

Caspar David Friedrich, Le tre età dell’uomo, 1835
Caspar David Friedrich, Le tre età dell’uomo, 1835

Anche Pascoli, così come quasi tutti i poeti di ogni tempo, si interroga sul ruolo svolto dal poeta e dalla poesia. Tempi diversi da quelli di Giacomo, ma come si evince dalle parole della sua poesia, sempre alta è la tensione emotiva.

Il poeta, che per Leopardi si perdeva nell’infinito, in Pascoli guarda con estrema attenzione il torbido universo, è suo il compito di entrare senza paura nella vita e nel dolore. Solo lui, oracolo e vate al contempo, può cogliere e racchiudere nella parola che chiarisce, utilizzando un dolce canto, i misteri dell’inconscio meschino e sconosciuto.

Emblematico l’ultimo verso, esprime tutto il senso di responsabilità, da cui dovrebbe essere mosso un vero poeta. Sì ch’opera è di te ciò che l’uom sente, assumere su di sé ciò che l’umanità sente. Questo vuol dire in soldoni che la vera poesia non è la nostra poesia.

Quando si consegnano i versi alla carta, quei versi non sono più nostri. Un po’ come i figli: hanno le nostre sembianze a volte, ma non sono più noi. Prima di essere partorito un figlio vive in simbiosi nel grembo della madre, ma poi esce, e il cordone ombelicale che l’ha nutrito fino a quel momento cessa la sua funzione. Così il verso: cresce in noi ma non è noi, ci assomiglia ma non è parte integrante di noi. Ecco perché il “cor si spaura“ di fronte all’infinito e torbido universo e il poeta, seppur forte nei suoi intendimenti, vive in uno stato di smarrimento emotivo, che è poi l’humus da cui la poesia trarrà elemento.

Caspar David Friedrich, Barche da pesca fra due scogli su una spiaggia del mar Baltico, 1830
Caspar David Friedrich, Barche da pesca fra due scogli su una spiaggia del mar Baltico, 1830

Ma sentiamo dai versi di Campana, tratti dalla lirica La Speranza presente nei Canti Orfici:

(…)

Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!

(Dino Campana, Canti orfici, 2001, RCS libri, Milano, p. 126, vv. 15-20)

Dino Campana: per me il nostro più grande poeta visionario in assoluto. Lui errabondo e “fricchettone”, sicuramente affetto da quei disturbi neurologici oggi curabilissimi, ha sperimentato su se stesso il potere devastante della poesia. Stiamo parlando di un periodo artistico molto fervido, quello a cavallo tra i due secoli. È il periodo della Ville Lumiere, dei pittori pazzi, dei poeti ubriachi d’assenzio e d’oppio seguaci del visionario Baudelaire. Dino assorbe come una spugna le pulsioni della sua epoca e si slancia sull’infinito, per conquistare il cuore della bella Principessa: la poesia. Ma la poesia non la si possiede, il sogno del poeta svanisce quando raggiunge la consapevolezza di essere un mero artefice affidato ai gorghi della sorte, che sono il “torbido universo“ del Pascoli.

Il tema meriterebbe che posassi la mia attenzione anche a tutti gli altri insigni poeti della nostra letteratura, che hanno parlato dello smarrimento poetico, ma questo diventerebbe più che un articolo: un polpettone.

Chiudo quindi la carrellata dei grandi con un pezzo tratto dalle Illuminazioni di Arthur Rimbaud un poeta meteora, che più di ogni altro, si è interconnesso con la generazione artistica degli anni del dopoguerra fino alla fine degli anni settanta e oltre.

Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen, 1818-19
Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen, 1818-19

È Rimbaud che ci riassume con la sua prosa allucinata il valore del ruolo del poeta e del suo ruolo di veggente, ma leggiamolo:

Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, costruisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Egli giunge all’ignoto e quand’anche smarrito finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste… Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.

(Arthur Rimbaud, Lettera del veggente)

Arthur Rimbaud riassume tutti gli altri, unisce l’infinito con il torbido universo d’amore, di sofferenza e di pazzia e ci aggiunge lo smarrimento, che è stato cagione di queste riflessioni. Ho messo questo pezzo alla fine quando per me è stato l’inizio.

Durante le mie meditazioni mattutine, sorseggiando il mio amato caffè, sono stata calamitata da queste parole e allora mi è balzato in testa tanto Giacomo, che gli altri due, visto che li sto leggendo in questi giorni.

È confortante unire i versi, è come riallacciare il tempo, è come sentirsi meno soli in questo ginepraio emotivo, che non ci concede pace, vulnerabili come siamo al richiamo dell’ignoto, dell’inconoscibile, il quale ci scuote l’anima sola, nuda e a volte disperatamente piangente.

 


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