Edmund Blair Leighton, God Speed!

Ivanhoe di Walter Scott: costruire il Medioevo

Tra la tarda primavera e gli ultimi giorni del novembre del 1819 Sir Walter Scott scrisse di getto quello che sarebbe diventato uno dei romanzi di maggior successo del secolo decimonono: Ivanhoe.

La prima edizione dell’opera, pubblicata allo scadere del medesimo anno, si presentava all’impaziente lettore in una veste lussuosa in tre volumi che ne accentuava il mistero: su una copertina marrone, infatti, senza alcun ghirigoro, era impresso il titolo, Ivanhoe e il sottotitolo “A Romance” a cui si aggiungeva la dicitura: By the author of Waverley.

Non vi era alcun riferimento allo scrittore, nemmeno nelle prime pagine del volume in cui si poteva leggere un’introduzione scritta da un certo Laurence Templeton che sosteneva di avere scritto il libro ispirandosi ad un manoscritto anglo-normanno.

Inganno letterario di stampo romantico che, nemmeno a dirlo, non ingannò nessuno.

Le copie della prima edizione, 10.000, andarono a ruba in un batter d’occhio sino a costringere l’editore inglese a stamparne il doppio sin dai primi giorni dell’anno successivo, il 1820, a cui si aggiunsero le innumerevoli edizioni che vennero pubblicate negli Stati Uniti e in tutta Europa nei mesi successivi e a cui fecero seguito, negli anni e nei decenni a venire, adattamenti, plagi, seguiti, versioni ridotte, riduzioni teatrali, drammi musicali e infine le edizioni per ragazzi.

Un successo enorme, senza precedenti, che fece guadagnare a Scott, oltre alle lauree honoris causa conferitegli da Oxford e Cambridge e un titolo nobiliare da parte di sua maestà Giorgio IV, anche una cifra da capogiro che, purtroppo, il nostro buon amico non seppe far fiorire a causa di una serie di investimenti tutt’altro che lungimiranti e che, anzi, dilapidò sino a ridursi all’indigenza appena pochi anni dopo quel colpaccio, condizione nella quale lasciò questo mondo nel 1832.

Frank Schoonover, Illustrazione per Ivanhoe
Frank E. Schoonover, illustrazione per Ivanhoe

Un colpaccio non del tutto prevedibile ma che si spiega considerando più attentamente il contesto in cui il buon Scott concepì e poi scrisse il romanzo, anni in cui i secoli bui, che avevano suscitato tanti sbuffi e rimbrotti durante l’età dei Lumi, venivano rivalutati alla luce del clima romantico che si diffondeva non solo in Inghilterra ma in tutti gli stati (già sorti o prossimi venturi) del vecchio continente.

Furono proprio quelli gli anni in cui i dieci secoli di storia che separavano la caduta dell’impero romano alla scoperta dell’America assunsero nell’immaginario collettivo una fisionomia che ci risulta ancora oggi familiare: cavalieri, castelli e foreste cosparse di rovine già ispiravano all’epoca i poeti nella stesura dei loro versi così come i pittori per la creazione di vedute melanconiche al chiaro di luna o, ancora, gli architetti per l’edificazione degli edifici neogotici, ma è l’opera di Scott che dette un apporto determinante nella costruzione di questo immaginario.

Il futuro baronetto di sua maestà riuscì a scrivere un romanzo in cui la realtà storica dell’Inghilterra feudale, fatta di numerosi signori in perenne conflitto tra loro, di tornei in cui si affrontavano possenti cavalieri rivestiti di scintillante metallo policromo, coesistesse con la dimensione propria del meraviglioso, in cui le stesse figure e gli stessi luoghi assumono una forte carica simbolica e archetipica.

Lo si vede sin dalle prime pagine: la prima scena di Ivanhoe, ad esempio, è ambientata in una foresta fitta fitta attraversata da angusti e accidentati sentieri e da un ruscello che diffonde nell’ambiente silvestre le deliziose note dell’acqua che placida scorre tra le querce frondose.

Lo scrittore, fedele alla realtà storica di quei luoghi, descrive una foresta realmente esistita ammantandola però di quei dettagli che la rendono allo stesso tempo la foresta delle fiabe e delle leggende, un luogo dove si consumano gli incontri di tutti gli eroi della vicenda e dove si può essere prima vittime di un’imboscata e poi commensali di un lauto banchetto innaffiato di birra. È significativa la descrizione del Castello di Torquilstone, lo scenario dove è ambientata la seconda parte del romanzo. Dopo la descrizione del torneo di Ashby infatti, dove vengono presentati tutti i personaggi, l’azione si sposta all’interno di questo edificio in cui sono tenuti prigionieri parte dei protagonisti.

La descrizione di questo maniero, tutto torri, cuspidi e pareti dal profilo aguzzo che svettano minacciose sull’ambiente circostante, richiama da vicino il romanzo gotico che Scott tanto amava. Nell’oscurità che si annida nei grandi saloni, interrotta dai colori iridescenti della luce che entra dalle vetrate, è del tutto possibile imbattersi nell’animo inquieto di una strega tormentata dai suoi peccati o scorgere nella semioscurità i resti putrescenti del precedente inquilino di una prigione sotterranea.

N.C. Wyeth, Illustrazione per le Leggende di Carlomagno, 1950
N.C. Wyeth, Illustrazione per le Leggende di Carlomagno, 1950

Se lo spazio tratteggiato da Scott mescola realtà e immaginazione, cercando di mantenere una fedeltà storica ma richiamandosi al fantastico e al meraviglioso di tradizione romantica, lo stesso accade per i personaggi, che vengono rappresentati sia come figure archetipiche, sia come personaggi verosimili.

Verosimili, ad esempio, sono il porcaro Gurth e il giullare Wamba, i primi personaggi che incontriamo e così anche il cavaliere che da il titolo al romanzo, quel Wilfrid d’Ivanhoe, giudicato non a torto un personaggio un po’ insipido da Victor Hugo. Ivanhoe non è il classico eroe romantico, ma un uomo comune che compare in un numero ridottissimo di scene, il fido consigliere di quel Riccardo Cuor di Leone protagonista, assieme a Robin Hood, di un numero piuttosto ampio di leggende.

Queste e altre figure, come la bella ebrea Rebecca e suo padre Isaac, sono ben caratterizzati e le loro vicende talmente avvincenti da non riuscire a non appassionare il lettore che non può non fare a meno di immedesimarsi di volta in volta nel cavaliere diseredato che cerca di conciliarsi con il padre orgoglioso o nel servo alla ricerca della propria libertà o, ancora, nella giovane donna che non rinuncia alla propria religione, ai propri ideali anche a costo di patire numerose sofferenze.

L’intreccio che nasce da queste avventure, simile a quello che anima l’Orlando Furioso dell’Ariosto, fatte di continui inseguimenti e di battaglie, è certamente però l’aspetto che mette in maggiore difficoltà il lettore di oggi: siamo così abituati a storie complesse, sottotrame, colpi di scena, anche da parte della narrativa d’intrattenimento, che gli espedienti usati da Scott ci appaiono abbastanza noiosi e scontati, purtroppo.

È infatti impossibile non notare l’ingenuità che anima l’intero canovaccio e i numerosi errori presenti tra le pagine frutto di una prima stesura scritta rapidamente e poi non sistemata e che furono i primi elementi ad essere criticati nei decenni successivi alla pubblicazione del romanzo.

Se infatti l’opera di Walter Scott godette di un successo clamoroso per tutto il XIX secolo e per i primi decenni del secolo successivo, fu d’altra parte osteggiata da numerosi critici che ne sottolinearono, di volta in volta, i difetti sino a spingersi, come nel caso di Joseph E. Duncan, che non riusciva a spiegarsi il successo del libro, a definire il romanzo storico dello scrittore scozzese «A romantic tale for boys».

Nonostante questi giudizi Ivanhoe veniva ancora molto letto nei primi decenni del Novecento al punto da risultare il libro più richiesto nelle biblioteche inglesi negli anni Venti.

Robert Scott Lauder, Illustrazione per Ivanhoe
Robert Scott Lauder, Illustrazione per Ivanhoe

Il fascino prodotto dall’immaginario creato da Scott ha continuato a fare presa sui lettori che si sono imbattuti nella sua opera anche nei decenni successivi quando, scrive Pastoureau, era molto difficile trovare un edizione integrale di Ivanhoe in Francia, condizione valida ancora oggi in Italia, dove gli scaffali delle librerie solo di rado accolgono il romanzo più famoso del baronetto di sua maestà Giorgio IV.

Il romanzo, infatti, non gode di ottima fama: pochi lo riterrebbero un classico da leggere assolutamente, ed è ritenuto un romanzo noioso, raffazzonato, inutilmente lungo. Eppure, a una seconda lettura, questi giudizi risultano essere profondamente ingiusti, un po’ come quello di Duncan che relegava il romanzo di Scott alla letteratura per ragazzi.

Ivanhoe è certamente un romanzo colmo di difetti, dall’intreccio inverosimile ai personaggi che di sicuro non meritano di essere inseriti in quella galleria di grandi figure che ci ha lasciato la letteratura inglese (o anche russa o francese o italiana) dell’Ottocento; Rebecca forse non merita di essere posta al fianco di Anna Karenina o di Elizabeth Bennet, ma è comunque un bel personaggio ammirato dallo stesso Victor Hugo.

Ma la forza del libro di Scott non risiede negli elementi appena citati, bensì nella capacità di restituirci una realtà storica intrisa di meraviglioso, partecipe sia del realismo proprio del romanzo storico che dell’eccesso fantastico della fiaba.

Con Ivanhoe lo scrittore scozzese è riuscito a creare un immaginario talmente solido da incantare ancora oggi il lettore che decide di abbandonarsi alla sua lettura, di creare un mondo da una parte inconsistente, come un sogno, dall’altra reale, più reale di quello descritto dalla letteratura scientifica contemporanea sull’argomento che, per inciso, pur avendo modificato in parecchi punti il Medioevo descritto da Scott, non lo ha mai messo fondamentalmente in discussione.

Cos’è il Medioevo infatti?

Dove si trova se non, anche, nelle pagine di un romanzo scritto duecento anni fa che ha segnato in modo indelebile l’immaginario legato a quei dieci secoli di Storia?

 

 

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Per approfondire:

Michel Pastoureau, Medioevo Simbolico, Editori Laterza, Roma Bari 2005, pp. 303 – 314; Walter Scott, Ivanhoe, Mondadori Editore, Milano 1994.

In copertina: Edmund Blair Leighton, Buona fortuna!, 1900

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