Anno: 1904. Tra gli artisti che interiorizzarono l’atmosfera culturale di inizio Novecento trasformandola in arte, si mostra la figura di Luigi Pirandello. Il Novecento si apre infatti con la crisi delle idee positiviste, la crisi della fede, di qualsiasi fede: è una vera e propria “crisi dell’uomo”, crisi delle sue capacità. L’uomo del Novecento, infatti, non può più confidare in Dio, né in un sapere assoluto. Non ha più alcuna certezza: è, per così dire, figlio del Caos, come ebbe a dire ironicamente di sé Pirandello, nato proprio nel 1867 a Caos, frazione di Agrigento («Io dunque son figlio del Caos»).
Di conseguenza si radicarono nella sua filosofia concetti come la metamorfosi, l’alienazione, l’inconoscibile, la maschera e l’incomunicabilità, che l’artista svilupperà nelle sue opere maggiori. Ne “Il fu Mattia Pascal”, e più precisamente nel capitolo XII, Luigi Pirandello descrive così la differenza tra l’uomo dell’Ottocento e l’uomo del Novecento, facendo del Signor Anselmo il portavoce della crisi di valori del suo secolo.
In un teatrino di marionette venne rappresentata l’Elettra di Sofocle, espediente utilizzato da Paleari per mettere a confronto Oreste con Amleto e dunque cogliere la differenza tra il teatro antico e il teatro moderno. Quest’ultima riflessione divenne allegoria della vita e degli uomini-marionette:
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata nel buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette,» sospirai, «su cui le teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto sproporzionato.
E il prototipo di queste marionette, caro signor Anselmo,» seguitai a pensare, «voi l’avete in casa, ed è il vostro indegno genero, Papiano. Chi più pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra, comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, pronto a chiuder gli occhi e ad alzare in remissione la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni marachella: – Ajutati, ch’io t’ajuto?
(Luigi Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1993 p. 152)
Pirandello volle far risaltare diverse tematiche che da sempre costruivano la sua filosofia; tra di esse, cadde sotto il riflettore del lettore “un buco nel cielo di carta”. Perché proprio nel cielo si creò? Perché il buco che egli osservava venne formato attraverso la perdita del concetto di Dio. L’uomo dell’Ottocento aveva il cielo e le spalle coperte da Dio, era già al corrente di tutte le conseguenze annesse alle scelte che avrebbe potuto fare; semplificando, esistevano due strade da poter percorrere: la strada del bene conduceva alla gloria eterna, alla beatitudine, a Dio e dunque al Paradiso, mentre la strada del male conduceva alla pena degli inferi, al Diavolo, all’eterno castigo.
La coscienza novecentesca, invece, non deteneva consapevolezza, in quanto il cielo si era svuotato, Dio era morto e l’eroe cominciava ad estinguersi. L’uomo del Novecento era governato dal caso e da esso frustrato; l’uomo del Novecento attendeva minacce al di là del comportamento, delle scelte e dunque veniva esposto a crisi e smarrimento.
Una pagina nella storia della letteratura che verrà riaperta negli anni a venire.
Anno: 1975. In “Dio”, opera teatrale contenuta nella raccolta “Citarsi addosso”, Woody Allen crea le basi per un confronto tra il teatro greco e il teatro moderno facendo interagire gli attori, lo scrittore, il regista e il pubblico. La scena viene ambientata ad Atene nel 500 a.C. circa, luogo in cui un attore e uno scrittore discutono sullo sviluppo del finale del loro spettacolo; in seguito a vari quesiti entrano in scena molteplici personaggi, tra cui una ragazza del pubblico, un anomalo coro da tragedia e lo stesso Woody Allen; il tono è dissacrante e umoristico, le tematiche trattate sono firmate Woody Allen (la sessualità, il rapporto con Dio e l’importanza della filosofia ad esempio) e la trama ad anello (il finale e l’incipit coincidono, coinvolgendo il lettore in un vortice infinito) possiede un ritmo incalzante.
Infine l’ipotesi di un finale viene scritta tra le pagine: la discesa di Zeus, accompagnata da fulmini e maestosità, salva l’uomo; tuttavia l’entrata in scena del Dio avviene in seguito all’alzata della leva errata, dunque il filo dell’apparecchio lo strangola.
Effetto: Lampo. Zeus viene abbassato goffamente e continua a balzare finché vediamo che il filo dell’apparecchio l’ha strangolato. Tutti guardano, esterrefatti.
TRICHÌNOSI: Qualcosa non funziona nella macchina! E’ sfasata!
CORO: Finalmente l’entrata di Dio! (Ma egli è decisamente morto.)
DIÀBETE: Dio… Dio? Dio? Dio, stai bene? C’è un medico in sala?
DOTTORE: (dalla platea) Io sono un medico.
TRICHÌNOSI: La macchina si è ingarbugliata.
EPÀTITE: Psst. Esci. Stai rovinando la commedia.
DIÀBETE: Dio è morto.
DOTTORE: Aveva la mutua?(Woody Allen, Dio, Citarsi addosso, Milano Tascabili Bompiani, 1976 p.154)
L’esistenzialismo viene racchiuso dal famoso regista nella crisi dell’uomo del Novecento, perso a causa di un buco nel cielo di carta.
In effetti Woody Allen è l’artista contemporaneo che maggiormente incarna “la crisi dell’uomo”, come Luigi Pirandello a suo tempo. Tuttavia l’atmosfera non è l’unica analogia tra i due artisti, in quanto un tratto distintivo coincide nel loro stile: l’umorismo. Una tipologia di umorismo che Pirandello, nel suo saggio in prosa “Umorismo” (1908), definì “sentimento del contrario”, dunque la comprensione delle ragioni drammatiche sottese a un determinato comportamento. In seguito alla comicità e “all’avvertimento del contrario” e dunque ad una prima risata dovuta ad una superficiale constatazione della realtà e ad una buffa espressione della “maschera”, si entra in contatto con le problematiche che tormentano l’uomo (“l’avvertimento del contrario”) che scaturiscono nel lettore riflessione e un riso amaro.
A più di un secolo di distanza da “Il fu Mattia Pascal”, il tormento permane nell’uomo inalterato e Dio a volte sembra che sia risorto solamente nell’ultima strofa della canzone dei Nomadi e di Francesco Guccini («In ciò che noi vogliamo Dio è risorto, / nel mondo che faremo Dio è risorto!»).
Tuttavia non bisogna denigrare la crisi, in quanto essa spesso diviene Musa di artisti oppure materia modellabile di filosofi. Essa è insita rivoluzione. Bisogna accettarla e contemplarla per il suo essere indice di cambiamento: «Ogni volta che passa una crisi/resta qualche traccia[1]».
In copertina: Cristoforo de Predis, Morte del sole, della luna e delle altre stelle, XV secolo