Nell’immaginario europeo le grandi foreste continuano a vivere. Sono le foreste in cui ci imbattiamo nelle fiabe, quelle in cui possiamo ascoltare i canti dell’allegra brigata di Robin Hood o il canto degli elfi di Tolkien. Le foreste intricate suscitano un fascino ambivalente in noi: ci attirano, perché rappresentano l’ignoto, la possibilità di un’avventura da vivere; ma ci spaventano anche perché sono sede del mostruoso e del diverso, di una realtà tanto lontana da risultare ormai aliena.
Questa idea di alieno e di mostruoso nasce solo a cavallo tra alto e basso Medioevo, quando il continente europeo inizia ad essere tappezzato da un candido manto di chiese e di città, per usare la metafora di un cronista medievale, Rodolfo il Glabro, che non può fare a meno di notare un fenomeno tanto esteso.
Fino a quel momento, infatti, boschi e foreste erano parte della vita quotidiana delle persone. Nell’ambito della cultura, per esempio, le più antiche Chansons de geste, come quella di Orlando, non si soffermano sulla descrizione degli ambienti silvestri. Ciò avviene sia per il modo con cui sono trattati gli spazi all’interno di queste opere, mai descritti nel dettaglio, sia perché il bosco non era percepito come uno spazio alieno, ma come una realtà conosciuta, quotidiana, e su cui quindi non era necessario soffermarsi.
Le Chansons de geste vengono composte in un’epoca in cui le città iniziano a popolarsi, vi sono più pellegrini, sempre più mercanti; le strade, i campi e i pascoli fanno posto a quelle che erano le foreste che coprivano l’Europa e che si erano estese da quando, dopo la caduta dell’impero romano, le città erano state abbandonate.
Questi fenomeni fanno si che i boschi diventino uno spazio non più abitato dagli esseri umani e che dunque si sviluppi il concetto di foresta vero e proprio. La parola stessa foresta, che troviamo simile in gran parte dell’Europa, deriva dal latino foris, cioè “al di fuori”: è foresta tutto ciò che sta fuori dal raggio d’azione umano. Non è un caso che quando si parla, almeno in italiano, di persone straniere si parla appunto di forestieri.
Questo fu un processo lungo e contraddittorio. Per esempio in Irlanda si conservò sino in età molto avanzata l’eredità del folklore celtico, che vedeva nella selva qualcosa di assolutamente altro, una porta verso un mondo metafisico, in cui vigono delle leggi diverse rispetto a quelle degli esseri umani. In questo caso il senso di estraneità dato dalla foresta non nasceva da una maggiore urbanizzazione ma al contrario da una familiarità con la natura e dalla contrapposizione tra campagna e foresta incolta. È quella che verrà definita la “soglia”, cioè il passaggio al mondo feerico, il mondo degli elfi, delle fate e dei folletti, che sarà fondamentale nel folklore europeo e per lo sviluppo della fiaba in età moderna.
La foresta nell’immaginario medievale: Chrétien De Troyes
Un autore che ben rappresenta il passaggio dalla concezione altomedievale a quella bassomedievale della foresta è il poeta francese Chrétien De Troyes, che scrive nei decenni centrali del XII secolo. Nei suoi romanzi cavallereschi la foresta inizia ad assumere il ruolo che avrà nei secoli successivi. Perceval, ad esempio, protagonista del suo ultimo romanzo, vagabonda in una foresta molto estesa, così come fa Yvain, che addirittura regredisce allo stato di selvaggio per tutta la prima parte del racconto.
All’epoca di Chrétien De Troyes le corti diventano sempre più importanti, e con esse anche il pubblico, sempre più colto, che non si accontenta più dei racconti orali dei menestrelli. Chrétien riesce a trasformare in senso cortigiano la tradizione precedente delle Chansons de geste e in particolare della materia di Bretagna, cioè i racconti su re Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Questi racconti sino a quel momento erano parte della tradizione letteraria anglosassone che tendeva a sovrapporre storia e invenzione.
Per esempio l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth era nelle sue intenzioni un’opera di cronaca storica. Chrétien reinterpreta e riscrive questa tradizione in senso puramente letterario, con l’obiettivo esplicito di farne un’opera di fantasia per un pubblico nuovo, sempre meno legato al mondo rurale e desideroso di mistero e magia.
La foresta è il luogo ideale in cui collocare avventure magiche e costituisce un elemento centrale nella storia di Yvain. Questi nella prima parte del romanzo parte per vendicare il cugino, ucciso nella foresta di Brocelandia, in Bretagna: è proprio in questo luogo che smarrisce se stesso, spogliandosi dei suoi vestiti e vivendo come un animale.
Durante le sue avventure incontra alcuni personaggi che vivono ai margini della comunità e in particolare un eremita lo aiuta a ritrovare i costumi civili e ad uscire dalla foresta. È evidente come all’epoca vivere nei boschi o ai margini di essi significhi stare al di fuori della società e della civiltà: l’idea stessa di essere umano era legata all’urbanità, o al massimo alla ruralità, cioè alla natura addomesticata. Non è un caso che Yvain incontri un eremita, cioè qualcuno che ha fuggito il consesso umano, e che, anche etimologicamente, “selvaggio” derivi proprio da “selva”.
Robin Hood e il Romanticismo
Ai margini della foresta si collocavano tutte le categorie marginali nella società: gli eremiti, i lebbrosi, i malati, e, infine, i briganti. Tra i briganti, il più famoso è di certo Robin Hood, che nel nostro immaginario contemporaneo è sinonimo di medioevo. Un medioevo però diverso rispetto a quello di Chrétien, perché concepito molti secoli dopo, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, durante il Romanticismo.
Infatti, anche se la prima testimonianza scritta su Robin Hood risale 1377, con il poema Piers Plowman di William Langland, è solo grazie al Romanticismo che la figura di Robin Hood viene riscoperta e diviene ciò che conosciamo oggi. Nel 1765, infatti, il poeta inglese Thomas Percy pubblica una grande collezione di ballate e canzoni popolari, le Reliques of Ancient English Poetry, otto delle quali riguardano proprio la figura di Robin Hood, e che costituiscono un piccolo poema in cui il personaggio viene descritto sotto aspetti diversi, spesso molto più duri e diversi dal Robin Hood “buono” a cui siamo abituati.
Tuttavia, si conosce poco riguardo la datazione di queste ballate e, anche se la loro autenticità non è mai stata messa in dubbio, e probabilmente risalgono nel XV secolo, è da ricordare come all’epoca la riscoperta del passato non fosse esente da riscritture e alterazioni ideologiche: è celebre il caso dei Canti di Ossian che venne fatto circolare dal suo autore come un antico poema.
Questo significa che la figura di Robin Hood è molto più legata alla sua fortuna successiva e a scrittori come Walter Scott, che la riprenderà all’interno del suo Ivanhoe, che non al mondo medievale vero e proprio. Per esempio la foresta come viene descritta in queste ballate ha molto più a che fare con il concetto di locus amoenus che non di selva oscura e intricata:
Quando i boschi sono pieni di luce, e l’erba è rigogliosa
E il fogliame folto,
è piacevole camminare nella bella foresta
e ascoltare il canto degli uccelli.Il tordo selvatico cantava senza tregua,
posato su un ramoscello,
e il suo canto era così acuto che svegliò Robin Hood,
che dormiva nella verde foresta[1].
Tutta la ballata è raccontata dal punto di vista di Robin Hood, e anche la visione della foresta è coerente con questo punto di vista; solo un brigante, solo un emarginato dalla società o un essere pericoloso per la società stessa poteva identificarsi completamente con la selva, cioè con il luogo del pericolo.
La foresta nell’Europa rinascimentale e moderna
Questo aspetto sarà centrale nella cultura orale dell’età moderna. È dopo la fine del medioevo, quando le grandi foreste europee iniziano a sparire, che la foresta diventa sempre più lo scenario ideale in cui collocare le avventure che leggiamo nelle fiabe.
Spesso pensiamo infatti a questo genere letterario come a un prodotto del medioevo, ma in realtà l’immaginario fiabesco si sviluppa tra il Cinquecento e il Seicento e raggiunge il proprio apice con il Romanticismo; è l’ambientazione a essere medievale in quanto proprio in quell’epoca il medioevo iniziava ad assumere dei caratteri di mistero e di indefinito. Il medioevo sembrava essere il periodo ideale in cui raccontare delle storie senza tempo e in generale rappresentava l’idea di un’epoca in cui tutto poteva accadere: il magico e l’irrealistico, lo strano e l’inaspettato.
Nella fiaba il bosco rappresenta la vita, con le sue prove e gli ostacoli che l’eroe deve affrontare. Il bosco è il luogo in cui le paure e i desideri assumono concretezza: Cappuccetto Rosso deve attraversare il bosco e incontra il lupo; Pollicino viene abbandonato dai suoi genitori e deve trovare il modo per tornare indietro; Hansel e Gretel, invece, trovatisi nella stessa situazione, scoprono la casa d marzapane della strega (che rappresenta appunto il desiderio) e la sconfiggono.
Anche nella poesia colta del Rinascimento vediamo come il bosco abbia un ruolo fondamentale: nell’Ariosto è la sede delle ricerche e dell’incontro dei personaggi mentre nel Tasso diventa simbolo del diabolico, dell’inaccessibile, della prova che non può essere superata, della paura.
Sorge non lunge a le cristiane tende
tra solitarie valli alta foresta,
foltissima di piante antiche, orrende,
che spargon d’ogni intorno ombra funesta.
Qui, ne l’ora che ‘l sol più chiaro splende,
e luce incerta e scolorita e mesta,
quale in nubilo ciel dubbia si vede
se ‘l dì a la notte o s’ella a lui succede.Ma quando parte il sol, qui tosto adombra
notte, nube, caligine ed orrore
che rassembra infernal, che gli occhi ingombra
di cecità, ch’empie di tema il core;
né qui gregge od armenti a’ paschi, a l’ombra
guida bifolco mai, guida pastore,
né v’entra peregrin, se non smarrito,
ma lunge passa e la dimostra a dito.Qui s’adunan le streghe, e il suo vago[2]/
con ciascuna di lor notturno viene;
vien sopra i nembi e chi d’un fero drago,
e chi forma d’un irco[3] informe tiene:
concilio infame, che fallace imago
suol allettar il desiato bene
a celebrar con pompe immonde e sozze
i profani conviti e le empie nozze[4].
Con toni danteschi Tasso descrive la selva di Saron, il bosco più vicino all’accampamento dei crociati che stanno assediando Gerusalemme ormai da diversi anni. La selva è un tripudio di orrori che impediscono ai crociati l’accesso e la possibilità di approvvigionamento. Per la maggior parte dei crociati sarà una prova che non riusciranno a superare; solo Tancredi, uno dei protagonisti del poema, riuscirà ad addentrarvisi e a rompere l’incanto.
La prima caratteristica su cui si concentra Tasso è la mancanza di luce della selva; gli alberi sono fitti e intricati e impediscono alla luce di accedere al di sotto delle loro chiome al punto da rendere difficile distinguere il giorno e la notte, l’alba e il tramonto.
La selva inoltre si contrappone alle campagne circostanti, che rassicurano gli uomini con i loro spazi aperti e la possibilità di vedere anche a grande distanza; ciò che caratterizza la foresta come spazio altro, diverso e non umano è proprio il fatto che nessun pastore vi porterebbe le sue pecore e nemmeno un viandante o un pellegrino si arrischierebbe ad entrarvi. È così che la foresta diviene il terreno del soprannaturale e dunque, all’interno di una visione cristiana, del diabolico. Lo spazio oltre la soglia.
Shakespeare e Tolkien: la foresta che si muove
Lo spazio dedicato alle foreste nell’immaginario europeo degli ultimi secoli continua a crescere man mano che le stesse foreste europee vengono bruciate dalla prima rivoluzione industriale e dal progresso. Se nella finzione diventano l’ambiente ideale in cui collocare tutto ciò che vi è al di là della ragione, nella realtà sono sempre più piccole sino a diventare dei ricordi.
Come la foresta è usata da Tasso per spaventare i cristiani, così anche Shakespeare la usa per suscitare emozioni nei suoi personaggi. L’idea di foresta in Shakespeare è strettamente legata all’immaginario norreno e ci viene presentata come un luogo abitato da streghe, da esseri fatati e che può essere fonte di meraviglia e anche di inquietudine.
In particolare nel Macbeth la foresta è un vero e proprio strumento nelle mani dei nemici del re, che la usano per sfatare l’idea di invincibilità che il protagonista si era costruito. Quest’idea nasceva da una profezia che gli è stata fatta da parte di tre streghe secondo le quali Macbeth non sarebbe stato sconfitto sino a quando la foresta di Birnam non si fosse mossa fino a Dursinane. Ai nemici di Macbeth non rimane dunque che rendere vera la profezia nascondendosi tra gli alberi e fingendo che sia la foresta stessa a muoversi.
STAFFETTA – S’abbatta su di me la vostra collera
se non è vero: a tre miglia da qui
lo potrete vedere da voi stesso
Ho detto: una foresta che si muove.MACBETH – Se dici il falso, penzolerai vivo
al più vicino tronco,
finchè sarai seccato dalla fame.
Ma se quello che riferisci è vero,
non m’importa se fai lo stesso a me(Tra sé)
Sento venirmi meno la fiducia,
e mi s’affaccia il dubbi
sull’equivoco profetar del diavolo
che ti mentisce facendoti credere
di dirti il vero: “Non devi temere
fintanto che non vedrai avanzare
la foresta di Birnam verso Dursinane…”
Ed ora una foresta
si muove veramente verso Dunsinane![5]
Tolkien, come scrisse in una lettera al poeta W. H. Auden (in cui, peraltro, dichiarava di «disprezzare cordialmente Shakespeare») rimase particolarmente deluso dal fatto che nella tragedia la foresta non venisse rappresentata come un elemento realmente soprannaturale ma, al contrario, fosse usata come mero espediente narrativo: il muoversi della foresta è infatti un trucco.
E così nel Signore degli Anelli Tolkien ci darà un’idea profondamente diversa della foresta, e in generale della natura. Per Tolkien le foreste sono ben più di un espediente, ma un relitto, un fossile di un’epoca perduta in cui gli umani avevano accesso al trascendente.
Il Professore piange in più punti la scomparsa dell’enorme foresta che una volta ammantava le terre di cui scrive; una foresta rigogliosa e magica, in cui gli alberi si muovono e di cui, al tempo delle avventure della Compagnia dell’Anello, non rimangono che pochi frammenti. È così che Tolkien decide di personificarla, rendendola un popolo, gli Ent. Gli Ent sono i Pastori degli Alberi, creati per difendere le foreste da chi le minaccia con ascia e fuoco per alimentare le officine; essi più di tutti incarnano il passato della Terra di Mezzo, e la sua antica memoria.
Nella visione di Tolkien dunque le foreste racchiudono ciò che c’è di più intimo e fondamentale della realtà: sono il regno del magico e del fantastico che il mondo contemporaneo ha abbandonato. Rappresentano un popolo destinato a estinguersi, ma che pure è determinante per le sorti dell’universo e dell’umanità. E, questa volta, si muoveranno per davvero.
Leggi anche: J.R.R. Tolkien, creatore di miti e di mondi.
Per approfondire:
J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo, Laterza, 2005
J. R. R. Tolkien, Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2003
Antiche ballate inglesi e scozzesi, a cura di Giovanna Silvani, Cappelli Editore, 1974
Chrétien de Troyes, Yvain o il cavaliere del leone, Edizioni dell’Orso, 2011
Cristina Sereno, La foresta nel Medioevo: temi e direzioni d’indagine (consultabile qui)
In copertina: Hans Andersen Brendekilde, Luce nella foresta d’autunno, 1911, olio su tela.