Testimone diretto del panorama artistico e culturale del Novecento, nonché suo prolifico partecipe, Angelo Eugenio Dorfles detto Gillo (12 aprile 1910 – 2 marzo 2018) ha senza dubbio lasciato un segno indelebile nel nostro tempo, sia in qualità di artista sia come attento critico e osservatore.
Dopo la sua recente scomparsa, molto è stato detto e scritto in suo ricordo. Aggiungere qualcosa forse sarebbe superfluo, tuttavia essendo la sua persona emblema di una vita spesa per l’arte, credo sia doveroso ricordarlo anche all’interno di questa rubrica che ha fatto della cultura artistica e della sua diffusione, uno dei pilastri.
Per la sua incredibile poliedricità o per quella rara capacità di sapersi relazionare ad ogni linguaggio esistente, Dorfles fu in grado di vivere, senza esserne calpestato, lungo un secolo così denso e difficile, da poter tranquillamente affermare e sorridere di fronte all’evidenza che egli sia nato sotto il segno degli Asburgo ma si sia spento sulle note della nostra più viva contemporaneità.
Nato e cresciuto in una Trieste che nei primi anni del Novecento rappresentava un luogo di incontro fra spiriti colti e avventure culturali, inizia la sua formazione attraverso la conoscenza diretta di Italo Svevo, Umberto Saba, Dino Buzzati e sotto il fermento della psicoanalisi.
Lui stesso confesserà che le sue aspettative da ragazzino erano molto confuse, il linguaggio artistico era ancora qualcosa di latente e relegato al solo atto di dipingere o disegnare le pagine dei libri scolastici e i banchi di scuola.
In parallelo ad un percorso universitario in medicina con specializzazione in psichiatria, dagli anni Trenta inizia a dare voce alla sua passione approfondendo gli studi sulla pittura, l’estetica e il mondo delle arti in generale.
«Ho preso una laurea in medicina perché ho pensato che fosse una cosa seria, ma non ho mai esercitato. La medicina è cambiata man mano dal basso al meglio, ma non è mai arrivata all’altezza dell’arte. Non c’è confronto possibile!».
A Milano conosce alcuni degli artisti che gli saranno compagni per la vita come Lucio Fontana, all’epoca ancora studente di Brera o Fausto Melotti e nel 1948, insieme a Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, fonda il Movimento Arte Concreta (MAC), «con l’obiettivo di dar vita a un linguaggio artistico nuovo, in grado di assimilare e di superare le ricerche astratte europee dei decenni precedenti».
Il MAC si propone come un movimento innovativo, lontano e svincolato da ogni passato accademico e volto ad incoraggiare la creatività e i rapporti fra le diverse discipline, esaltando in questo modo tutti i settori della vita moderna.
Negli anni seguenti, il Movimento si espanderà in altre città oltre Milano e comprenderà non solo pittori o scultori, ma anche architetti, industrial designers e grafici.
Per l’Italia di allora fu senza dubbio una rivoluzione multidisciplinare destinata a segnare un punto di non ritorno.
Con la fine della stagione del MAC – che coincise anche con un suo distacco dai presupposti della pittura concreta a favore di un espressione pittorica orientata verso la totale liberazione da ogni costrizione – il pittore cede man mano il primato al critico e all’insegnante di estetica; la sua attenzione è rivolta non solo alla pittura, scultura e architettura moderna e contemporanea ma soprattutto ai fenomeni comunicativi di massa, alla moda e al design.
Moltissime a tal proposito le opere che possono essere ricordate, tra queste: Discorso tecnico delle arti (1952) Nuovi riti, nuovi miti (1965), Artificio e natura (1968), Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto (1972), con cui per la prima volta introdusse e sdoganò in Italia il concetto di Kitsch.
Fu autore di numerose monografie su artisti di varie epoche, scrisse volumi dedicati all’architettura e al disegno industriale. Di recente poi è stato pubblicato La mia America, un racconto del suo viaggio negli Stati Uniti e degli incontri con noti studiosi di estetica e critici d’arte come Thomas Munro e Clement Greenberg, oltre agli architetti della East e West Coast.
Un’immensa testimonianza quindi, una curiosità longeva e in perenne movimento. Ma se alle sue opere critiche è da sempre concesso un posto di rilievo, non bisogna dimenticare che le opere artistiche, sebbene dagli anni Ottanta subiscano una battuta di arresto, continuarono ad essere esposte e valorizzate.
La pittura, magari secondaria alla grandezza del pensiero intellettuale, è forse la sola in grado di trasmetterci la dimensione più intima ed eclettica del suo essere.
Nella produzione di Dorfles – che spazia dai lavori su tela, alle ceramiche, sino alle sculture – si ritrovano mondi immaginari, racconti quasi onirici che prendono vita attraverso gesti spontanei, sinuosi e naturali.
Definita “organica” e “vagamente surreale”, la sua pittura rimane indiscussa protagonista nella narrazione di un universo fantastico, che assume agli occhi dello spettatore un linguaggio fluido, libero ed istintivo pur confinato entro segni precisi che si rafforzano in una dimensione del colore vibrante e vitale.
Forme enigmatiche che sembrano emergere dall’inconscio e che non possono, o forse non vogliono essere leggibili, sono una costante presenza che fa pensare dunque ad un tentativo di tradurre in arte una ricerca interiore.
«Dorfles crea inedite creature, organismi indefinibili, nati da contaminazioni tra mondo umano, animale e vegetale, fluttuanti e dinamici in un perenne processo di evoluzione: una pittura libera, carica di immagini fantastiche, dove l’immagine entra nell’opera non più dalla natura esteriore, ma piuttosto da quella interiore dell’artista, assumendo gli infiniti aspetti e la poesia che le relazioni delle forme suggerite dalla fantasia possono determinare[1]».
Nella produzione più recente agli elementi fantastici si aggiungono quelli appartenenti ad una realtà meccanica; in opere come Robot II (1987), o Cybernauta del 2001 si colgono anche sentori di inquietudine, che ritornano in Perplessità, o Incubo giallo, entrambi del 2000 e in cui Dorfles cattura quell’incertezza interrogativa che avvolge l’alba di un nuovo millennio.
È proprio in queste fasi recentissime che, ormai centenario, ha realizzato i suoi capolavori come Vitriol (2010): una figura amorfa dai toni grigio-verde in cui si legge la scritta esoterica Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem (Visita l’interno della terra, rettificando troverai la pietra nascosta). Era il suo personale invito a non temere la profondità o la complessità delle cose, una ripresa della massima: Conosci Te Stesso.
In quegli occhi penetranti e interrogativi è possibile leggervi quella stessa profonda e non banale vita che ha caratterizzato il suo autore.
La terra è espressione di un corpo umano, un corpo fisico e Vitriol quindi rappresenta la storia di un uomo alla ricerca, quella ricerca che ha accompagnato anche Gillo Dorfles e che ora vuole essere omaggiata con la nascita di una Fondazione nella sua casa-museo. Essa servirà come punto di partenza a ricercatori e studiosi per approfondire la figura dell’intellettuale, un invito a non perdere mai il controllo di una ragione eclettica ed aperta, anche dopo la sua morte.