La frase che dà il titolo a questo articolo venne scritta da Ruth Maier su un biglietto inviato alla poetessa Gunvor Hofmo, dalla nave che la portava ad Auschwitz, dove morì. Erano amiche e forse amanti, ma la delicatezza del loro rapporto e la tragica fine della Maier segnarono per sempre la vita della poetessa.
Gunvor Hofmo, nata nel 1921 e morta nel 1995 a Oslo. Nel 1943 la sua amica Ruth Maier fu deportata ad Auschwitz e il dolore per questa perdita è centrale nella poetica di questa autrice. Purtroppo la forte depressione di cui si ammalò dopo la scomparsa di Ruth, la costrinse a lunghi periodi di inattività. Ebbe numerosi riconoscimenti, premi e borse di studio che le consentirono di viaggiare e di studiare a Parigi e in altre capitali europee.
La sua poetica ha molti punti in comune con quella del grande Paul Celan[1], che ho scoperto proprio grazie a Gunvor Hofmo, e con tutti quei poeti sopravvissuti all’olocausto, pur non essendone stata vittima.
Ora però facciamo parlare la poesia della Hofmo; la prima è Non c’è più un giorno qualunque, una lirica a forte impatto emotivo, leggiamola insieme attentamente:
Dio, se ancora vedi:
non c’è più un giorno qualunque.
Ci sono solo urla mute,
ci sono solo cadaveri neri
appesi ad alberi rossi!
Senti che quiete.
Ci voltiamo per andare a casa,
ma li incontriamo sempre.
E tutto quel che sentiamo a un tratto
è il respiro degli uccisi!Se camminiamo sbadati:
è la loro cenere che calpestiamo.Dio, se ancora vedi:
non c’è più un giorno qualunque.
Nella poesia della Hofmo il messaggio ha un forte timbro spirituale, è la lacerazione introspettiva di una credente, che vacilla davanti al dolore, allo strazio, al vuoto.
Ma, siccome avevo citato Celan, mi permetto di richiamare l’attenzione sulla connessione tra tre poeti: Celan, Mandel’stam, Hofmo e i loro simboli poetici. Celan parla di Latte Nero, come prima Osip Mandel’stam[2] parlerà di Terra Nera; la Hofmo ha i Cadaveri Neri.
Celan e la Hofmo hanno l’olocausto e Mandel’stam ha la repressione sovietica, i gulag, i suoi compagni di lotta e di pensiero trucidati. Tutti e tre vivono in paesi nordici, dove la neve con il suo soffice manto, impone il silenzio. Il silenzio è l’omertà di chi ha permesso tanto orrore; nel silenzio le grida delle anime disperate sono assordanti.
In quest’immensità di dolore vacilla la fede in Dio, anche per quelli più convinti. È il caso della Hofmo, che ha con l’entità superiore un rapporto conflittuale, come si evince in questa bellissima poesia breve e intensa, dal titolo Non esiste:
Non esiste
ciò che diede la pioggia
ciò che diede i venti
ciò che diede la neve.
L’incosciente lamento
di un uccello nel sonno lo ha detto:
Non esiste!
I dubbi, la rabbia e il dolore non scalfiscono la fede di Gunvor, nonostante il silenzio di Dio, accetta la terribile quiete come sua manifestazione d’esistenza. Lo affermano i versi terribili della poesia Dio non parla:
Dio non parla a
me come a Mosè
non mi abbatte
come Giobbe
ma Egli è nella
tremenda quiete
dentro di me.
(…)
Dio non parla oppure Dio è morto, come diceva Guccini, davanti alle atrocità dell’umanità non si può vedere la luce divina e c’è ancora chi uccide e commette ogni genere di disumanità in nome di fantomatiche divinità.
Quante colpe ha la nostra cultura occidentale, la nostra violenza religiosa perpetrata nei secoli dal cristianesimo? Quanti morti con pelle da vecchio e cuori bambini sono rimasti sulla sabbia, che pietosa, giorno dopo giorno l’ha ricoperti?
Oggi la neve della Hofmo è stata sostituita dal deserto, il bianco dal giallo, il nero dal rosso, il rosso a volte mescolato al blu del mare. Sicuramente ci sono più colori nel deserto, ma nel deserto nulla cresce senza la cooperazione e l’amore; nel deserto si è rosi dentro dal sole bruciante e si muore con pelle da vecchio anche a cinque anni per disidratazione.
Noi ci siamo dimenticati di ascoltare il vento del deserto; abbiamo preferito il silenzio omertoso, il consumo sfrenato. E ora, davanti alla tragedia dei migranti, delle città disintegrate dalle bombe, delle teste mozzate, dei bambini dai ventri spezzati, ci stupiamo: abbiamo paura e reagiamo costruendo nuovi muri, alzando nuove barriere di cartapesta.
L’arte, diceva Celan nel famoso discorso a Darmstadt nel 1960 (Il Meridiano), è una cosa circolare, non ha inizio e non ha fine, si alimenta di nuovi frutti ma i contenuti di dolore restano per tutti, in tutti i tempi. Ecco perché mi ha colpito la frase della Maier: perché anche noi qualche volta di fronte a tanta afflizione, che passa sui nostri televisori e che guardiamo quasi con indifferenza, se non con insofferenza, dovremmo chiederci, così come fece Ruth, perché non dobbiamo soffrire, se c’è tanta sofferenza?
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