Io non sono Islam. Un titolo strano, che può voler dire tante cose. Può sembrare una presa di posizione, un rifiuto, un rifiuto religioso. Io non sono quella cosa lì, l’Islam, quella religione. Invece la storia è un po’ diversa. Riavvolgiamo il nastro.
Immaginiamo una ragazza che ha passione per la moda. Immaginiamo anche che questa ragazza viva in un luogo che non ama, in cui non si rispecchia, e che quindi voglia andar via, magari a Londra, per realizzare il suo sogno. Non è facile, come sappiamo. Però a volte può capitare un’occasione: conosci una persona che abita a Londra, ti piace, ti affascina e decidi che è la persona giusta, che vuoi andare a Londra con lui.
Questa ragazza si chiama Islam Mitat. La giornalista Benedetta Argentieri l’ha incontrata alla casa delle donne a Qamishli, in Siria, e dalla sua storia è nata una graphic novel, Io non sono Islam, grazie al disegno di Sara Gironi Carnevale.
Islam vive a Oudja, in Marocco, e, come molte ragazze, sogna una nuova vita in Europa. In Marocco app come Tinder per conoscere persone online sono molto diffuse e molto meno stigmatizzate che da noi. Esiste anche un’app apposta per trovare la propria anima gemella. È proprio quella a cui Islam si iscrive nel settembre del 2013, e conosce questo ragazzo, Ahmed, che abita proprio a Londra. Carino, veste all’occidentale, sembra una persona dalla mente aperta, moderna. È così che l’anno dopo si sposano. Ma le fantasie di Islam si scontrano con una realtà molto diversa. Ahmed è un jihadista, e la condurrà nel cuore dello Stato Islamico.
A pensarci, non sappiamo quasi niente di cosa fosse vivere nello Stato Islamico. Conosciamo la storia di qualche jihadista, qualcuno è stato anche intervistato, ma la maggior parte delle informazioni interne allo Stato Islamico vengono dall’Isis stesso. Islam, prima a Manbjt, sulle rive dell’Eufrate, poi a Kobane, e poi di nuovo a Raqqa, ha visto nascere e crescere uno Stato fondato sulle esecuzioni di piazza, sul terrore, sulla violenza e sullo sfruttamento reciproco.
Islam non è mai sola, all’interno dello Stato Islamico, eppure non è mai stata così sola. La comunità dei jihadisti e delle loro mogli è una morsa che si stringe intorno a lei, come in una prigione senza sbarre. Non ha alcuna possibilità di fuggire: c’è sempre qualcuno che la controlla. Le illustrazioni di Sara Carnevale, a metà tra Maus e Persepolis, riescono ancora più del testo a rendere il soffocamento, il senso di impotenza e terrore, la consapevolezza di non potersi fidare di nessuno.
C’era un’intera organizzazione sociale nello Stato Islamico di cui non sappiamo niente, e che con questa graphic novel possiamo appena intuire, come se sbirciassimo dal buco della serratura. Ci rendiamo conto che ci sono bambini che sono nati nello Stato Islamico e che non hanno visto fino alla liberazione di Raqqa altra realtà che quella. Anche Islam, che oggi ha solo 24 anni, ha avuto diversi figli, da più mariti. Bambini apolidi, nati in uno Stato che non esiste.
Islam è una vittima, ma è circondata da persone che, per la maggior parte, hanno scelto di combattere nell’Isis. Le donne soprattutto fungono da reclutatrici per altre donne, svolgono un’attività di propaganda anche in Europa. L’Isis è un inferno volontario, e questo è ciò che facciamo più fatica a capire, e su cui dovremmo più riflettere. La nostra società, che riteniamo la migliore, la più bella e libera, viene rifiutata a questo punto. Viene preferita una realtà di violenza sistematica, di terrore permanente, di servitù indotta e autoindotta: è lo squadrismo, la costruzione di una società gerarchica e inflessibile, in cui chi aderisce, però, può sentirsi parte di un’idea, di un meccanismo umano superiore, volto all’eliminazione di ogni altra cosa.
Islam Mitat vive per anni in questo inferno, fino a quando non riuscirà a fuggire e verrà liberata dall’esercito curdo, arabo e yazida. Ma il marchio dell’Isis rimane, e rimarrà sempre su di lei e sui suoi figli. Sia nel ricordo, sia nei documenti che le vengono negati per potersi trasferire in Europa, sia nel rimpatrio in Marocco. Islam Mitat è stata facilitata dall’esposizione mediatica che ha avuto, e dal fatto che la stampa ha parlato diffusamente di lei. Era lei la “sposa di Isis” di cui hanno parlato a lungo i giornali americani. Ma anche questo ha significato incidere più profondamente il marchio di Daesh sulla sua persona. Anche oggi che Daesh è stato dimenticato, o almeno messo tra parentesi.
In effetti, non sentiamo più parlare di Isis. Crediamo di averlo sconfitto. Raqqa è stata liberata, Al Baghdadi è morto, pure due o tre volte. Ma il fascismo, ogni fascismo, è un idra a mille teste, e ogni volta che se ne mozza una, subito ricresce. La follia criminale di Erdogan, profondamente collluso con i jiahdisti di Daesh e Al Qaida, permetterà a Turchia e Siria di spartirsi il territorio, e agli Stati Uniti di togliersi di torno questi alleati curdi troppo democratici e socialisti. Allo stesso tempo, darà una nuova chance a questo incubo di ripresentarsi, di rivivere, di tornare a mietere vittime, a segregare, ad avvelenare con il suo culto del sangue e della morte.
È un epilogo che, in fondo, abbiamo sempre immaginato. L’Isis serve a molti. Serve a chi ci fa affari, a chi ha bisogno che la situazione in Medio Oriente rimanga incerta e precaria; serve a chi non vuole che un progetto laico e democratico trionfi. Serve anche ai nostri fascisti e ai nostri partiti xenofobi per avere sempre uno spauracchio in più da agitare, per dire che quello lì è l’Islam, e che non è possibile un Islam più laico e tollerante.
Che il fondamentalismo islamico rimanga è utile a molti, soprattutto da quando non è più così tanto pericoloso per l’Europa. Io non sono Islam, infatti, come Kobane Calling di Zerocalcare, è una graphic novel che ci ricorda di un’epoca, quella del terrorismo islamico, che sta lentamente scemando. Non abbiamo più paura dell’Isis: è un ricordo sfocato, sbiadito. Ma è così solo perché qualcuno ci ha salvati, e non gli abbiamo mai detto grazie.
Abbiamo lasciato che a fare il lavoro sporco fossero le ragazze e i ragazzi curdi, e siamo rimasti a guardare, a vedere questo esperimento di uguaglianza da lontano, alla finestra: lo abbiamo visto muoversi tra terra e rocce, e filari bassi di uva, e case bianche squadrate, nel sole e nella nebbia. Li abbiamo lasciati al loro destino, come se non ci riguardasse. Ecco, allora Io non sono Islam diventa un modo per ricordarci di questo, e vergognarci un pochino.
In Kurdistan, in Siria, e in tutto il Medio Oriente ci sono ancora donne e uomini dal destino incerto, che sono appena state liberate, ma non hanno prospettive, soprattutto se il governo turco continua a proteggere i miliziani fondamentalisti. Si può ancora agire perché questo espeirimento non venga spazzato via. Io non sono Islam serve a ricordarci anche di questo.
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Benedetta Argentieri, giornalista e regista, si occupa di Medio Oriente dal 2013, con il movimento di Gezi Park. Collabora con diverse testate giornalistiche, tra cui TPI, e ha realizzato due documentari: Our War e I am the Revolution.
Sara Gironi Carnevale è un’illustratrice. Dal 2016 realizza illustrazioni per progetti editoriali, pubblicazioni e libri in tutto il mondo. Ha lavorato con diverse realtà editoriali come il Corriere della Sera, The Washington Post, Science Magazine, De Volkskrant.