Tra il luglio e il dicembre dell’anno del Signore 1300, frate Lanfranco “de Amiziis” da Bergamo, frate Guido da Cocconato e frate Rainerio da Pirovano, dell’ordine dei Predicatori, condussero un procedimento volto ad apprendere la verità su una congregazione religiosa che si era formata spontaneamente attorno all’abbazia di Chiaravalle, nel contado di Milano. Ciò non deve stupire: nel corso del Basso Medioevo si assiste ad un vasto fenomeno di rifioritura spirituale e di nascita di nuove forme di devozione e di esperienza religiosa, con un variegato rapporto rispetto all’istituzione Chiesa, ed era preciso compito degli inquisitori determinare quali tra queste potessero venire incorporate, com’era accaduto appunto ai Predicatori o ai Minori[1], quali si potevano tollerare, come il beghinaggio d’Oltralpe, e quali infine dovevano essere sanzionate e represse per la loro natura ereticale.
Tuttavia, l’indagine condotta dai nostri tre frati aveva alcuni caratteri alquanto peculiari, e meritevoli di maggior attenzione. In primo luogo, la loro inchiesta aveva per oggetto principale una donna già morta da vent’anni. Anche questo non deve stupire: il processo inquisitoriale aveva come compito primario di stabilire una verità dell’ortodossia, e nell’897 era capitato addirittura ad un papa, il celebre Formoso, di venire imputato in quello che divenne noto come “Sinodo del cadavere”. Quello che tuttavia sorprende è che, nei vent’anni trascorsi tra la sua morte e il processo, quella donna non solo aveva ottenuto l’onore di venire sepolta nell’abbazia di Chiaravalle, ma aveva iniziato a godere fama di santa, autrice di miracoli e ispiratrice di visioni salvifiche.
Di quella donna purtroppo sappiamo ben poco: gli atti processuali – peraltro mutili e incompleti – si concentrano principalmente su quegli uomini e quelle donne che l’avevano conosciuta in vita e ne perpetravano il ricordo, e dunque tramandano solamente un ritratto agiografico. Per contro, le domande degli inquisitori sono rivolte a vincolare le risposte degli interrogati perché corrispondessero al mosaico da loro istruito, e dunque componessero un’immagine di eterodossia. A questo si è aggiunta una doppia coltre di distorsioni di segno opposto: da un lato alla nostra protagonista e alle sue seguaci è stata conferita l’accusa infamante di indicibili depravazioni a sfondo sessuale che da sempre si usa per condannare l’eresia e particolarmente l’eresia al femminile; dall’altro le si sono attribuiti caratteri e discendenze leggendari, tanto affascinanti quanto ahimè non comprovati dalle fonti.
Nondimeno, possiamo comunque provare a mettere in fila i frammenti a noi noti per ricostruire uno squarcio di Medioevo. Per quanto esigui, quegli sprazzi serviranno come base per un racconto alquanto inusitato, di come sia stato possibile che una persona ricevesse del tutto inopinatamente i caratteri di santità, per poi subire altrettanto rapidamente il marchio di eretica. È una storia bizzarra, poiché la protagonista agisce assai poco e sparisce presto dalla scena; pure, tutti gli altri personaggi le ruotano attorno e tutti gli avvenimenti derivano dalla sua eredità. Vi presento dunque la storia di Guglielma di Milano, detta – a lungo e impropriamente – “la Boema”.
Già la scelta di questo appellativo potrebbe sconcertare il nostro gentile lettore, e si rende dunque necessaria una spiegazione: è convenzione indicare i personaggi della storia medievale con il nome della città in cui hanno maggiormente vissuto e operato, e dove dunque sono stati compiuti gli atti che ne hanno causato la notorietà. Ciò è maggiormente valido per gli ecclesiastici, i quali non raramente assumevano anche un nuovo nome con l’ordinazione. Di conseguenza, la scelta di un toponimo identifica non tanto il luogo di provenienza di una persona, ma la scena in cui si è resa memorabile.
La nostra Guglielma, dunque, viene identificata con la città di Milano. Sappiamo in effetti che lei ha vissuto qui nella seconda metà del XIII secolo, nella parrocchia di San Pietro all’Orto, fino alla propria morte, avvenuta il 24 agosto, giorno di San Bartolomeo, dell’anno 1281 o 1282. Un mese dopo il decesso, era stata traslata con ampio onore ed un vasto seguito all’abbazia di Chiaravalle, dove era stata rivestita con una camicia di seta ed uno scapolare di lana bianca donati da un monaco[2] e quindi solennemente tumulata.
L’appellativo di “Boema” non è mai attestato negli atti processuali né nelle fonti coeve. Il primo a tributarle questo titolo è Giovanni Pietro Puricelli, un sacerdote e intellettuale del XVII secolo che dedica a Guglielma una fondamentale ricerca basata sui materiali d’archivio. È grazie a lui che finalmente si supera un’immagine mitica della donna eretica come dedita alle orge e alla depravazione carnale. Tuttavia, da Puricelli sorge un nuovo equivoco di segno opposto: a partire da un’interpretazione alquanto marcata di una dichiarazione di Andrea Saramita, intimo di Guglielma e imputato al processo, lo studioso traccia una genealogia mitica secondo la quale Guglielma era figlia di Ottocaro I dei Premislidi, re di Boemia e padre – curiosi e involontari paralleli – di sant’Agnese di Boemia, amica e corrispondente di santa Chiara d’Assisi e cugina di sant’Elisabetta di Turingia.
Secoli dopo, nel 1837, giunge a Milano František Palacký, storico e politico ceco. Nelle sue ricerche per una storia nazionale boema, gli capita sotto mano la dissertazione di Puricelli, e con essa la nozione di questa Guglielma come figlia di Ottocaro. Inizialmente scettico, nondimeno pubblica stralci del processo, e successivamente inserisce in una tavola genealogica “Vilemina” tra i figli del Premislide. Palacký diverrà così fonte principe di quanti studiosi, boemi ed italiani di ritorno, attribuiscono alla nostra eretica una provenienza boema che gli studi più recenti e rigorosi hanno dimostrato non godere di sufficienti prove.
Un’ulteriore dimostrazione di quanto la pista boema non possa dirsi sostenibile sta nel brano di una cronaca compilata nella città di Colmar, non lungi da Strasburgo, che all’anno 1301 riporta:
Nell’anno precedente venne dall’Inghilterra una donna molto bella e parimenti faconda che diceva di essere lo Spirito santo per la redenzione delle donne; e battezzò donne nel nome del Padre e del Figlio e suo. Morta, fu condotta a Milano e ivi cremata: frate Giovanni di Wissenburg, dell’ordine dei frati Predicatori, diceva a molti di aver visto le sue ceneri[3].
Nonostante alcune incongruenze, sono molti i legami tra la cronaca di Colmar e la vicenda di Guglielma: frate Giovanni di Wissenburg aveva vissuto a Milano; di Strasburgo era nativo frate Giovanni “de Colboze”, collaboratore di frate Guido da Cocconato che abbiamo incontrato all’inizio. Soprattutto, a portarci a identificare Guglielma nella donna descritta dalla cronaca sta la singolare identificazione di sé con lo Spirito santo.
La natura di Guglielma è l’argomento principale delle domande che i tre inquisitori rivolgono agli uomini e alle donne che le sono stati vicini, e si tramuterà in seguito nell’accusa che li porterà al rogo. Attorno alla donna si era formato un gruppo discretamente vasto, che gli inquisitori chiamano sprezzantemente conventicola e che invece si identificava come familia, ad indicare un legame più stretto. Di questa familia facevano parte laici, come quell’Andrea Saramita che abbiamo già menzionato, sacerdoti ordinati come prete Mirano da Garbagnate, e consacrate dell’ordine delle Umiliate, tra cui spicca principalmente soror Maifreda da Pirovano, della casa di Biassono. Vi erano personaggi del tutto oscuri ed altri ben più illustri, come ser Danisio Cotta e i giurisperiti Guglielmo Cotica e Manfredo da Greppa, futuri alleati di Matteo Visconti. Un insieme assai eterogeneo, accomunato dalla conoscenza di quella donna singolare.
Dal 1274 alla morte, Guglielma aveva abitato in una casa acquistata dai cistercensi di Chiaravalle proprio con la mediazione di Andrea Saramita. Il suo corpo era stato traslato prima a Biassono nella domus delle Umiliate e poi all’abbazia, dove era stato tumulato. E lì a Chiaravalle aveva iniziato a diffondersi il culto di Guglielma. Da principio il gruppo si era contraddistinto per aver adottato un vestiario comune, nerastro come gli abiti della loro ispiratrice, e per riunirsi in specifiche occasioni in onore della defunta, lodandone la memoria e riportando le sue pie parole. Ben presto a Guglielma vengono attribuiti miracoli, la sua tomba diviene meta di pellegrinaggio e si prende a raffigurarla con l’iconografia di santa Caterina, o nell’atto di sciogliere prigionieri dal carcere e di redimere Ebrei e Saraceni. La donna mortale viene ora identificata come una nuova incarnazione dello Spirito santo, e si attende la sua resurrezione.
Questa convinzione l’aveva accompagnata già in vita. Durante la deposizione davanti agli inquisitori, soror Maifreda aveva dichiarato che spesso Guglielma aveva respinto chi le chiedeva una grazia od una guarigione dicendo: «Andatevene, io non sono Dio», e a chi invocava la sua santità replicava di essere una donna «di carne ed ossa», «una vile donna ed un vile verme». Una tale negazione era per i suoi seguaci nulla più di una manifestazione evidente della sua vera natura di santa, perché il santo cristiano non è mai santo nelle proprie parole, ma viene riconosciuto per tale da altri. Ma questo agli inquisitori interessa poco. La loro attenzione è tutta per l’altra affermazione, quella riportata nella cronaca di Colmar.
Guglielma non ha mai detto di sé di essere lo Spirito santo, e ha respinto più volte con orrore una tale rivendicazione. Tale pretesa sorge invece dai suoi prossimi, in particolare Andrea Saramita e Maifreda da Pirovano. Alla familia – che si attribuisce il nome di Figli dello Spirito santo – sono rivolti scritti i cui titoli riverberano di echi biblici – “Epistola di Sibilla ai Novaresi”, “Profezia del profeta Carmeo a certe città e popoli” – e i racconti su Guglielma iniziano ad acquisire i caratteri della cristomimesi. Nello scenario intessuto da Maifreda, l’incarnazione dello Spirito nel corpo che abbiamo conosciuto come Guglielma è solo l’annuncio di una nuova resurrezione, e come la venuta di Cristo segnò a suo tempo una discontinuità nel Secolo, così il ritorno di Guglielma avrebbe inaugurato una nuova era dello Spirito santo, ed un rinnovamento della Chiesa e del mondo tutto. Non solo Guglielma redimeva ebrei e saraceni, i tradizionali esclusi dalla salvezza portata da Cristo: al suo ritorno soror Maifreda sarebbe stata installata, pacifice et quiete, sul soglio di Pietro quale vicaria di Guglielma, e avrebbe rifondato la Chiesa al femminile e posto fine all’autorità e ai riti della curia presente.
La critica storica ha dibattuto a lungo sulla colpevolezza della nostra imputata: Guglielma era veramente eretica, o non lo era ed eretici piuttosto erano i suoi seguaci? Non lo possiamo sapere – ed è peraltro ozioso: la cosa interessante è questo piccolo mosaico di eterodossia sorta spontaneamente e svanita altrettanto rapidamente. Come era facile ad intuirsi, la fine è presto scritta: frate Lanfranco, frate Guido e frate Rainerio conclusero la loro istruttoria, e affidarono buona parte dei Figli dello Spirito santo al braccio secolare. Andrea Saramita e Maifreda da Pirovano arsero sul rogo nell’anno del Signore 1300. Tra il 2 e il 9 settembre di quello stesso anno vennero riesumati i resti di Guglielma: le fiamme sancirono la santità falsa della donna eretica.
Per un lungo periodo, della nostra protagonista rimasero poche voci: la sua familia divenne nel racconto una setta dedita alla depravazione carnale, dove i membri si univano gli uni con gli altri in spregio al matrimonio e alla decenza. Quando infine, grazie a Puricelli, questa leggenda fu archiviata, la si sostituì con una di segno opposto: la pretesa discendenza regale di Guglielma e la sua presunta contiguità a numerose figure di sante costituirono una figura mitica, regale e remota, assai lontana dalla donna «di carne ed ossa», con quel giusto alone di fiaba per permettere la nascita di voci. La consacrazione definitiva fu il titolo di “Boema”, ingiustificato e posticcio, e nondimeno ancora oggi l’appellativo più diffuso per indicare Guglielma.
Quello che ci rimane, al di là della vicenda di questa donna sommersa dal tempo, è un affresco dell’Europa medievale, assai diversa da come siamo soliti immaginarla: vediamo una società dai rapporti molto più intrecciati e complessi, vediamo uno spazio di contiguità tra laicato e clero che oggi è deserto, vediamo una pluralità di azioni talvolta divergenti in quello che ci appare il corpo monolitico della Chiesa di Roma. Ma sopratutto, vediamo come santità ed eresia non siano categorie con valore in sé, ma dipendono necessariamente dal giudizio di un altro che le rende tali. Guglielma non si credeva santa, ma era reputata tale da chi la circondava, al punto da ispirare visioni e miracoli. Con l’intervento degli inquisitori, la sanzione di eretici si abbatté su di un gruppo che non si concepiva e non intendeva porsi fuori dalla Chiesa, e nondimeno è stato consegnato alla Storia come tale.
In copertina: L’Abbazia di Chiaravalle in una stampa del 1880.
Fonte principale ed imprescindibile per la scrittura di questo articolo sono stati gli studi di Marina Benedetti, professoressa di Storia del Cristianesimo all’Università Statale di Milano, e in particolare il volume Io non sono Dio. Guglielma di Milano e i Figli dello Spirito santo, nel quale viene dipinta la figura di Guglielma e la sua trasformazione da santa ad eretica, nonché le varie ricostruzioni e riletture degli storici posteriori, dal mito boemo alla suggestione femminista. Chi intendesse indagare maggiormente la questione troverà lì sia un ampio affresco della storia dei Figli dello Spirito santo, sia tutti i riferimenti puntuali alle varie fonti. Naturalmente, qualsiasi limitazione o mancanza possa esserne sorta è da attribuirsi esclusivamente a me.
Per approfondire:
Grado Giovanni Merlo, Il cristianesimo medievale in Occidente e Eretici ed eresie medievali.
In questi volumi, agili ma assai ricchi, Grado Merlo presenta in maniera minuziosa la storia di come la cristianità in Europa arriva a consolidarsi e ad assumere i tratti con cui noi oggi la identifichiamo, dall’articolazione del potere alla costruzione della propria identità, fino al riconoscimento dell’eterodossia come corpo estraneo da espellere.
Marina Benedetti, Condannate al silenzio. Le eretiche medievali.
Questo libro indaga il mondo dell’eresia al femminile, mettendo in evidenza come, nonostante la loro attiva e vivace presenza, le donne eretiche vengono presto relegate ai margini della scena e infine, come riporta il titolo, condannate al silenzio. Oltre a Guglielma vi compaiono nomi famosi come Margherita Porete e Giovanna d’Arco, e con loro tutto un mondo spesso trascurato e tacitato di non conformismo tanto religioso quanto sociale.