Sì, caro lettore, forse la morte è un tema che mi ossessiona (come testimoniano alcuni miei articoli precedenti), forse perché nella realtà in cui viviamo non possiamo fare a meno di scrutarla, osservala, analizzarla, riesumarne le tipologie e le modalità, da vicino tra le pagine dei quotidiani e le diverse testate giornalistiche; forse perché come ognuno di noi, lettore o scrittore, consumatore della vita, la incontro di giorno in giorno, nuova eppure vecchia compagna.
Quindi, qualche mese fa, spulciando tra gli scaffali di una mia amica, mi saltò subito agli occhi, fui attratto come lucciola, mi soffermai (o meglio il mio sguardo indugiò abbastanza lungamente) sul titolo seguente: Le intermittenze della morte. Le intermittenze. Della morte. Intermittenze?
Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pure che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse avvenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.
(José Saramago, Le intermittenze della morte, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2012, op. cit. p. 13)
Si definirebbe un miracolo. Non potrebbe chiamarsi in altro modo, dopotutto. In un paese non meglio identificato (come in ogni narrazione fantastica che si rispetti) la signora dal lungo manto di tenebre e dalla falce ancora più lunga e affilata non ammazza più nessuno. Certo, lo scrittore non suggerisce un idea patinata di immortalità, non è affatto gentile con chi dovrebbe passare all’Oltremondo e invece resta a insudiciare la superficie del globo. Resta come non-morto, in uno stato sospeso.
No, non parla di zombie. almeno non come li intendiamo noi, come si sono imposti nel nostro immaginario.
Ma, riallacciandomi all’incipit dell’articolo, José Saramago (Nobel nel 1998) tratta uno degli argomenti più angoscianti e definitivi con un linguaggio nuovo, con una certa immediatezza e freschezza che mi ha profondamente stupito (un po’ come il film Her di Spike Jonze).
Nella prima parte della sua narrazione fantastica Saramago approfondisce, non senza una buona dose di ironia e retorica, la reazione dei singoli soggetti al mitico-meraviglioso evento, dilungandosi in un elenco sciolto e scomposto sui diversi modi di affrontare un fatto, una realtà che effettivamente non si è mai registrata lungo i vari nodi del filo di Arianna che è la storia. Semmai si è registrato, più volte, un aumento del nero flagello, mai l’assenza di quell’unica certezza.
Dunque come reagire alla cessazione della morte?
Questo è sicuramente un quesito paradossale. Dovremmo reagire con gioia (come effettivamente capita nei primi capitoli del racconto), dovremmo essere sommersi da una scarica di felicità intensa e persistente; potremmo riporre nel cassetto quell’orrore che ci marcisce dentro e, in molti casi, ci consuma. Potremmo salutare, dire addio al supremo dolore, all’assenza del caro estinto e rallegrarci, infinitamente gioire di quella luce perpetua che ci arde dentro e che è vita.
Ma ne siamo così sicuri?
Saramago, molto semplicemente, sembra accennare di no. Lungo il primo centinaio di pagine anzi insiste nel sottolinearci la necessità della morte, del cambiamento generazionale, del continuo flusso che non può (in realtà si, nella sua finzione) ne deve essere interrotto.
Il messaggio dell’autore, all’epoca della stesura del racconto, già ottantenne, si trascina piano (ma vario) seguendo gli umori di una prosa cristallina ma slegata da fissità dialogiche o descrittive, fluida e semplice. Questo sino a quando non entra in scena la grande assente.
La seconda parte della narrazione si focalizza proprio sugli umori, oserei scrivere sentimenti, della donna (sì, la morte è incontrovertibilmente donna, Saramago lo precisa sin da subito) che ha deciso di prendersi quella che banalmente e modernamente definiremmo una lunga pausa di riflessione.
Nulla di nuovo o particolarmente interessante: la seconda parte del racconto corre infatti piana verso la conclusione poetica, risulta priva di mordente ma, dopotutto, riesce a raggiungere l’obiettivo dell’autore: rendere la morte vulnerabile, piccola, priva di tutta quella capacità di angosciare l’animo umano; anzi, la rende, in fin dei conti, completamente umana.
Ora, le intenzioni del narratore portoghese sono evidenti sin dalle prime parole e le vicende raccontate, tutte allegoriche, infarcite di maschere e personaggi senza nome non fanno altro che affermare più e più volte non solo la necessità della morte, quanto l’inutilità diretta al timore che proviamo per lei.
Certo, Saramago, grazie alla magia di cui solo le parole sono capaci, riesce a farci conoscere l’inconoscibile, riesce ad infonderci una deliziosa, malinconica serenità durante la lettura, una beatitudine d’animo che perdura anche giorni dopo aver concluso il nostro viaggio tra le pagine del suo racconto.
Sembra scontato che Le intermittenze della morte, scritte ad un’età così veneranda, assolvano al compito di quietarci e di prepararci, senza timore, all’ultima, viva esperienza, che ognuno di noi è chiamato ad compiere, che risulti essere una, soffice, affettuosa pacca sulle nostre spalle, un lungo, a tratti radioso incoraggiamento a non temere nulla e ad accettare con somma serenità una condizione che ci rende tutti uno più vicino all’altro, tutti umani.
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