Un focolare color cielo
Inizio con lo scusarmi per il “salto di pubblicazione” che, vi sarete accorti[1], la rubrica ha subito due settimane fa, per motivi che vorrei definire “cause di forza maggiore”.
Ora, per ributtarci nel pieno dell’azione, possiamo cominciare dalla questione del titolo lasciata sospesa l’ultima volta, poiché credo di aver trovato un compromesso che compromesso non è: d’ora in avanti, ciascun numero avrà un titolo tutto suo che esulerà dal semplice “Nome dell’opera”, e gli eventuali “titoli a mezza pagina” resteranno tali. Agli atti, più che di un compromesso assente, stiamo parlando di un capriccio arbitrario del vostro autore; un capriccio sul quale sono sicuro potrete sorvolare.
Primo esempio di questa “verve onomastica” è quello che avete cliccato per leggere queste righe. Spero sia un link di vostro gradimento.
Ciò detto, proseguiamo come da copione.
Il blu è un colore caldo: quando la trasposizione filmica diventa… Sesso lesbico.
Ritengo che molti di voi, a questo punto, siano completamente indifferenti al titolo, mentre il risultato della trasposizione filmica vi stia intrigando.
Scherzi a parte, mettiamo un po’ d’ordine nella testa di chi non abbia familiarità con l’opera: la graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, annata d’oro 2010, è la “fonte” della pellicola di Abdellatif Kechiche La vita di Adele, che nel 2013 si è aggiudicata la Palma d’oro di Cannes.
Does it ring a bell now?[2]
Per chi non lo sapesse, il film in questione, per quanto elogiato all’infinito dalla giuria, è stato oggetto di un numero non inferiore di critiche per il modo (in apparenza) tirannico in cui il regista ha voluto gestire la sua troupe. Ciò che, tuttavia, ha davvero sconvolto il mondo del cinema, è la mole inusitata di scene di sesso esplicito che hanno occupato una discreta fetta della pellicola e coinvolto le due protagoniste della vicenda, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos; scene che, a dire dell’autrice della graphic novel, erano estranee alle sue vignette inchiostrate.
Proprio il sesso è stato da molti indicato come il principale margine di differenza tra le pagine di Maroh e i fotogrammi di Kechiche. Tuttavia, se mi è concesso dire la mia (e qualcuno, a questo riguardo, ha avuto la cortesia di mettermi a disposizione una rubrica bisettimanale), è su un altro aspetto che si misurano le distanze tra l’opera del 2010 e la sua trasposizione del 2013.
A differenziare “Il blu è un colore caldo” da “La vita di Adele” non è il tempo “a schermo” dedicato a due ragazze che si contorcono in posizioni sempre più complesse (il sesso e la nudità li aveva già tirati in ballo e raffigurati la giovane autrice francese, per quanto in via meno estrema), bensì due approcci diversissimi a una pregnante, toccante storia d’amore tra una coppia di persone.
Se il film di Kechiche indulge in simposi saffici e filosofici, nel rapporto tra arte e sessualità e nel dolore infinito delle relazioni infrante, il volume di Maroh è una storia che, per quanto profonda, ci si presenta nella sua immediatezza, in una sua ingenuità (prestatemi un’accezione positiva del termine) deliziosamente adolescenziale e infinitamente tenera, in tavole bianconere dove il blu del titolo, fedele al suo ruolo, svetta come una fiaccola, illuminando una storia i cui i personaggi sono più loquaci, rumorosi e simpatici delle figure discrete e silenti che appaiono e scompaiono nel film, che contemplano il mondo con gli occhi di chi sa di muoversi all’interno di una grande opera.
Che dire, dunque, delle mie preferenze al riguardo?
Confesso che il fumetto ha toccato corde più profonde di quelle raggiunte dal film, ma non credo ciò debba svalutare la pellicola. Queste due opere, ruotanti attorno alla stessa vicenda, sono a mio parere da osservare e godere separatamente, affidate a un giudizio individuale. In ogni caso, consiglio vivamente entrambe[3].
Concludo il numero odierno con una chicca che con quanto detto finora ha ben poco a che fare.
Dovete sapere che, nel mio caso, la visione del film ha preceduto la lettura del fumetto: la prima ha avuto luogo nella penombra rassicurante di una sala di proiezione pavese destinata, quella sera, a pellicole “intellettuali”; la seconda sotto le luci insistenti del Como-Pavia Trenord, una domenica soleggiata.
È proprio sulla prima istanza che vorrei concentrarmi (e concentrarvi). Lasciate che classifichi, in maniera rapida ma neanche troppo approssimativa, le reazioni degli spettatori alle “scene hard” incriminate nella pellicola di Kechiche, avvalendomi a questo scopo del mio impeccabile (???!!!) francese.
1) Le Moralist: prevalentemente over 60, impegnato/a ad argomentare l’oscenità delle vicende a schermo con la/il propria/o consorte col massimo tono di voce a sua disposizione; in assenza della/l partner, probabilmente, alcuni/e di loro sarebbero scalati/e nella categoria 2).
2) Le Arrapeu: fascia d’età indefinita tra i 15 e i 50, i cui elementi hanno osservato con la massima attenzione l’avanzamento delle scene in corso senza proferire parola, ma limitandosi a riporre la giacca a vento sulle gambe, ovviamente per evitare di calpestarla accidentalmente.
3) Le votre Auteur: in teoria ventenne, ma tacciabile di età indefinita, ha trascorso il tempo ridendo come in preda a un raptus isterico al pensiero che, al successivo cambio di inquadratura e al relativo cambio di posizione, le due amanti sarebbero apparse fuori dal loro appartamento, sedute gambe a penzoloni sul ramo di un albero, passandosi una sigaretta con pacata lentezza[4].
4) Le Pierrot: età variabile, include tutti coloro che non rientrano nelle categorie sovra elencate.
Davide, chiudo. Al prossimo giro!